TRADOTTI
ANEDDOTI SU PICHON
di Alfredo Moffat
Pichon era lo scandalo, era quello che contraddiceva tutti, come nella storia dell'imperatore e del suo meraviglioso costume invisibile che non era visto da coloro che erano bastardi. Pichon dava un calcio alla tavola da gioco e diceva: "L'imperatore è nudo " (sicuro avrebbe detto "nelle palle"). In questa epoca tutti vedono il costume invisibile ma, inoltre, lo descrivono con le stesse parole, tutti vedono gli stessi disegni nel costume, per non essere esclusi dal sistema ideologico del sistema.
Pichon ti apriva la testa, in realtà te la "faceva andare in pezzi", così tu dopo puoi fare il tuo puzzle con una nuova figura. Ti parlava del drammatico nel senso del piangere e del ridere, il drammatico come l'impegno della vita. Era molto seducente nell’insegnare, era impossibile annoiarsi. Faceva riferimento al qui e ora che stava succedendo, e spaziava da un linguaggio sofisticato fino al lunfardo più esilarante. Sentivi che con la scienza che ti spiegava, capivi la vita.
Era cattivo (Winnicottiano), proponeva il gioco come modalità di apprendimento. Sembrava viaggiare attraverso le età, a volte aveva la sua età, e altre volte sembrava di sei anni e si permetteva degli scherzetti; a volte aveva ottantasei anni e parlava della morte. Gestiva la spontaneità a tutti i livelli, faceva delle sorprese. Tutto mediante un impeccabile e rigorosissimo metodo scientifico e un analisi di svelamento della realtà. Fondeva la scienza e l'arte, era il Pichon ragionevole, psicoterapeuta organizzatore del caos.
Molto studioso, profondo ricercatore, leggeva e conosceva tutte le correnti. La sua casa era un caos di libri. Aveva interesse per tutto, pittura, ecologia, cibernetica, il pensiero filosofico. Aveva una grande cultura letteraria e artistica, di una formazione universale come ne ho conosciuto pochi.
Poteva anche essere un sottilissimo professore francese (Ginevrino), uno squisito psicanalista e, allo stesso tempo, poteva essere a suo agio a parlare in lunfardo con un gruppo di fannulloni in una cantina miserabile. Conteneva tutto l'umano.
Sono arrivato ad Enrique nel 1967 quando pubblicavo il libro “Strategie per sopravvivere” a Buenos Aires e Pichon mi offrì di presentarlo nella Scuola. Enrique mi attirava perché era una persona molto strana, io ho conosciuto molte persone molto importanti come Paulo Freyre, David Cooper, Jacob Moreno, personaggi molto interessanti e comunque nessuno mi ha fatto l'effetto che mi ha fatto Enrique.
Pichon conosceva la cultura del “guapo correntino”[1], sapeva della cultura del nottambulo porteño perché l'aveva vissuta, sapeva delle puttane, dell'emarginazione estrema, della cultura dell'ospizio. Ha lavorato nel giornale “Critica” con Roberto Arlt, era medico personale di Discépolo, che gli dava delle indicazioni sul significato dei testi di tango. Per esempio, gli "ha confessato" (impiegando quel linguaggio che usava così bene), che nel tango Uno, la delusione non era per la donna ma per Yrigoyen, "Uno cerca pieno di speranza..." il fallimento della fede, per il tradimento politico di Yrigoyen.
Veniva incluso nella più aristocratica dell'elite intellettuale, nell'intelligenza argentina, amico dei grandi pensatori e allo stesso tempo lavorava, dialogava e capiva i pugili al Luna Park. Una volta mi disse: "Ho capito il concetto di morte di Heidegger lavorando con un gruppo di pugili al Luna Park, perché il pugile ha l'esperienza della morte accidentale per un colpo mal dato". Comprende Heidegger al Luna Park...! Una volta ha fatto un elettroshock mentre il paziente dormiva, a quel tempo io so che si faceva con un'anestesia precedente, con attenzione.
Mi raccontava di Cerletti, anche se poi lo criticava. Era uno psichiatra italiano che ha inventato l'elettroshock a partire da un'osservazione che ha fatto in un mattatoio di maiali; lì avevano un pungolo elettrico che quando lo applicavano al maiale non urlava più e si lasciava uccidere, è un gran casino uccidere un maiale, resistono e urlano molto... Pensate a venti maiali... gli davano il pungolo allo stile di Camps e osservò che si tranquilizavano. Disse: "Se funziona con i maiali può funzionare anche con un pazzo che urla"; tuttavia non è mai stata trovata una ragione scientifica che sostenesse questa brutale aggressione "terapeutica".
Pichon ha fatto esperienze come quella di Rosario in cui hanno analizzato non solo una famiglia o un gruppo operativo ma tutta una comunità in un dato momento. Era con Bleger, Liberman, Fiasché e Ulloa, i suoi primi discepoli, che poi furono i maestri della psicologia dinamica. Pichon disse qualcosa e diede alcuni stimoli sui problemi della depressione, della paura, su ciò che girava in quel momento in quella città; la gente è stata ai gruppi operativi, ha lavorato e ha portato emergenti che sono stati rielaborati. Si ottenne qualcosa come una radiografia di com'era la salute mentale in quel momento e in quel posto. La vita di Pichon, il suo adattamento rapido e il suo coraggio, è descritta dal famoso aneddoto di Bleger. Quando stavano per salire sul treno di Rosario, Bleger (che era un ossessivo da manuale) si spaventò e disse ad Enrique: "E se quando arriviamo a Rosario ci tirano la merda?". Pichon lo guardò e gli rispose: "Quello sarà il primo emergente".
Pericolosamente seducente, ti poteva spiegare qualsiasi cosa: la follia, la morte, l'amore, l'immortalità, diceva sempre cose molto poetiche sull'esistenza e gli piacevano le cose sinistre, era un po' sadico e gli piaceva coinvolgerti in una certa esperienza drammatica esistenziale forte. Diceva sempre le cose con tanto amore e contenimento, anche se ti apriva un po' la porta che dà alla cantina e tu ti impaurivi, ma poi lo ringraziavi di averti fatto conoscere la tua cantina. Lo faceva spontaneamente, come un karateca, come con il kung-fu, che va per strada come un bischero con la borsetta e arriva uno dietro a colpirlo, e in quel momento si gira e lo colpisce con un calcio volante.
Pichon non scriveva, non è che me lo ha confessato ma io sono sicuro che non scriveva perché se uno scrive non ti vengono a vedere, non hanno bisogno di te in forma diretta e lui era un malinconico grave, la tristezza lo attraversava, e se quella seduzione e quel fascino che produceva li riversava in un libro, la gente lo avrebbe letto e non sarebbe stata con lui; così facendo aveva la sicurezza che avrebbe avuto gente intorno. La profonda curiosità lo portò ad introdursi nel pensiero surrealista più profondo. In realtà, in fondo, era un artista, una volta mi disse: "Il desiderio della mia vita non l'ho potuto realizzare perché avrei voluto essere un poeta, un artista". In questo senso, suo figlio, Marcelo Pichon, si è fatto carico di quel desiderio.
Lo associo a quello che ho visto in India, ai Shadus, ai medici del destino. Enrique aveva un modo di guardare... Aveva una certa crudeltà pedagogica, anche un sadismo ma tenero, all'improvviso ti apriva in due come un samurai ma poi ti cuciva e aveva ragione, lì ti rendevi conto che eri stato storto per tutta la vita...
Una volta gli dissi: "Enrique, tu sei come un padre per me" (un padre intellettuale). Mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: "Sai una cosa? A volte vorrei essere figlio tuo". Al momento mi ha sconcertato e poi ho capito che mi conferiva il permesso di crescere ed essere padre, e lui di riposare da padre e di poter essere figlio.
Quello che aveva Enrique è che seduceva ma non lusingava, al contrario, era sconcertante, sconvolgeva come un maestro zen perché rafforzava quello che diceva facendo qualcosa, qualcosa tra il poetico, il bizzarro, il surreale e lo psicotico... quel mix mi piaceva, in questo senso ci capivamo, diceva: "Tu sei mio figlio putativo"...
Negli incontri generava un clima scenico come i pazzi o gli artisti. Parlava con aneddoti, molte volte le lezioni erano aneddoti. Una volta lo stavo aiutando a prepararne una, come un Maestro Zen, doveva spiegare nella sua Scuola il metodo clinico, che aveva tre fasi: osservare, quindi operare, cioè muovere, cambiare, e infine incollare. Queste sono le fasi del metodo clinico. Aveva trovato la foto di un vecchietto che guardava da un buco un campo nudista, questa è l'osservazione, primo passo. Secondo passo è operare, io avevo regalato a lui, in Carlos Paz, un oggetto kitsch che a lui piaceva, era un orribile termometro attaccato su una chiave di plastica grande, di colore dorato. Lui con un gesto violento da bullo di film, gli strappa il termometro, si appende la chiave con una corda sul petto e mi dice: "Vai in ferramenta e compra una enorme barattolo di Poxi-Pol[2]". Poi mi ha dato le istruzioni: quando parlava di osservazione io dovevo mostrare la foto del vecchietto, quando parlava di muovere la patologia, lui mostrava la chiave che aveva appeso e quando parlava di incollare i pezzi io dovevo mostrare il barattolo di Poxi-Pol. Diceva che in questo modo nessuno si sarebbe dimenticato i tre passi: osservare, cambiare e tornare ad incollare. Usava il linguaggio psicotico della concretezza degli oggetti.
Le sue lezioni erano un po' parole, un altro poco azioni e un'altra parte metafore, che erano sempre delle più popolari, quel linguaggio concreto e molto preciso come è il linguaggio popolare lunfardo. A quel tempo si parlava molto della madre fallica, e lui diceva: va bene questo ma non bisogna dimenticare il padre coglione, che accetta la madre fallica (era molto preciso usando il linguaggio popolare).
Ha questi aneddoti così noti che io li ho trascritti nei miei libri. Come quando è venuto il pazzo, quello che credeva di essere paralizzato, stava sul divano e allucinava di essere su un binario e che veniva il treno (un paranoico). Enrique gli si gettò addosso, lo abbracciò e mentre lo faceva rotolare a terra, gli disse: "Togliamoci che ci prende...". Così facendo gli stava dando il permesso di uscire da una sensazione di paralisi, sembra qualcosa di molto forzato o molto poetico ma è, clinicamente, correttissimo. Ci sono donne colpite da mariti molto violenti che sanno che per qualche circostanza che esse sospettano, potrebbe essere che quella notte vengano uccise e comunque lo aspettano, ossia, rimangono paralizzate come sui binari, ciò di cui hanno bisogno è che qualcuno gli dica " Vattene, vattene che ti uccide ". Pichon diceva: "L'interpretazione più difficile è quella ovvia, l'ovvio è ciò che non si vede". Allora la più difficile non è la più profonda.
All'ospizio gli psichiatri dicevano che La Peña Carlos Gardel[3] fosse un gruppo di prostitute e delinquenti che entravano in ospedale, guidati da uno psicopatico messianico. Quando ho detto ad Enrique "Guarda, Enrique, dicono questo di noi ", lui disse: "Hanno ragione, il nemico è quello che meglio ti definisce, perché per loro se non fossero criminali non avrebbero attaccato il sistema, inoltre se i pazienti sono contenti è perché hanno bevuto del vino, non per la musica e per il trattamento amorevole, e se una psicologa balla con un paziente è una puttana e se tu non avessi qualcosa di psicopatico messianico, come fai a mettere venti o trenta studenti ogni sabato nel manicomio?". In realtà, chi meglio ti definisce è il nemico.
Io andavo a casa sua, e un giorno venivo dall'ospizio (ed è una schifezza, l'ospizio), stava dipingendo il cesso di nero fuori e io lo aiutavo. A un certo punto, quando ho finito di raccontargli le atrocità che si facevano lì, ha tirato la catena e mi ha detto qualcosa del genere che in un posto pieno di merda bisogna tirare la catena, trascinare tutto per farla andare via. Faceva quelle cose che sono dell'ordine del surrealista, che è vicino a quello psicotico, gli piaceva molto Lautremont e tutti quegli autori spaventosi... ma affascinanti.
Ciò che deve fare il terapeuta è trasformare il problema affinché appaia una soluzione, che è quella non-vista. E conosceva tutte le tecniche, gli piaceva raccomandare Rogers perché diceva che inizialmente lo psicologo deve essere rogersiano, così impara ad ascoltare. Lo psicologo novizio è come il pesce: muore dalla bocca, perché si affretta ad interpretare prima di avere tutte le informazioni e sbagliando si deteriora il suo strumento.
Io ho portato Tommy, il mio cugino schizofrenico, ma schizofrenico sul serio, trattato con insulina, elettroshock, ha fatto tutti i dottorati nel “Borda”, l'hanno fatto diventare merda. Tommy non accettava nessuno psichiatra per l'esperienza che aveva avuto. Quando siamo entrati, Pichon ha detto qualcosa di incoerente e poi gli ha proposto di studiare una macchia che aveva sul muro. Discutevano, Pichon e mio cugino, sul fatto se quella macchia fosse o no un messaggio da "i nemici". Ora si, ora no, Pichon disse finalmente: "Forse è solo una macchiolina e non un messaggio...". Pichon si mise nel delirio di cercare messaggi nascosti e poi tornò alla realtà definendolo come una semplice macchia. Quando siamo usciti, Tommy mi ha detto: "Voglio tornare...", sapendo che l'altro era uno psichiatra.
Io non riesco a ricordare né l'anno in cui è morto Enrique né quello in cui è morta mia madre, sono morti vicino, me lo dicono e me lo dimentico subito, perché per me non sono morti, li ho mangiati, per dirlo in modo più sottile li ho introiettati. A tal punto che due o tre giorni dopo la morte di Enrique, Tato Pavlovsky mi vide che camminavo un po' barcollante e mi disse: " Hai mangiato Enrique... non accetti che Pichon è morto, tu sei Pichon, affinché non muoia incorpori una parte di lui" (Pichon barcollava perché molte volte era ubriaco). La tristezza l'ha portato all'alcol.
La morte era una cosa metafisicamente temibile, non era una paura volgare, mi diceva: "Vieni stasera che prepariamo una lezione". Io ero come il Sancho Panza del Chisciotte, lui diceva: "Cerca un libro con la copertina verde e le lettere rosse...". Poteva essere qualsiasi cosa, da un libro di Lacan a Juan Moreira, la sua biblioteca era grande e un casino assoluto, tutta la casa era un casino, completamente caotica, perché la creazione, diceva, ha una fase precedente che è caotica, uno crea per risolvere il caos e far sì che questo non lo distrugga. Poi io cercavo e cercavo il libro dalla copertina verde, e allora gli dicevo: " Enrique, non c'è, non lo trovo". "Continua a cercare, che c'è". Ho capito che mentre io cercavo, andando su e giù per le scale, Enrique sonnecchiava, aveva bisogno che qualcuno vegliasse il suo sonno, che si facesse carico della veglia, in modo che lui potesse farsi carico del suo sonno perché equiparava il dormire con il morire, la morte per lui era un mistero con aspetti sconcertanti (anni dopo morì nel sonno...).
La tristezza era il suo nucleo. Egli ricordava con molta nostalgia un paesano, là a Corrientes, che per il capodanno tirava fuori una pistola e mentre sparava qualche colpo sul tetto diceva "Viva la tristezza...".
Una delle volte che l'ho accompagnato alla Scuola, dopo un attacco - due o tre volte sembrava che stesse per morire -, mi ha detto: "Tu sai che gli allievi mi rimproverano che non muoio... Perché loro sono sempre al limite, si preparano alla notizia della mia morte e poi appaio, li sconcerto ma non posso evitarlo, resuscito...". Quando aveva uno degli attacchi, lì lì per morire, sono andato a trovarlo in ospedale, ovviamente in un ospedale pubblico, l'Ospedale Scuola San Martino. Era in quelle situazioni di addio, poi tornava, resuscitava. Allora era tutto intubato, e siccome lui parlava sempre della morte io gli chiesi: "Enrique, dì le tue ultime parole...". E togliendosi uno dei tubi della bocca mi disse: "La vita vale la pena viverla". Lui trasmetteva speranze anche al suo addio. Uscì quella mattina dall'ospedale, c'era un sole bellissimo e ho percepito il consenso e la bontà di quell'uomo, e un’intensa sensazione di essere vivo.
Diceva frasi che io ripeto molto nelle mie lezioni, "La morte è tanto lontana quanto grande è il tuo progetto". Diceva anche che: "Bisogna avvicinarsi alla morte per poter annullarla". Se tu ti allontani, sei con la morte sempre, perché avvicinandoti alla morte ti rendi conto di cosa è la vita, la notte permette di capire la giornata.
Una volta eravamo in una taverna da due lire, credo che fosse di fronte al macello, dove ci sono taverne infernali. Siamo rimasti fino alle 3 del mattino mangiando degli spaghetti e Enrique, passato già dal Gin, di colpo mise la testa dentro agli spaghetti e io pensai: "Qui andiamo in carcere per alcolismo, ubriachezza...". Poi venne il cameriere, un giovane ragazzo con un aspetto dell'interno, correntino. Enrique era ancora lì, e io dissi al cameriere "Succede che il professore è molto stanco, ha fatto un sacco di lezioni", cercando di spiegare perché aveva la testa dentro gli spaghetti. E l'altro non capiva, era sconcertato, ma un po' strano, come in lacrime, stava male. Poi Pichon alzò un po' la testa, prese il tovagliolo, si pulì la faccia e gli disse qualcosa in Guaraní. L'altro gli rispose e poi si mise a piangere. Pichon gli disse due o tre frasi in Guaraní e si calmò. La madre era morta il giorno prima e lui aveva colto la tristezza del ragazzo. Così, semplicemente: colse quell'angoscia che aveva attraverso il modo di muovere il corpo, attraverso la voce e tutto, un'angoscia molto profonda, aveva ricevuto un colpo molto spiacevole, non era angoscia del momento. Non so cosa gli disse, erano due o tre frasi che avevano a che fare con il capire cosa gli passava per la sua anima di figlio in solitudine.
Un altro aneddoto. E' successo alla Facoltà di Medicina, in aula magna, durante un congresso sulla schizofrenia che lui presiedeva. Questo me l'ha detto Enrique, io a quel tempo non lo conoscevo. Doveva iniziare e il tema era pesante, in quel momento c'era abbastanza crisi, la schizofrenia aveva a che fare con quello che stava succedendo.
Poi apparve Enrique e cominciò a fare come se stesse cercando delle cose, quando dissero: "... E ora il dottor Enrique Pichon-Rivière sta per inaugurare...". Ci fu un gran silenzio e lui continuò a cercare dei documenti, controllò sul pavimento, si aggiustò il vestito e lì tutti i suoi discepoli vnnero presi dal panico. Bleger particolarmente, che era un ossessivo grave, inizò a tremare. Ulloa, Fiasché, tutti: "Questo è venuto ubriaco, farà una figuraccia al congresso che gli abbiamo organizzato".
L'intera stanza inizò a preoccuparsi. La gente tossiva un po', si muoveva. C'era una sensazione di disturbo, qualcosa stava accadendo, qualcosa di inappropriato. C'era qualcosa di schizofrenico nell'ambiente. La gente era sconcertata, sperava che si alzasse e parlasse. Poi, quando tutto era confuso, Enrique disse: " Ora, per la tosse e per il movimento delle sedie, vedo che è meglio ripartita l'ansia del tema e non è depositata tutta su di me. Iniziamo." Cioè, quello che percepì è che lui era il responsabile, che doveva farsi carico di tutta l'angoscia nel metterci mano e voleva ripartirla tra tutti. Era una forma di psicodramma, sentì la proiezione e si scaricò, allora gli altri dovettero prendere il ruolo di assumere loro il problema.
Un'altra volta, sono andato a salutarlo in stazione perché stava per andare a Tucumán a fondare la Scuola con Ana[4]. Prima che arrivasse il treno, mi disse: "Non ho l’ora, dammi il tuo orologio ". Io avevo un orologio che mi aveva regalato mia nonna tedesca quindici anni prima, ed ero mezzo ossessionato, guardavo sempre l'ora... "Prestamelo che te lo restituisco al ritorno"… L'orologio non l'ho più visto (alla prima stazione lo ha cambiato per due bottiglie di Gin...). Poi mi ha detto: "Io ti comprerò un orologio ma aspetta un po’ di tempo" (col cazzo che me ne ha comprato un altro). Poi mi ha spiegato che mi aveva visto guardare molte volte l'ora, molto ossessionato dal tema degli orari e tutto il resto, e quello che mi è successo quando mi ha detto che me lo avrebbe comperato era un po’ come se lui si facesse carico del tempo. E io per quattro mesi mi disinteressai del tempo, non sentivo più quell'ansia perché l'orologio lo aveva Enrique, si era fatto carico dell'ansia del tempo.
Faceva cose così, come un maestro Zen a cui l'allievo chiede come fa per difendersi e il maestro lo colpisce in testa con un bastone che ha. E poi il maestro gli dice "Quando vedi il bastone togli la testa... sciocco". Quello che vuole il maestro Zen è che lo studente percepisca l'inaspettato.
Un’altra volta, alla Facoltà di Medicina si faceva un congresso molto importante, veniva Jacob Levi Moreno, il creatore dello psicodramma. Io ero lì, ci sono andato con il colombiano Rojas Bermudez, che è colui che ha introdotto qui lo psicodramma (con lui ho fatto le mie prime sedute). Quindi erano tutti più o meno “armati”, e in quel momento entrò Pichon sul lato, lungo il corridoio... e quando arrivò vicino a Moreno si chinò un po’ e iniziò a fare "Bau, bau, bau", drammatizzando un cane. Tutti dissero: "Questo è pazzo...". Ma poi capirono che, in realtà, stava iniziando a giocare ad essere un altro, che è la base dello psicodramma, ed era un cane. Poi lui dopo me lo spiegava, a volte mi diceva qualcosa, ma agli altri non spiegava nulla, creava un enigma per fartelo risolvere.
[1] Si intende un ragazzo affascinante, valoroso, che proviene dalla Provincia di Corrientes (o Taragüí Tetãminí, nome ufficiale e costituzionale nell’idioma guaranì), una delle 23 province che costituiscono la Repubblica Argentina. Forse il termine che nella lingua italiana lo rende meglio potrebbe essere “figo”.
[2] Il Poxi-Pol è la colla
[3] La Peña Carlos Gardel era una comunità popolare formata dai pazienti che si trovavano all’interno dell’Ospedale Nazionale “Borda” a Buenos Aires, ospizio dipendente dall’Istituto Nazionale di Salute Mentale argentino. La Comunità iniziò ad essere attiva nel 1971 e venne costituita dallo sforzo congiunto di due gruppi, uno interno all’ospedale (i compagni del Club “El Fogón”, organizzato da Osvaldo García) e un altro proveniente da fuori e che si formò dopo un seminario sulla “Psichiatria sociale” che si svolse nella Scuola di Psicologia Sociale di Pichon-Rivière (Informazioni tratte da “La comunità popolare “Peña Carlos Gardel”, di Alfredo Moffat, 1974).
[4] Ana Pampliega de Quiroga, psicologa sociale e compagna di Enrique Pichon-Rivière, attuale direttrice della “Prima Scuola Privata di Psicologia Sociale” a Buenos Aires.
Pichon era lo scandalo, era quello che contraddiceva tutti, come nella storia dell'imperatore e del suo meraviglioso costume invisibile che non era visto da coloro che erano bastardi. Pichon dava un calcio alla tavola da gioco e diceva: "L'imperatore è nudo " (sicuro avrebbe detto "nelle palle"). In questa epoca tutti vedono il costume invisibile ma, inoltre, lo descrivono con le stesse parole, tutti vedono gli stessi disegni nel costume, per non essere esclusi dal sistema ideologico del sistema.
Pichon ti apriva la testa, in realtà te la "faceva andare in pezzi", così tu dopo puoi fare il tuo puzzle con una nuova figura. Ti parlava del drammatico nel senso del piangere e del ridere, il drammatico come l'impegno della vita. Era molto seducente nell’insegnare, era impossibile annoiarsi. Faceva riferimento al qui e ora che stava succedendo, e spaziava da un linguaggio sofisticato fino al lunfardo più esilarante. Sentivi che con la scienza che ti spiegava, capivi la vita.
Era cattivo (Winnicottiano), proponeva il gioco come modalità di apprendimento. Sembrava viaggiare attraverso le età, a volte aveva la sua età, e altre volte sembrava di sei anni e si permetteva degli scherzetti; a volte aveva ottantasei anni e parlava della morte. Gestiva la spontaneità a tutti i livelli, faceva delle sorprese. Tutto mediante un impeccabile e rigorosissimo metodo scientifico e un analisi di svelamento della realtà. Fondeva la scienza e l'arte, era il Pichon ragionevole, psicoterapeuta organizzatore del caos.
Molto studioso, profondo ricercatore, leggeva e conosceva tutte le correnti. La sua casa era un caos di libri. Aveva interesse per tutto, pittura, ecologia, cibernetica, il pensiero filosofico. Aveva una grande cultura letteraria e artistica, di una formazione universale come ne ho conosciuto pochi.
Poteva anche essere un sottilissimo professore francese (Ginevrino), uno squisito psicanalista e, allo stesso tempo, poteva essere a suo agio a parlare in lunfardo con un gruppo di fannulloni in una cantina miserabile. Conteneva tutto l'umano.
Sono arrivato ad Enrique nel 1967 quando pubblicavo il libro “Strategie per sopravvivere” a Buenos Aires e Pichon mi offrì di presentarlo nella Scuola. Enrique mi attirava perché era una persona molto strana, io ho conosciuto molte persone molto importanti come Paulo Freyre, David Cooper, Jacob Moreno, personaggi molto interessanti e comunque nessuno mi ha fatto l'effetto che mi ha fatto Enrique.
Pichon conosceva la cultura del “guapo correntino”[1], sapeva della cultura del nottambulo porteño perché l'aveva vissuta, sapeva delle puttane, dell'emarginazione estrema, della cultura dell'ospizio. Ha lavorato nel giornale “Critica” con Roberto Arlt, era medico personale di Discépolo, che gli dava delle indicazioni sul significato dei testi di tango. Per esempio, gli "ha confessato" (impiegando quel linguaggio che usava così bene), che nel tango Uno, la delusione non era per la donna ma per Yrigoyen, "Uno cerca pieno di speranza..." il fallimento della fede, per il tradimento politico di Yrigoyen.
Veniva incluso nella più aristocratica dell'elite intellettuale, nell'intelligenza argentina, amico dei grandi pensatori e allo stesso tempo lavorava, dialogava e capiva i pugili al Luna Park. Una volta mi disse: "Ho capito il concetto di morte di Heidegger lavorando con un gruppo di pugili al Luna Park, perché il pugile ha l'esperienza della morte accidentale per un colpo mal dato". Comprende Heidegger al Luna Park...! Una volta ha fatto un elettroshock mentre il paziente dormiva, a quel tempo io so che si faceva con un'anestesia precedente, con attenzione.
Mi raccontava di Cerletti, anche se poi lo criticava. Era uno psichiatra italiano che ha inventato l'elettroshock a partire da un'osservazione che ha fatto in un mattatoio di maiali; lì avevano un pungolo elettrico che quando lo applicavano al maiale non urlava più e si lasciava uccidere, è un gran casino uccidere un maiale, resistono e urlano molto... Pensate a venti maiali... gli davano il pungolo allo stile di Camps e osservò che si tranquilizavano. Disse: "Se funziona con i maiali può funzionare anche con un pazzo che urla"; tuttavia non è mai stata trovata una ragione scientifica che sostenesse questa brutale aggressione "terapeutica".
Pichon ha fatto esperienze come quella di Rosario in cui hanno analizzato non solo una famiglia o un gruppo operativo ma tutta una comunità in un dato momento. Era con Bleger, Liberman, Fiasché e Ulloa, i suoi primi discepoli, che poi furono i maestri della psicologia dinamica. Pichon disse qualcosa e diede alcuni stimoli sui problemi della depressione, della paura, su ciò che girava in quel momento in quella città; la gente è stata ai gruppi operativi, ha lavorato e ha portato emergenti che sono stati rielaborati. Si ottenne qualcosa come una radiografia di com'era la salute mentale in quel momento e in quel posto. La vita di Pichon, il suo adattamento rapido e il suo coraggio, è descritta dal famoso aneddoto di Bleger. Quando stavano per salire sul treno di Rosario, Bleger (che era un ossessivo da manuale) si spaventò e disse ad Enrique: "E se quando arriviamo a Rosario ci tirano la merda?". Pichon lo guardò e gli rispose: "Quello sarà il primo emergente".
Pericolosamente seducente, ti poteva spiegare qualsiasi cosa: la follia, la morte, l'amore, l'immortalità, diceva sempre cose molto poetiche sull'esistenza e gli piacevano le cose sinistre, era un po' sadico e gli piaceva coinvolgerti in una certa esperienza drammatica esistenziale forte. Diceva sempre le cose con tanto amore e contenimento, anche se ti apriva un po' la porta che dà alla cantina e tu ti impaurivi, ma poi lo ringraziavi di averti fatto conoscere la tua cantina. Lo faceva spontaneamente, come un karateca, come con il kung-fu, che va per strada come un bischero con la borsetta e arriva uno dietro a colpirlo, e in quel momento si gira e lo colpisce con un calcio volante.
Pichon non scriveva, non è che me lo ha confessato ma io sono sicuro che non scriveva perché se uno scrive non ti vengono a vedere, non hanno bisogno di te in forma diretta e lui era un malinconico grave, la tristezza lo attraversava, e se quella seduzione e quel fascino che produceva li riversava in un libro, la gente lo avrebbe letto e non sarebbe stata con lui; così facendo aveva la sicurezza che avrebbe avuto gente intorno. La profonda curiosità lo portò ad introdursi nel pensiero surrealista più profondo. In realtà, in fondo, era un artista, una volta mi disse: "Il desiderio della mia vita non l'ho potuto realizzare perché avrei voluto essere un poeta, un artista". In questo senso, suo figlio, Marcelo Pichon, si è fatto carico di quel desiderio.
Lo associo a quello che ho visto in India, ai Shadus, ai medici del destino. Enrique aveva un modo di guardare... Aveva una certa crudeltà pedagogica, anche un sadismo ma tenero, all'improvviso ti apriva in due come un samurai ma poi ti cuciva e aveva ragione, lì ti rendevi conto che eri stato storto per tutta la vita...
Una volta gli dissi: "Enrique, tu sei come un padre per me" (un padre intellettuale). Mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: "Sai una cosa? A volte vorrei essere figlio tuo". Al momento mi ha sconcertato e poi ho capito che mi conferiva il permesso di crescere ed essere padre, e lui di riposare da padre e di poter essere figlio.
Quello che aveva Enrique è che seduceva ma non lusingava, al contrario, era sconcertante, sconvolgeva come un maestro zen perché rafforzava quello che diceva facendo qualcosa, qualcosa tra il poetico, il bizzarro, il surreale e lo psicotico... quel mix mi piaceva, in questo senso ci capivamo, diceva: "Tu sei mio figlio putativo"...
Negli incontri generava un clima scenico come i pazzi o gli artisti. Parlava con aneddoti, molte volte le lezioni erano aneddoti. Una volta lo stavo aiutando a prepararne una, come un Maestro Zen, doveva spiegare nella sua Scuola il metodo clinico, che aveva tre fasi: osservare, quindi operare, cioè muovere, cambiare, e infine incollare. Queste sono le fasi del metodo clinico. Aveva trovato la foto di un vecchietto che guardava da un buco un campo nudista, questa è l'osservazione, primo passo. Secondo passo è operare, io avevo regalato a lui, in Carlos Paz, un oggetto kitsch che a lui piaceva, era un orribile termometro attaccato su una chiave di plastica grande, di colore dorato. Lui con un gesto violento da bullo di film, gli strappa il termometro, si appende la chiave con una corda sul petto e mi dice: "Vai in ferramenta e compra una enorme barattolo di Poxi-Pol[2]". Poi mi ha dato le istruzioni: quando parlava di osservazione io dovevo mostrare la foto del vecchietto, quando parlava di muovere la patologia, lui mostrava la chiave che aveva appeso e quando parlava di incollare i pezzi io dovevo mostrare il barattolo di Poxi-Pol. Diceva che in questo modo nessuno si sarebbe dimenticato i tre passi: osservare, cambiare e tornare ad incollare. Usava il linguaggio psicotico della concretezza degli oggetti.
Le sue lezioni erano un po' parole, un altro poco azioni e un'altra parte metafore, che erano sempre delle più popolari, quel linguaggio concreto e molto preciso come è il linguaggio popolare lunfardo. A quel tempo si parlava molto della madre fallica, e lui diceva: va bene questo ma non bisogna dimenticare il padre coglione, che accetta la madre fallica (era molto preciso usando il linguaggio popolare).
Ha questi aneddoti così noti che io li ho trascritti nei miei libri. Come quando è venuto il pazzo, quello che credeva di essere paralizzato, stava sul divano e allucinava di essere su un binario e che veniva il treno (un paranoico). Enrique gli si gettò addosso, lo abbracciò e mentre lo faceva rotolare a terra, gli disse: "Togliamoci che ci prende...". Così facendo gli stava dando il permesso di uscire da una sensazione di paralisi, sembra qualcosa di molto forzato o molto poetico ma è, clinicamente, correttissimo. Ci sono donne colpite da mariti molto violenti che sanno che per qualche circostanza che esse sospettano, potrebbe essere che quella notte vengano uccise e comunque lo aspettano, ossia, rimangono paralizzate come sui binari, ciò di cui hanno bisogno è che qualcuno gli dica " Vattene, vattene che ti uccide ". Pichon diceva: "L'interpretazione più difficile è quella ovvia, l'ovvio è ciò che non si vede". Allora la più difficile non è la più profonda.
All'ospizio gli psichiatri dicevano che La Peña Carlos Gardel[3] fosse un gruppo di prostitute e delinquenti che entravano in ospedale, guidati da uno psicopatico messianico. Quando ho detto ad Enrique "Guarda, Enrique, dicono questo di noi ", lui disse: "Hanno ragione, il nemico è quello che meglio ti definisce, perché per loro se non fossero criminali non avrebbero attaccato il sistema, inoltre se i pazienti sono contenti è perché hanno bevuto del vino, non per la musica e per il trattamento amorevole, e se una psicologa balla con un paziente è una puttana e se tu non avessi qualcosa di psicopatico messianico, come fai a mettere venti o trenta studenti ogni sabato nel manicomio?". In realtà, chi meglio ti definisce è il nemico.
Io andavo a casa sua, e un giorno venivo dall'ospizio (ed è una schifezza, l'ospizio), stava dipingendo il cesso di nero fuori e io lo aiutavo. A un certo punto, quando ho finito di raccontargli le atrocità che si facevano lì, ha tirato la catena e mi ha detto qualcosa del genere che in un posto pieno di merda bisogna tirare la catena, trascinare tutto per farla andare via. Faceva quelle cose che sono dell'ordine del surrealista, che è vicino a quello psicotico, gli piaceva molto Lautremont e tutti quegli autori spaventosi... ma affascinanti.
Ciò che deve fare il terapeuta è trasformare il problema affinché appaia una soluzione, che è quella non-vista. E conosceva tutte le tecniche, gli piaceva raccomandare Rogers perché diceva che inizialmente lo psicologo deve essere rogersiano, così impara ad ascoltare. Lo psicologo novizio è come il pesce: muore dalla bocca, perché si affretta ad interpretare prima di avere tutte le informazioni e sbagliando si deteriora il suo strumento.
Io ho portato Tommy, il mio cugino schizofrenico, ma schizofrenico sul serio, trattato con insulina, elettroshock, ha fatto tutti i dottorati nel “Borda”, l'hanno fatto diventare merda. Tommy non accettava nessuno psichiatra per l'esperienza che aveva avuto. Quando siamo entrati, Pichon ha detto qualcosa di incoerente e poi gli ha proposto di studiare una macchia che aveva sul muro. Discutevano, Pichon e mio cugino, sul fatto se quella macchia fosse o no un messaggio da "i nemici". Ora si, ora no, Pichon disse finalmente: "Forse è solo una macchiolina e non un messaggio...". Pichon si mise nel delirio di cercare messaggi nascosti e poi tornò alla realtà definendolo come una semplice macchia. Quando siamo usciti, Tommy mi ha detto: "Voglio tornare...", sapendo che l'altro era uno psichiatra.
Io non riesco a ricordare né l'anno in cui è morto Enrique né quello in cui è morta mia madre, sono morti vicino, me lo dicono e me lo dimentico subito, perché per me non sono morti, li ho mangiati, per dirlo in modo più sottile li ho introiettati. A tal punto che due o tre giorni dopo la morte di Enrique, Tato Pavlovsky mi vide che camminavo un po' barcollante e mi disse: " Hai mangiato Enrique... non accetti che Pichon è morto, tu sei Pichon, affinché non muoia incorpori una parte di lui" (Pichon barcollava perché molte volte era ubriaco). La tristezza l'ha portato all'alcol.
La morte era una cosa metafisicamente temibile, non era una paura volgare, mi diceva: "Vieni stasera che prepariamo una lezione". Io ero come il Sancho Panza del Chisciotte, lui diceva: "Cerca un libro con la copertina verde e le lettere rosse...". Poteva essere qualsiasi cosa, da un libro di Lacan a Juan Moreira, la sua biblioteca era grande e un casino assoluto, tutta la casa era un casino, completamente caotica, perché la creazione, diceva, ha una fase precedente che è caotica, uno crea per risolvere il caos e far sì che questo non lo distrugga. Poi io cercavo e cercavo il libro dalla copertina verde, e allora gli dicevo: " Enrique, non c'è, non lo trovo". "Continua a cercare, che c'è". Ho capito che mentre io cercavo, andando su e giù per le scale, Enrique sonnecchiava, aveva bisogno che qualcuno vegliasse il suo sonno, che si facesse carico della veglia, in modo che lui potesse farsi carico del suo sonno perché equiparava il dormire con il morire, la morte per lui era un mistero con aspetti sconcertanti (anni dopo morì nel sonno...).
La tristezza era il suo nucleo. Egli ricordava con molta nostalgia un paesano, là a Corrientes, che per il capodanno tirava fuori una pistola e mentre sparava qualche colpo sul tetto diceva "Viva la tristezza...".
Una delle volte che l'ho accompagnato alla Scuola, dopo un attacco - due o tre volte sembrava che stesse per morire -, mi ha detto: "Tu sai che gli allievi mi rimproverano che non muoio... Perché loro sono sempre al limite, si preparano alla notizia della mia morte e poi appaio, li sconcerto ma non posso evitarlo, resuscito...". Quando aveva uno degli attacchi, lì lì per morire, sono andato a trovarlo in ospedale, ovviamente in un ospedale pubblico, l'Ospedale Scuola San Martino. Era in quelle situazioni di addio, poi tornava, resuscitava. Allora era tutto intubato, e siccome lui parlava sempre della morte io gli chiesi: "Enrique, dì le tue ultime parole...". E togliendosi uno dei tubi della bocca mi disse: "La vita vale la pena viverla". Lui trasmetteva speranze anche al suo addio. Uscì quella mattina dall'ospedale, c'era un sole bellissimo e ho percepito il consenso e la bontà di quell'uomo, e un’intensa sensazione di essere vivo.
Diceva frasi che io ripeto molto nelle mie lezioni, "La morte è tanto lontana quanto grande è il tuo progetto". Diceva anche che: "Bisogna avvicinarsi alla morte per poter annullarla". Se tu ti allontani, sei con la morte sempre, perché avvicinandoti alla morte ti rendi conto di cosa è la vita, la notte permette di capire la giornata.
Una volta eravamo in una taverna da due lire, credo che fosse di fronte al macello, dove ci sono taverne infernali. Siamo rimasti fino alle 3 del mattino mangiando degli spaghetti e Enrique, passato già dal Gin, di colpo mise la testa dentro agli spaghetti e io pensai: "Qui andiamo in carcere per alcolismo, ubriachezza...". Poi venne il cameriere, un giovane ragazzo con un aspetto dell'interno, correntino. Enrique era ancora lì, e io dissi al cameriere "Succede che il professore è molto stanco, ha fatto un sacco di lezioni", cercando di spiegare perché aveva la testa dentro gli spaghetti. E l'altro non capiva, era sconcertato, ma un po' strano, come in lacrime, stava male. Poi Pichon alzò un po' la testa, prese il tovagliolo, si pulì la faccia e gli disse qualcosa in Guaraní. L'altro gli rispose e poi si mise a piangere. Pichon gli disse due o tre frasi in Guaraní e si calmò. La madre era morta il giorno prima e lui aveva colto la tristezza del ragazzo. Così, semplicemente: colse quell'angoscia che aveva attraverso il modo di muovere il corpo, attraverso la voce e tutto, un'angoscia molto profonda, aveva ricevuto un colpo molto spiacevole, non era angoscia del momento. Non so cosa gli disse, erano due o tre frasi che avevano a che fare con il capire cosa gli passava per la sua anima di figlio in solitudine.
Un altro aneddoto. E' successo alla Facoltà di Medicina, in aula magna, durante un congresso sulla schizofrenia che lui presiedeva. Questo me l'ha detto Enrique, io a quel tempo non lo conoscevo. Doveva iniziare e il tema era pesante, in quel momento c'era abbastanza crisi, la schizofrenia aveva a che fare con quello che stava succedendo.
Poi apparve Enrique e cominciò a fare come se stesse cercando delle cose, quando dissero: "... E ora il dottor Enrique Pichon-Rivière sta per inaugurare...". Ci fu un gran silenzio e lui continuò a cercare dei documenti, controllò sul pavimento, si aggiustò il vestito e lì tutti i suoi discepoli vnnero presi dal panico. Bleger particolarmente, che era un ossessivo grave, inizò a tremare. Ulloa, Fiasché, tutti: "Questo è venuto ubriaco, farà una figuraccia al congresso che gli abbiamo organizzato".
L'intera stanza inizò a preoccuparsi. La gente tossiva un po', si muoveva. C'era una sensazione di disturbo, qualcosa stava accadendo, qualcosa di inappropriato. C'era qualcosa di schizofrenico nell'ambiente. La gente era sconcertata, sperava che si alzasse e parlasse. Poi, quando tutto era confuso, Enrique disse: " Ora, per la tosse e per il movimento delle sedie, vedo che è meglio ripartita l'ansia del tema e non è depositata tutta su di me. Iniziamo." Cioè, quello che percepì è che lui era il responsabile, che doveva farsi carico di tutta l'angoscia nel metterci mano e voleva ripartirla tra tutti. Era una forma di psicodramma, sentì la proiezione e si scaricò, allora gli altri dovettero prendere il ruolo di assumere loro il problema.
Un'altra volta, sono andato a salutarlo in stazione perché stava per andare a Tucumán a fondare la Scuola con Ana[4]. Prima che arrivasse il treno, mi disse: "Non ho l’ora, dammi il tuo orologio ". Io avevo un orologio che mi aveva regalato mia nonna tedesca quindici anni prima, ed ero mezzo ossessionato, guardavo sempre l'ora... "Prestamelo che te lo restituisco al ritorno"… L'orologio non l'ho più visto (alla prima stazione lo ha cambiato per due bottiglie di Gin...). Poi mi ha detto: "Io ti comprerò un orologio ma aspetta un po’ di tempo" (col cazzo che me ne ha comprato un altro). Poi mi ha spiegato che mi aveva visto guardare molte volte l'ora, molto ossessionato dal tema degli orari e tutto il resto, e quello che mi è successo quando mi ha detto che me lo avrebbe comperato era un po’ come se lui si facesse carico del tempo. E io per quattro mesi mi disinteressai del tempo, non sentivo più quell'ansia perché l'orologio lo aveva Enrique, si era fatto carico dell'ansia del tempo.
Faceva cose così, come un maestro Zen a cui l'allievo chiede come fa per difendersi e il maestro lo colpisce in testa con un bastone che ha. E poi il maestro gli dice "Quando vedi il bastone togli la testa... sciocco". Quello che vuole il maestro Zen è che lo studente percepisca l'inaspettato.
Un’altra volta, alla Facoltà di Medicina si faceva un congresso molto importante, veniva Jacob Levi Moreno, il creatore dello psicodramma. Io ero lì, ci sono andato con il colombiano Rojas Bermudez, che è colui che ha introdotto qui lo psicodramma (con lui ho fatto le mie prime sedute). Quindi erano tutti più o meno “armati”, e in quel momento entrò Pichon sul lato, lungo il corridoio... e quando arrivò vicino a Moreno si chinò un po’ e iniziò a fare "Bau, bau, bau", drammatizzando un cane. Tutti dissero: "Questo è pazzo...". Ma poi capirono che, in realtà, stava iniziando a giocare ad essere un altro, che è la base dello psicodramma, ed era un cane. Poi lui dopo me lo spiegava, a volte mi diceva qualcosa, ma agli altri non spiegava nulla, creava un enigma per fartelo risolvere.
[1] Si intende un ragazzo affascinante, valoroso, che proviene dalla Provincia di Corrientes (o Taragüí Tetãminí, nome ufficiale e costituzionale nell’idioma guaranì), una delle 23 province che costituiscono la Repubblica Argentina. Forse il termine che nella lingua italiana lo rende meglio potrebbe essere “figo”.
[2] Il Poxi-Pol è la colla
[3] La Peña Carlos Gardel era una comunità popolare formata dai pazienti che si trovavano all’interno dell’Ospedale Nazionale “Borda” a Buenos Aires, ospizio dipendente dall’Istituto Nazionale di Salute Mentale argentino. La Comunità iniziò ad essere attiva nel 1971 e venne costituita dallo sforzo congiunto di due gruppi, uno interno all’ospedale (i compagni del Club “El Fogón”, organizzato da Osvaldo García) e un altro proveniente da fuori e che si formò dopo un seminario sulla “Psichiatria sociale” che si svolse nella Scuola di Psicologia Sociale di Pichon-Rivière (Informazioni tratte da “La comunità popolare “Peña Carlos Gardel”, di Alfredo Moffat, 1974).
[4] Ana Pampliega de Quiroga, psicologa sociale e compagna di Enrique Pichon-Rivière, attuale direttrice della “Prima Scuola Privata di Psicologia Sociale” a Buenos Aires.
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