DALLA TECNICA DEL GRUPPO OPERATIVO ALLA CONCEZIONE OPERATIVA DI GRUPPO
di Lorenzo Sartini
Le origini di un pensiero gruppale e istituzionale
La Tecnica dei Gruppi Operativi è una modalità di coordinazione del lavoro dei gruppi elaborata da Enrique Pichon-Rivière (1907-1977), uno psichiatra e psicoanalista di origini francesi, la cui famiglia decise di trasferirsi in Argentina quando lui aveva 3 anni. Laureatosi in medicina, si specializzò in psichiatria; sul finire degli anni ‘30, svolse la sua analisi personale con Angel Garma (1904-1993) e si formò in psicoanalisi, divenendo uno dei fondatori dell’Associazione Psicoanalitica Argentina, nel 1942. Dal punto dI vista psicoanalitico, alle iniziali decise influenze del pensiero freudiano si aggiunsero quelle, più relazionali, del pensiero kleiniano, ciò che lo condusse, a metà degli anni ’50, a sviluppare un pensiero teorico proprio che si concentrava sul vincolo tra le persone coinvolte in una situazione specifica, piuttosto che concentrarsi soltanto su una di esse (vale a dire, sulla figura del paziente). Arricchito dagli apporti provenienti dal materialismo dialettico di Marx, tale pensiero verrà ulteriormente sviluppato da Pichon-Rivière che arriverà a definire una nuova prospettiva di ricerca e intervento che denominerà Psicologia Sociale[1].
Nella prima parte della sua carriera professionale, nel campo della psichiatria, fece alcune esperienze fondamentali che lo aiutarono ad organizzare un suo peculiare pensiero sull’interrelazione tra dinamiche soggettive, gruppali e istituzionali e che lo portarono ad elaborare la Tecnica dei Gruppi Operativi.
Nel 1936 Pichon-Rivière iniziò a lavorare come psichiatra ne l’Hospicio de Las Mercedes, l’ospedale psichiatrico più grande di Buenos Aires, come coordinatore della Sala di Ammissione: il suo compito era raccogliere informazioni sui pazienti che giungevano in ospedale per poi inviarli al servizio di competenza. Si rese conto che la maggior parte delle persone che arrivavano all’ospedale versavano in condizioni socio-economiche precarie, non inserite nel mondo del lavoro (nonostante l’Argentina si trovasse in un periodo di sviluppo industriale e di prosperità economica), di immigrati. L’osservazione di questo fatto lo convinse che la cosiddetta follia, la malattia mentale, fosse legata alle condizioni sociali vissute dalle persone e non previamente determinate da variabili organiche, come il pensiero dominante di allora riteneva.
Osservò, inoltre, che i pazienti che arrivavano all’ospedale venivano trattati con noncuranza e ritenuti semplicemente dei “poveri pazzi”. Si rese conto che l’arrivo in ospedale di un nuovo paziente rappresentava un “dramma” che si svolgeva su più livelli: i pazienti temevano l’internamento; gli infermieri temevano di poter essere contagiati dalla follia dei pazienti; i familiari, dal canto loro, speravano di poter liberarsi della minaccia costituita dalla follia di uno dei propri membri effettivamente internandolo nell’ospedale psichiatrico.
Rispetto ai pazienti, Pichon-Rivière pensò che il non stigmatizzarli, come invece era d’uso fare, ed anzi l’accoglierli con cura e attenzione, avrebbe permesso il lavoro insieme e consentito una prognosi favorevole. Rispetto agli infermieri, invece, sebbene questi avessero molta esperienza, si rese conto che non riuscivano a concettualizzarla, ossia non sapevano di sapere (cfr. Adamson., 2018). Per colmare questa lacuna, pensò di organizzare dei gruppi settimanali di formazione: discuteva dei “casi” in gruppo con gli infermieri, promuovendo una miglior conoscenza delle dinamiche sottostanti alla sofferenza mentale dei pazienti e favorendone così la comprensione. Il risultato fu che gli infermieri poterono mettere a frutto la grande esperienza accumulata negli anni, cambiando il proprio modo di rapportarsi con i pazienti e contribuendo a migliorare notevolmente la condizione di questi ultimi.
Questa esperienza professionale fu importantissima per Pichon-Rivière poiché gli fornì la possibilità di osservare l’incrocio delle dinamiche gruppali e istituzionali che si dispiegavano intorno alla situazione del paziente che fungeva dunque da emergente rispetto alla situazione (sociale) della quale era parte.
Un secondo fatto importante avvenne nel 1937, quando, all’interno di quello stesso ospedale, venne ucciso un medico-psichiatra, il Dott. Lecube. Venne sgozzato, con un cucchiaino affilato come un coltello, da un paziente, che agì come rappresentante di un gruppo di pazienti che, giorno dopo giorno, pianificarono per filo e per segno i passi per arrivare all’omicidio. Pichon-Rivière, che prenderà il posto dello psichiatra deceduto, fu molto colpito dall’organizzazione dell’omicidio, sia sul piano teorico che pratico, che quel gruppo di pazienti era riuscito ad imbastire. Ritenne che il movente fosse da ricercarsi nell’autoritarismo che il Dott. Lecube usava nei confronti dei pazienti, e che, di fondo, caratterizzava tutta la psichiatria dell’epoca. Questo episodio, riferirà Pichon-Rivière, costituì uno stimolo molto importante per permettergli di pensare all’organizzazione gruppale dell’istituzione.
Il terzo fatto estremamente significativo avvenne nel 1948, allorché, come responsabile del servizio, si trovò a dover gestire una situazione di emergenza per il fatto che buona parte del personale medico, infermieristico e amministrativo, di simpatie peroniste, entrò in sciopero. Trovandosi con scarsità di personale, Pichon-Rivière ebbe l’idea di formare i pazienti che potevano meglio adattarsi al lavoro di cura, per aiutare quelli che versavano in condizioni peggiori; utilizzò lo stesso metodo che, in precedenza, aveva utilizzato con gli infermieri. Anche in questo caso il risultato fu eclatante poiché ne trassero beneficio non solo i pazienti più gravi, ma anche quelli che erano stati responsabilizzati e messi nel ruolo di infermieri: il poter assumere un compito operativo definito e riconosciuto, uscendo dal ruolo di alienati che ricoprivano all’interno delle maglie dell’istituzione terapeutica, ebbe un importante effetto terapeutico su quegli stessi pazienti.
Quest’ultimo episodio forse anche un po’ mitizzato, in genere, viene assunto come data di inizio della Tecnica dei Gruppi Operativi, una tecnica che, come abbiamo visto, si fonda sulle necessità emergenti dall’esperienza concreta.
La concezione del gruppo
Pichon-Rivière definisce il gruppo in questi termini: “In ogni insieme di persone, legate per costanti di tempo, di spazio e articolate per la loro mutua rappresentazione interna, si istaura esplicitamente ed implicitamente un compito, che ne costituisce la finalità” (1969, p. 219).
Una fondamentale influenza sul pensiero gruppale di Pichon-Rivière è quella di Kurt Lewin (1890-1947), psicologo tedesco che aderì alla Teoria della Gestalt e che fu uno dei precursori del concetto di campo in psicologia. Per Lewin pensare il gruppo significa considerarlo come una totalità dinamica e strutturale che costituisce qualcosa di diverso rispetto alla semplice somma dei membri che lo compongono[2]: il gruppo va pensato in modo complessivo, come un insieme che, nelle conflittualità e contraddizioni che possono essere espresse dalle interrelazioni dei membri, si muove organicamente. Il focus non è sulle singole parti, bensì sulla Gestalt, appunto, sulla forma complessiva che assume il gruppo, per cui a questa si cerca di dare significato.
Nei gruppi operativi vengono considerati due livelli di interazione: quello manifesto, costituito dall’attenzione verso la finalità che convoca i membri di quel gruppo; e quello latente, implicito, connotato dai movimenti emotivi sotterranei, velati, taciuti, che accompagnano i membri (o integranti così come vengono chiamati da Pichon-Rivière) che lavorano in rapporto al compito che li ha convocati. L’obiettivo fondamentale del lavoro del gruppo che, come riporta la definizione sopra citata, si riunisce attorno ad un compito, è di costruire relazioni, ovvero vincoli, tra i vari membri che lo costituiscono. L’idea di fondo è che il raggiungimento di questo risultato, mettendo in gioco le differenti strategie relazionali degli integranti, costituisca già un apprendimento di estrema rilevanza, ovvero consenta un movimento evolutivo dei partecipanti.
La doverosa premessa concettuale obbliga a parlare della nozione di gruppo interno. Ogni persona, sin dalla nascita, si trova inserito in contesti gruppali, in primis quello familiare, che condizionano l’organizzazione della sua personalità. Parlare di gruppo interno, allora, significa sostenere che ciascun soggetto è organizzato a partire dalle relazioni sociali che ha interiorizzato nel corso della sua esperienza di vita. Passando dall’esperienza con il gruppo primario, quello familiare appunto, agli altri gruppi, quelli secondari, il soggetto si troverà a dover mettere in discussione le relazioni sociali precedentemente interiorizzate (il gruppo interno), in funzione delle richieste sperimentate socialmente e delle necessità emergenti nella nuova situazione gruppale in cui si trova inserito. Per cui il soggetto, in ogni gruppo, si troverà a dover contrattare con gli altri integranti la propria posizione, il proprio ruolo, trovandosi all’incrocio dei movimenti proiettivi ed introiettivi che si dispiegano tra i partecipanti. Da una parte, la spinta del gruppo ad aggiudicargli un ruolo specifico, necessario, o comodo, per gli altri integranti; dall’altra, l’intenzione del soggetto di assumerne uno già conosciuto. L’inserimento del soggetto nel gruppo si gioca nel conflitto tra questi due poli, nel rapporto tra aggiudicazione del ruolo da parte degli altri integranti ed assunzione del ruolo da parte sua.
Riuscire a modificare il ruolo che si vorrebbe giocare in funzione della situazione nella quale ci si trova, ovvero in relazione con gli altri, costituisce un cambiamento del proprio gruppo interno e dunque dell’organizzazione della propria personalità. Questa condizione va intesa come sintomo di salute. Al contrario, quando si continua a relazionarsi con gli altri in modo abitudinario, riproponendo apprendimenti relazionali passati e che si rivelano insoddisfacenti nella situazione attuale, parliamo di stereotipia, ovverosia un sintomo di malattia.
Ogni gruppo ha un compito
La nozione di compito è centrale nella teoria dei gruppi operativi, tanto che viene affermato che è il compito a convocare il gruppo e che è proprio attorno al compito, un oggetto astratto, che si organizzerà il processo gruppale. Il compito va inteso come il motivo per cui le persone decidono di partecipare a quella particolare esperienza (che si tratti di formazione o apprendimento, di psicoterapia, di lavoro, ecc.), e va a costituire il perno attorno a cui si svolgerà il processo di lavoro del gruppo. Il concetto di compito è piuttosto complesso da intendere, è qualcosa di scivoloso e non va confuso con quello di obiettivo. Quando si parla di obiettivo ci si riferisce a qualcosa di predeterminato, si sa già dove si vuole arrivare. Forse è il termine finalità, ossia qualcosa di meno definito e che rimanda ad una processualità operativa, che sembra meglio avvicinarsi a quel concetto. Il compito potrebbe essere pensato come la stella polare per i marinai: funge da guida, indicando una direzione della rotta; ma quando la si guarda, o la si indica, non si pensa di raggiungerla concretamente. Così è il compito: si lavora in funzione del compito, ma non si sa, nel mentre del viaggio, in che cosa ci si potrà imbattere, e sarà solo il gruppo che potrà definire la sua finalità nel mentre del proprio lavoro. Solo alla fine del viaggio, cioè del percorso del gruppo, si potrà capire il compito che quello specifico insieme di persone ha perseguito o ha potuto raggiungere.
Armando Bauleo[3], sosteneva che tre sono gli elementi fondamentali che mettono in moto il processo del gruppo: il compito, il coordinatore e l’organizzazione gruppale. E sottolineava l’importanza del compito che, suggerendo che i membri si riuniscono per un motivo specifico, fornisce un’identità al gruppo, permettendo lo scorniciamento dei partecipanti. In altri termini, il focus viene centrato sul lavoro del gruppo per cui gli integranti si sono riuniti, e non più sulla tipologia dei membri (tossicodipendenti, psichiatrici, ecc. in un gruppo di psicoterapia; oppure infermieri, psicologi, medici ecc., in un gruppo di formazione o apprendimento) che ne fanno parte.
Nella Tecnica dei Gruppi Operativi si considera che il compito abbia un aspetto manifesto, quello che convoca i partecipanti, ed uno latente, che emergerà a poco a poco a seconda dei significati che ciascun integrante attribuisce ad esso. Il compito manifesto è quello che viene chiaramente esplicitato, mentre il compito latente riguarda il modo di stare in gruppo. Durante il processo del gruppo non si lavora solo sul piano manifesto, su quanto viene esplicitamente espresso, ma anche sul piano latente, ossia sulla modalità che i partecipanti hanno di intessere la loro relazione con gli altri integranti. All’inizio, il lavoro si svolge considerando i contenuti espliciti prodotti dai partecipanti, e solo quando gli integranti, progressivamente, inizieranno a riconoscersi (la mutua rappresentazione interna), sarà possibile passare dal compito manifesto a quello latente[4]. Il compito latente è legato alle soggettività in gioco: come già detto, ciascun integrante ha maturato una propria esperienza e propri schemi comportamentali, cioè una propria idea di come stare in relazione (gruppo interno), e sono proprio questi apprendimenti che vengono sollecitati e messi in discussione nella nuova esperienza di gruppo, ossia nel confronto con il gruppo (esterno) attuale.
Ciò significa che ogni partecipante entrerà a far parte del gruppo avendo già in mente una sua idea stereotipata di gruppo e avendo le sue specifiche aspettative sul compito. L’esperienza gruppale parte da una situazione di sincretismo nella quale gli integranti danno per scontato il fatto di avere una stessa idea sul compito che li convoca. Gradualmente, gli integranti arriveranno a pensare che le idee sul compito non solo le stesse, che ognuno lo pensa in modo differente, e che perciò le aspettative iniziali non potranno essere soddisfatte in quel gruppo. Questa presa di coscienza comporterà l’abbandono dell’iniziale posizione narcisistica dei partecipanti, spingendoli a pensare insieme agli altri in funzione di un compito condiviso.
Questo processo, però, sarà caratterizzato da progressi, da arresti e da momenti regressivi, ovverosia dalla dinamica tra due fasi: quella del pre-compito, nella quale gli integranti affrontano il compito facendosi scudo delle conoscenze precedenti, evitando dunque il cambiamento; e quella del compito, allorché sarà possibile abbandonare i vecchi modelli di condotta per adottarne di nuovi, strutturandoli nel qui ed ora insieme agli altri. Queste fasi sono contrassegnate dal confronto con ansie di diversa qualità: quando le proprie idee e quelle che prima erano considerate le proprie convinzioni si scontrano con le idee e le concezioni del mondo proposte dagli altri partecipanti, si avrà paura di essere da essi attaccati, per cui verranno adottate strategie difensive di tipo schizo-paranoide e si proveranno ansie di natura paranoide; successivamente, quando si potrà lasciar cadere le precedenti certezze con il fine di organizzarne delle altre, ci si sentirà scoperti e indifesi, e ci si troverà in preda delle ansie di natura depressiva. Questi due momenti si alterneranno continuamente poiché ogniqualvolta nel gruppo verranno messi in crisi i vecchi schemi di riferimento ci si sentirà in pericolo e si cercherà di ripararsi dietro al già conosciuto: ciò significa che, ogni volta, si attraverserà la fase del pre-compito. Successivamente, se si riuscirà a permanere nella situazione conflittuale e a risolverla dialetticamente insieme agli altri, allora si sarà entrati nella fase del compito, nella quale diviene possibile l’integrazione fra il pensiero e l’affetto. Un altro tipo di ansie con cui ci si confronta sono quelle di natura confusionale, che emergono quando “l’oggetto della conoscenza supera la capacità di discriminazione e di controllo dell’Io” (Bleger, 1987, p. 176), facendo fatica a capire il senso della propria presenza in quella situazione.
Una terza fase è quella del progetto, che però non sempre si raggiunge: è una fase nella quale gli integranti hanno potuto sviluppare un codice comune per parlare del compito che li ha convocati e che permetterebbe la possibilità di pianificare la propria azione.
L’inquadramento del gruppo
Il compito, che abbiamo visto costituire un elemento centrale nella Tecnica dei Gruppi Operativi, è uno delle costanti che definiscono l’inquadramento del gruppo, insieme allo spazio, al tempo e al ruolo (o funzione). La costanza dell’inquadramento è un aspetto fondamentale poiché costituirà la cornice all’interno della quale potrà essere osservato e analizzato il processo gruppale, ossia l’evoluzione del lavoro del gruppo sia dal punto di vista manifesto che latente. Ciò comporta che, se dovessero mutare le costanti, ci si troverà al cospetto di una situazione confusa e sarà più difficile leggere e interpretare il processo che il gruppo compie (il processo costituendo l’elemento variabile). Se tutto si muove, diventa molto più complesso e ostico comprendere ciò che accade in quella situazione.
La stabilità del setting, ovvero delle condizioni di incontro del gruppo, è fondamentale poiché, come sostiene José Bleger (1922-1972)[5], funge da deposito delle parti psicotiche, indifferenziate, degli integranti. Ed è il fatto di poter assumere il setting come riferimento a consentire loro di poter discriminare, progressivamente, il “dentro” dal “fuori”: sarebbe a dire, ciò che riguarda il gruppo presente, nel qui ed ora, con un suo compito, dagli altri gruppi a cui gli integranti sono legati per altri motivi (il gruppo familiare, quello degli amici, quello dei colleghi, ecc.).
Parlare dello spazio significa semplicemente dire che è necessario un luogo dove gli integranti possono incontrarsi. È importante che il luogo rimanga quanto più possibile invariato poiché sarà così possibile abituarsi a quello spazio, favorendo quella condizione di sicurezza e tranquillità che si sperimenta rispetto a ciò che risulta “conosciuto”.
Per quanto riguarda il tempo, si intende il definire un giorno ed un orario di inizio e di fine dell’incontro. È abbastanza condivisa l’idea che un gruppo dovrebbe lavorare per almeno un’ora e trenta minuti, poiché, in genere, è dopo l’ora di lavoro che la comunicazione diventa più intensa e iniziano a ridursi le resistenze degli integranti. Incontrarsi sempre nello stesso giorno e nello stesso orario, fa diventare una consuetudine l’appuntamento, facilitando la possibilità di tenere il gruppo in mente.
I ruoli (o funzioni) sono quelli dell’integrante e del coordinatore. Sarebbe ideale la presenza di un osservatore. L’integrante partecipa a quella situazione cercando di trovare il modo per entrare in una qualche relazione con gli altri partecipanti al fine di lavorare sul compito che li ha convocati. Situazione non facile, tanto che gli integranti faranno di tutto per non lavorare sul compito: rimarranno in silenzio; oppure parleranno di argomenti di poca importanza, riempiendo lo spazio-tempo del gruppo. Cercheranno ogni modo per non mettersi direttamente in gioco nella relazione con gli altri rispetto al compito.
Spostandoci sul ruolo del coordinatore, invece, la prima cosa da dire è che non deve essere inteso come il coordinatore di un servizio; non è il capo del gruppo e, contrariamente a quanto si può pensare, non è il suo leader (che invece è una funzione del gruppo). Il compito fondamentale che ha il coordinatore è di mantenere il setting, ossia le regole che definiscono l’incontro degli integranti, e non è suo compito gestire il gruppo, che invece dovrebbe imparare a gestirsi in modo autonomo. Il coordinatore ha il compito di ascoltare ciò che vanno dicendo gli integranti, cercando di aiutarli a superare i blocchi cognitivi ed affettivi che possono arrestare il pensiero. Possiamo considerarlo un co-pensatore che, partecipe della dinamica transfert-controtransfert che lì si dispiega, cerca di capire, da una posizione differente rispetto a quella degli integranti, i problemi di comunicazione e apprendimento che il gruppo incontra nel corso del processo. Per svolgere questo ruolo, vale a dire per aiutare gli integranti a comprendere che cosa stanno comunicando, o che cosa stanno rappresentando, in rapporto al compito, deve essere capace di utilizzare quella modalità operativa che Bleger chiama dissociazione strumentale: in parte, deve riuscire a porsi dentro il gruppo, per poter cogliere, percepire e sentire ciò che avviene tra gli integranti, ciò che attraversa il gruppo; in parte, però, deve riuscire a rimanere distaccato, così da non farsi completamente assorbire dalle pressioni emotive che circolano nel gruppo, e poter mantenere quel grado di lucidità tale da permettergli di provare a dare significato alle espressioni gruppali. Una modalità operativa che è possibile agire solamente se si riesce a mantenere quella che, sempre Bleger, definisce distanza ottimale dalla situazione.
Portavoce ed emergenti gruppali
Il coordinatore può aiutare il gruppo a superare gli ostacoli, i conflitti ed i blocchi che incontra, e che sarebbero espressione delle ansie vissute nel processo gruppale, proponendo delle interpretazioni rispetto al materiale latente emergente o facendo delle segnalazioni rispetto a ciò che il gruppo manifesta. Se precedentemente si è sostenuto che lo sguardo deve essere rivolto alla situazione gruppale nella sua totalità, ora si aggiunge che sono i singoli integranti che con i loro interventi forniscono informazioni su quella stessa situazione. In altre parole, l’integrante che dice qualcosa viene considerato come un portavoce del gruppo. Il portavoce è qualcuno che, facendo riferimento alla sua storia personale (verticalità), in quel momento risuona con la situazione che sta attraversando il gruppo nella sua complessità (orizzontalità), e la esprime verbalmente. Nei termini di Teoria della Gestalt, potremmo pensare all’integrante che interagisce con gli altri come alla figura che assume significato in rapporto allo sfondo costituito dal gruppo: figura e sfondo sono ineludibilmente intrecciati[6].
Il portavoce, in alcune occasioni, può essere anche considerato come un emergente. Con il termine di emergente si intende, sostanzialmente, un avvenimento che si produce nel contesto gruppale e che può essere inteso come rappresentativo della situazione attuale: può essere una verbalizzazione da parte di uno degli integranti oppure un silenzio, o un gesto, o anche un evento che accade nella stanza in cui si svolge l’incontro e che stimola nel coordinatore un pensiero che può essere riferito alla fase che sta attraversando il gruppo.
Il coordinatore del gruppo si baserà sugli emergenti per cercare di capire la fase che il gruppo sta attraversando, cercando di aiutare gli integranti a collocarsi rispetto alla situazione complessiva. Se l’intervento del coordinatore viene sentito rispondente alla situazione che il gruppo vive, allora si verificherà una modifica della configurazione gruppale e verrà proposta una situazione differente; nel caso contrario, il gruppo continuerà a riproporre segnali o emergenti, di diversa fattura, che possano aiutare il coordinatore a leggere la situazione esistente.
Schemi di riferimento ed ECRO
Un concetto estremamente importante e funzionale che Pichon-Rivière ha sviluppato sul finire degli anni ’50, è quello di ECRO: un acronimo che in spagnolo si legge Esquéma Conceptual Referencial y Operativo e che in italiano può essere tradotto con Schema Concettuale di Riferimento e Operativo.
Ogni integrante entra in un gruppo attrezzato con un proprio schema di riferimento, ciò che Bleger definisce “l’insieme di esperienze, conoscenze ed affetti mediante i quali l’individuo pensa e agisce” (1987, p. 172) e che corrisponderebbe ad una cristallizzazione organizzata della propria personalità. Ogni individuo entra quindi in un gruppo con un proprio modo organizzato di vedere le cose del mondo. Nel confronto dialettico con gli altri integranti lo schema di riferimento di ciascuno viene continuamente sollecitato e messo in discussione, suscitando il timore di perdere i propri punti di riferimento e, come prima sostenuto, stimolando i vissuti di ansia paranoide, confusionale e depressiva.
Il lavoro gruppale e interdisciplinare con la Tecnica Operativa mira a sottoporre costantemente a revisione lo schema di riferimento con cui ciascuno entra nel gruppo. Il confronto dialettico tra i vari schemi di riferimento in gioco, in rapporto al compito che ha convocato il gruppo, può arrivare a produrre uno Schema Concettuale di Riferimento e Operativo. ECRO non significa che tutti gli integranti la pensino allo stesso modo, bensì che sia possibile raggiungere una coerenza interna tale da permettere l’analisi delle contraddizioni che emergono nel processo tra gli integranti. Rappresentativo del fatto che nel gruppo si sia creato un ECRO può essere l’adozione di un linguaggio o codice comune, o di alcuni termini specifici il cui significato è condiviso dai vari membri del gruppo.
Ritengo necessario soffermarsi sull’ultimo termine dell’acronimo ECRO: O sta per Operativo. Nella Tecnica dei Gruppi Operativi, ça va sans dire, il concetto di operatività riveste un’importanza fondamentale. Il gruppo diventa operativo quando riesce a produrre un cambiamento nel proprio modo di affrontare il compito. Il concetto di operatività, in questa concezione, sostituisce quello di verità: non si raggiunge mai una verità assoluta, nel qual caso dovremmo parlare di dogma, ma si lavora sempre in funzione di una ricerca che, mentre si realizza, porta ad una modifica dello stato di cose esistente.
La Concezione Operativa di Gruppo
Come ho provato a mostrare all’inizio di questo lavoro, la Tecnica dei Gruppi Operativi è stata organizzata, gradualmente, attraverso le necessità emerse dalle vicissitudini e dalle esperienze affrontate da Pichon-Rivière nel suo percorso professionale. Successivamente, attraverso il lavoro con i gruppi sono stati elaborati tutta una serie di concetti, alcuni dei quali abbiamo provato a delineare sinteticamente. Dalla pratica con i gruppi terapeutici e con quelli di formazione/apprendimento, nel corso degli anni, si è passati a fare esperienze di lavoro più specifiche negli ambiti delle istituzioni e delle comunità sociali. Questi nuovi approdi esperienziali se, da un lato, hanno permesso di usare e anche di ripensare i concetti fino a quel momento elaborati, dall’altro, hanno consentito di pensarne di nuovi, permettendo di arricchire quell’apparato concettuale. In altre parole, attraverso nuove pratiche è mutato lo Schema di Riferimento Concettuale e Operativo e dalla tecnica si è passati a sistematizzare una concezione, ossia “ideas guías para elaborar la comprensión de los pedidos-demandas y de esctructurar una posibile intervención-interpretación” [7](Bauleo, 1990, p. 16).
Fare riferimento alla Concezione Operativa di Gruppo significa disporre di un apparato teorico-concettuale per mezzo del quale indagare le dinamiche emergenti (ideologia) nei vari ambiti sociali (psicosociale, sociodinamico, istituzionale, comunitario e della globalizzazione)[8] e le modalità di produzione delle soggettività, pensando a possibili modalità di intervento in funzione di un cambiamento dell’esistente. Una concezione all’interno della quale il gruppo, considerato un’istanza ponte tra individuo e società, viene pensato come un elemento basilare; e nella quale il lavoro con i gruppi, cioè l’applicazione della Tecnica dei Gruppi Operativi, consentendo di avere a che fare con una situazione concreta e definita, funge da contenitore necessario per “la labor terapeútica y la elaboración ‘in situ’ de la conflictividad de los individuos”[9] (Bauleo, 1990, p. 33).
Note:
[1] Una Psicologia Sociale con fondamenta teoriche ed epistemologiche evidentemente differenti rispetto a quella che ha conquistato la scena accademica e che venne sviluppata soprattutto negli Stati Uniti, alla quale siamo soliti pensare.
[2] Lewin elabora questo pensiero fondandosi sull’idea di Wolfgang Köhler (1887-1967), anch’esso psicologo esponente della Psicologia della Gestalt, per cui “Il tutto è diverso dalla somma delle singole parti”.
[3] Armando Bauleo (1932-2008), psichiatra e psicoanalista, è stato uno degli allievi di seconda generazione di Pichon-Rivière. A lui, prevalentemente, si deve il merito di aver fatto arrivare il pensiero pichoniano in Europa e in Italia.
[4] A questo proposito credo sia utile riprendere un’annotazione che propone Bauleo, il quale considera che in una prima fase del lavoro insieme, gli integranti non possono ancora riconoscersi, non c’è un “noi”, non essendosi ancora stabilito un codice comune, per cui si dovrebbe più propriamente parlare di aggruppamento e non di gruppo. Si dovrebbe parlare di gruppo solo quando, invece, attraverso il lavoro insieme, gli integranti iniziano a riconoscersi, ossia sviluppano quella che Pichon-Rivière definisce, appunto, mutua rappresentazione interna.
[5] José Bleger (1922-1972), psichiatra e psicoanalista, è stato tra i prosecutori più brillanti del pensiero del suo maestro, Pichon-Rivière, di cui fu stretto collaboratore in moltissime occasioni.
[6] Questo concetto viene ripreso ed approfondito da Bleger quando sostiene l’esistenza di due modalità di relazione nei gruppi che corrispondono a due livelli di identità: un livello più primitivo, inconscio, è quello costituito da una socialità muta, di tipo sincretico, psicotico, senza limiti, sostenuta dalla “nuda” appartenenza al gruppo (identità sincretica di gruppo); l’altro livello, che affiora da questo primo livello di socialità pre-verbale, è definito da modalità di interazione più formali e mature che si configurano per mezzo del lavoro svolto in comune (identità per interazione). L’interazione, afferma Bleger, è la figura che emerge dallo sfondo costituito dalla socialità sincretica, cioè da una forma di socialità non consapevole.
[7] In italiano tradurrei la citazione in questo modo: “idee guida per elaborare la comprensione delle richieste-domande e per strutturare un eventuale intervento-interpretazione”.
[8] Vedi la Psicologia degli ambiti elaborata da Bleger.
[9] In italiano la riporterei così: “il lavoro terapeutico e per l’elaborazione ‘in situ’ della conflittualità degli individui”.
Bibliografia:
Adamson G., “El ultimo Pichon”, https://area3.org.es/descargas/a3-E3-elultimoPichon-GAdamson.pdf
Bauleo A. J., Ideologia, gruppo e famiglia, Feltrinelli, Milano, 1978
Bauleo A. J. e De Brasi M. (1990), Clinica gruppale, clinica istituzionale, Il Poligrafo, Padova, 1994
Bauleo A. J., Duro J. C., Vignale R., a cura di, (1990), Concepción Operativa de Grupo, Mariar S. A., Madrid
Bleger J. (1966), Psicoigiene e psicologia istituzionale, Libreria Editrice Lauretana, Loreto, 1989
Fischetti R., La Concezione Operativa di Gruppo, Área 3. Cuadernos de temas grupales e institucionales, n. 15, otoño-invierno 2011, www.area3.org.es
Lezioni alla Scuola di prevenzione “José Bleger” di Rimini
Pichon-Rivière E. (1971), Il processo gruppale. Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale, Libreria Editrice Lauretana, Loreto, 1985
Questo articolo è stato pubblicato nel libro di Stefano Bonifazi, Buongiorno dottore, come sto questa mattina? Il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura e l'arte del possibile (2024)
La Tecnica dei Gruppi Operativi è una modalità di coordinazione del lavoro dei gruppi elaborata da Enrique Pichon-Rivière (1907-1977), uno psichiatra e psicoanalista di origini francesi, la cui famiglia decise di trasferirsi in Argentina quando lui aveva 3 anni. Laureatosi in medicina, si specializzò in psichiatria; sul finire degli anni ‘30, svolse la sua analisi personale con Angel Garma (1904-1993) e si formò in psicoanalisi, divenendo uno dei fondatori dell’Associazione Psicoanalitica Argentina, nel 1942. Dal punto dI vista psicoanalitico, alle iniziali decise influenze del pensiero freudiano si aggiunsero quelle, più relazionali, del pensiero kleiniano, ciò che lo condusse, a metà degli anni ’50, a sviluppare un pensiero teorico proprio che si concentrava sul vincolo tra le persone coinvolte in una situazione specifica, piuttosto che concentrarsi soltanto su una di esse (vale a dire, sulla figura del paziente). Arricchito dagli apporti provenienti dal materialismo dialettico di Marx, tale pensiero verrà ulteriormente sviluppato da Pichon-Rivière che arriverà a definire una nuova prospettiva di ricerca e intervento che denominerà Psicologia Sociale[1].
Nella prima parte della sua carriera professionale, nel campo della psichiatria, fece alcune esperienze fondamentali che lo aiutarono ad organizzare un suo peculiare pensiero sull’interrelazione tra dinamiche soggettive, gruppali e istituzionali e che lo portarono ad elaborare la Tecnica dei Gruppi Operativi.
Nel 1936 Pichon-Rivière iniziò a lavorare come psichiatra ne l’Hospicio de Las Mercedes, l’ospedale psichiatrico più grande di Buenos Aires, come coordinatore della Sala di Ammissione: il suo compito era raccogliere informazioni sui pazienti che giungevano in ospedale per poi inviarli al servizio di competenza. Si rese conto che la maggior parte delle persone che arrivavano all’ospedale versavano in condizioni socio-economiche precarie, non inserite nel mondo del lavoro (nonostante l’Argentina si trovasse in un periodo di sviluppo industriale e di prosperità economica), di immigrati. L’osservazione di questo fatto lo convinse che la cosiddetta follia, la malattia mentale, fosse legata alle condizioni sociali vissute dalle persone e non previamente determinate da variabili organiche, come il pensiero dominante di allora riteneva.
Osservò, inoltre, che i pazienti che arrivavano all’ospedale venivano trattati con noncuranza e ritenuti semplicemente dei “poveri pazzi”. Si rese conto che l’arrivo in ospedale di un nuovo paziente rappresentava un “dramma” che si svolgeva su più livelli: i pazienti temevano l’internamento; gli infermieri temevano di poter essere contagiati dalla follia dei pazienti; i familiari, dal canto loro, speravano di poter liberarsi della minaccia costituita dalla follia di uno dei propri membri effettivamente internandolo nell’ospedale psichiatrico.
Rispetto ai pazienti, Pichon-Rivière pensò che il non stigmatizzarli, come invece era d’uso fare, ed anzi l’accoglierli con cura e attenzione, avrebbe permesso il lavoro insieme e consentito una prognosi favorevole. Rispetto agli infermieri, invece, sebbene questi avessero molta esperienza, si rese conto che non riuscivano a concettualizzarla, ossia non sapevano di sapere (cfr. Adamson., 2018). Per colmare questa lacuna, pensò di organizzare dei gruppi settimanali di formazione: discuteva dei “casi” in gruppo con gli infermieri, promuovendo una miglior conoscenza delle dinamiche sottostanti alla sofferenza mentale dei pazienti e favorendone così la comprensione. Il risultato fu che gli infermieri poterono mettere a frutto la grande esperienza accumulata negli anni, cambiando il proprio modo di rapportarsi con i pazienti e contribuendo a migliorare notevolmente la condizione di questi ultimi.
Questa esperienza professionale fu importantissima per Pichon-Rivière poiché gli fornì la possibilità di osservare l’incrocio delle dinamiche gruppali e istituzionali che si dispiegavano intorno alla situazione del paziente che fungeva dunque da emergente rispetto alla situazione (sociale) della quale era parte.
Un secondo fatto importante avvenne nel 1937, quando, all’interno di quello stesso ospedale, venne ucciso un medico-psichiatra, il Dott. Lecube. Venne sgozzato, con un cucchiaino affilato come un coltello, da un paziente, che agì come rappresentante di un gruppo di pazienti che, giorno dopo giorno, pianificarono per filo e per segno i passi per arrivare all’omicidio. Pichon-Rivière, che prenderà il posto dello psichiatra deceduto, fu molto colpito dall’organizzazione dell’omicidio, sia sul piano teorico che pratico, che quel gruppo di pazienti era riuscito ad imbastire. Ritenne che il movente fosse da ricercarsi nell’autoritarismo che il Dott. Lecube usava nei confronti dei pazienti, e che, di fondo, caratterizzava tutta la psichiatria dell’epoca. Questo episodio, riferirà Pichon-Rivière, costituì uno stimolo molto importante per permettergli di pensare all’organizzazione gruppale dell’istituzione.
Il terzo fatto estremamente significativo avvenne nel 1948, allorché, come responsabile del servizio, si trovò a dover gestire una situazione di emergenza per il fatto che buona parte del personale medico, infermieristico e amministrativo, di simpatie peroniste, entrò in sciopero. Trovandosi con scarsità di personale, Pichon-Rivière ebbe l’idea di formare i pazienti che potevano meglio adattarsi al lavoro di cura, per aiutare quelli che versavano in condizioni peggiori; utilizzò lo stesso metodo che, in precedenza, aveva utilizzato con gli infermieri. Anche in questo caso il risultato fu eclatante poiché ne trassero beneficio non solo i pazienti più gravi, ma anche quelli che erano stati responsabilizzati e messi nel ruolo di infermieri: il poter assumere un compito operativo definito e riconosciuto, uscendo dal ruolo di alienati che ricoprivano all’interno delle maglie dell’istituzione terapeutica, ebbe un importante effetto terapeutico su quegli stessi pazienti.
Quest’ultimo episodio forse anche un po’ mitizzato, in genere, viene assunto come data di inizio della Tecnica dei Gruppi Operativi, una tecnica che, come abbiamo visto, si fonda sulle necessità emergenti dall’esperienza concreta.
La concezione del gruppo
Pichon-Rivière definisce il gruppo in questi termini: “In ogni insieme di persone, legate per costanti di tempo, di spazio e articolate per la loro mutua rappresentazione interna, si istaura esplicitamente ed implicitamente un compito, che ne costituisce la finalità” (1969, p. 219).
Una fondamentale influenza sul pensiero gruppale di Pichon-Rivière è quella di Kurt Lewin (1890-1947), psicologo tedesco che aderì alla Teoria della Gestalt e che fu uno dei precursori del concetto di campo in psicologia. Per Lewin pensare il gruppo significa considerarlo come una totalità dinamica e strutturale che costituisce qualcosa di diverso rispetto alla semplice somma dei membri che lo compongono[2]: il gruppo va pensato in modo complessivo, come un insieme che, nelle conflittualità e contraddizioni che possono essere espresse dalle interrelazioni dei membri, si muove organicamente. Il focus non è sulle singole parti, bensì sulla Gestalt, appunto, sulla forma complessiva che assume il gruppo, per cui a questa si cerca di dare significato.
Nei gruppi operativi vengono considerati due livelli di interazione: quello manifesto, costituito dall’attenzione verso la finalità che convoca i membri di quel gruppo; e quello latente, implicito, connotato dai movimenti emotivi sotterranei, velati, taciuti, che accompagnano i membri (o integranti così come vengono chiamati da Pichon-Rivière) che lavorano in rapporto al compito che li ha convocati. L’obiettivo fondamentale del lavoro del gruppo che, come riporta la definizione sopra citata, si riunisce attorno ad un compito, è di costruire relazioni, ovvero vincoli, tra i vari membri che lo costituiscono. L’idea di fondo è che il raggiungimento di questo risultato, mettendo in gioco le differenti strategie relazionali degli integranti, costituisca già un apprendimento di estrema rilevanza, ovvero consenta un movimento evolutivo dei partecipanti.
La doverosa premessa concettuale obbliga a parlare della nozione di gruppo interno. Ogni persona, sin dalla nascita, si trova inserito in contesti gruppali, in primis quello familiare, che condizionano l’organizzazione della sua personalità. Parlare di gruppo interno, allora, significa sostenere che ciascun soggetto è organizzato a partire dalle relazioni sociali che ha interiorizzato nel corso della sua esperienza di vita. Passando dall’esperienza con il gruppo primario, quello familiare appunto, agli altri gruppi, quelli secondari, il soggetto si troverà a dover mettere in discussione le relazioni sociali precedentemente interiorizzate (il gruppo interno), in funzione delle richieste sperimentate socialmente e delle necessità emergenti nella nuova situazione gruppale in cui si trova inserito. Per cui il soggetto, in ogni gruppo, si troverà a dover contrattare con gli altri integranti la propria posizione, il proprio ruolo, trovandosi all’incrocio dei movimenti proiettivi ed introiettivi che si dispiegano tra i partecipanti. Da una parte, la spinta del gruppo ad aggiudicargli un ruolo specifico, necessario, o comodo, per gli altri integranti; dall’altra, l’intenzione del soggetto di assumerne uno già conosciuto. L’inserimento del soggetto nel gruppo si gioca nel conflitto tra questi due poli, nel rapporto tra aggiudicazione del ruolo da parte degli altri integranti ed assunzione del ruolo da parte sua.
Riuscire a modificare il ruolo che si vorrebbe giocare in funzione della situazione nella quale ci si trova, ovvero in relazione con gli altri, costituisce un cambiamento del proprio gruppo interno e dunque dell’organizzazione della propria personalità. Questa condizione va intesa come sintomo di salute. Al contrario, quando si continua a relazionarsi con gli altri in modo abitudinario, riproponendo apprendimenti relazionali passati e che si rivelano insoddisfacenti nella situazione attuale, parliamo di stereotipia, ovverosia un sintomo di malattia.
Ogni gruppo ha un compito
La nozione di compito è centrale nella teoria dei gruppi operativi, tanto che viene affermato che è il compito a convocare il gruppo e che è proprio attorno al compito, un oggetto astratto, che si organizzerà il processo gruppale. Il compito va inteso come il motivo per cui le persone decidono di partecipare a quella particolare esperienza (che si tratti di formazione o apprendimento, di psicoterapia, di lavoro, ecc.), e va a costituire il perno attorno a cui si svolgerà il processo di lavoro del gruppo. Il concetto di compito è piuttosto complesso da intendere, è qualcosa di scivoloso e non va confuso con quello di obiettivo. Quando si parla di obiettivo ci si riferisce a qualcosa di predeterminato, si sa già dove si vuole arrivare. Forse è il termine finalità, ossia qualcosa di meno definito e che rimanda ad una processualità operativa, che sembra meglio avvicinarsi a quel concetto. Il compito potrebbe essere pensato come la stella polare per i marinai: funge da guida, indicando una direzione della rotta; ma quando la si guarda, o la si indica, non si pensa di raggiungerla concretamente. Così è il compito: si lavora in funzione del compito, ma non si sa, nel mentre del viaggio, in che cosa ci si potrà imbattere, e sarà solo il gruppo che potrà definire la sua finalità nel mentre del proprio lavoro. Solo alla fine del viaggio, cioè del percorso del gruppo, si potrà capire il compito che quello specifico insieme di persone ha perseguito o ha potuto raggiungere.
Armando Bauleo[3], sosteneva che tre sono gli elementi fondamentali che mettono in moto il processo del gruppo: il compito, il coordinatore e l’organizzazione gruppale. E sottolineava l’importanza del compito che, suggerendo che i membri si riuniscono per un motivo specifico, fornisce un’identità al gruppo, permettendo lo scorniciamento dei partecipanti. In altri termini, il focus viene centrato sul lavoro del gruppo per cui gli integranti si sono riuniti, e non più sulla tipologia dei membri (tossicodipendenti, psichiatrici, ecc. in un gruppo di psicoterapia; oppure infermieri, psicologi, medici ecc., in un gruppo di formazione o apprendimento) che ne fanno parte.
Nella Tecnica dei Gruppi Operativi si considera che il compito abbia un aspetto manifesto, quello che convoca i partecipanti, ed uno latente, che emergerà a poco a poco a seconda dei significati che ciascun integrante attribuisce ad esso. Il compito manifesto è quello che viene chiaramente esplicitato, mentre il compito latente riguarda il modo di stare in gruppo. Durante il processo del gruppo non si lavora solo sul piano manifesto, su quanto viene esplicitamente espresso, ma anche sul piano latente, ossia sulla modalità che i partecipanti hanno di intessere la loro relazione con gli altri integranti. All’inizio, il lavoro si svolge considerando i contenuti espliciti prodotti dai partecipanti, e solo quando gli integranti, progressivamente, inizieranno a riconoscersi (la mutua rappresentazione interna), sarà possibile passare dal compito manifesto a quello latente[4]. Il compito latente è legato alle soggettività in gioco: come già detto, ciascun integrante ha maturato una propria esperienza e propri schemi comportamentali, cioè una propria idea di come stare in relazione (gruppo interno), e sono proprio questi apprendimenti che vengono sollecitati e messi in discussione nella nuova esperienza di gruppo, ossia nel confronto con il gruppo (esterno) attuale.
Ciò significa che ogni partecipante entrerà a far parte del gruppo avendo già in mente una sua idea stereotipata di gruppo e avendo le sue specifiche aspettative sul compito. L’esperienza gruppale parte da una situazione di sincretismo nella quale gli integranti danno per scontato il fatto di avere una stessa idea sul compito che li convoca. Gradualmente, gli integranti arriveranno a pensare che le idee sul compito non solo le stesse, che ognuno lo pensa in modo differente, e che perciò le aspettative iniziali non potranno essere soddisfatte in quel gruppo. Questa presa di coscienza comporterà l’abbandono dell’iniziale posizione narcisistica dei partecipanti, spingendoli a pensare insieme agli altri in funzione di un compito condiviso.
Questo processo, però, sarà caratterizzato da progressi, da arresti e da momenti regressivi, ovverosia dalla dinamica tra due fasi: quella del pre-compito, nella quale gli integranti affrontano il compito facendosi scudo delle conoscenze precedenti, evitando dunque il cambiamento; e quella del compito, allorché sarà possibile abbandonare i vecchi modelli di condotta per adottarne di nuovi, strutturandoli nel qui ed ora insieme agli altri. Queste fasi sono contrassegnate dal confronto con ansie di diversa qualità: quando le proprie idee e quelle che prima erano considerate le proprie convinzioni si scontrano con le idee e le concezioni del mondo proposte dagli altri partecipanti, si avrà paura di essere da essi attaccati, per cui verranno adottate strategie difensive di tipo schizo-paranoide e si proveranno ansie di natura paranoide; successivamente, quando si potrà lasciar cadere le precedenti certezze con il fine di organizzarne delle altre, ci si sentirà scoperti e indifesi, e ci si troverà in preda delle ansie di natura depressiva. Questi due momenti si alterneranno continuamente poiché ogniqualvolta nel gruppo verranno messi in crisi i vecchi schemi di riferimento ci si sentirà in pericolo e si cercherà di ripararsi dietro al già conosciuto: ciò significa che, ogni volta, si attraverserà la fase del pre-compito. Successivamente, se si riuscirà a permanere nella situazione conflittuale e a risolverla dialetticamente insieme agli altri, allora si sarà entrati nella fase del compito, nella quale diviene possibile l’integrazione fra il pensiero e l’affetto. Un altro tipo di ansie con cui ci si confronta sono quelle di natura confusionale, che emergono quando “l’oggetto della conoscenza supera la capacità di discriminazione e di controllo dell’Io” (Bleger, 1987, p. 176), facendo fatica a capire il senso della propria presenza in quella situazione.
Una terza fase è quella del progetto, che però non sempre si raggiunge: è una fase nella quale gli integranti hanno potuto sviluppare un codice comune per parlare del compito che li ha convocati e che permetterebbe la possibilità di pianificare la propria azione.
L’inquadramento del gruppo
Il compito, che abbiamo visto costituire un elemento centrale nella Tecnica dei Gruppi Operativi, è uno delle costanti che definiscono l’inquadramento del gruppo, insieme allo spazio, al tempo e al ruolo (o funzione). La costanza dell’inquadramento è un aspetto fondamentale poiché costituirà la cornice all’interno della quale potrà essere osservato e analizzato il processo gruppale, ossia l’evoluzione del lavoro del gruppo sia dal punto di vista manifesto che latente. Ciò comporta che, se dovessero mutare le costanti, ci si troverà al cospetto di una situazione confusa e sarà più difficile leggere e interpretare il processo che il gruppo compie (il processo costituendo l’elemento variabile). Se tutto si muove, diventa molto più complesso e ostico comprendere ciò che accade in quella situazione.
La stabilità del setting, ovvero delle condizioni di incontro del gruppo, è fondamentale poiché, come sostiene José Bleger (1922-1972)[5], funge da deposito delle parti psicotiche, indifferenziate, degli integranti. Ed è il fatto di poter assumere il setting come riferimento a consentire loro di poter discriminare, progressivamente, il “dentro” dal “fuori”: sarebbe a dire, ciò che riguarda il gruppo presente, nel qui ed ora, con un suo compito, dagli altri gruppi a cui gli integranti sono legati per altri motivi (il gruppo familiare, quello degli amici, quello dei colleghi, ecc.).
Parlare dello spazio significa semplicemente dire che è necessario un luogo dove gli integranti possono incontrarsi. È importante che il luogo rimanga quanto più possibile invariato poiché sarà così possibile abituarsi a quello spazio, favorendo quella condizione di sicurezza e tranquillità che si sperimenta rispetto a ciò che risulta “conosciuto”.
Per quanto riguarda il tempo, si intende il definire un giorno ed un orario di inizio e di fine dell’incontro. È abbastanza condivisa l’idea che un gruppo dovrebbe lavorare per almeno un’ora e trenta minuti, poiché, in genere, è dopo l’ora di lavoro che la comunicazione diventa più intensa e iniziano a ridursi le resistenze degli integranti. Incontrarsi sempre nello stesso giorno e nello stesso orario, fa diventare una consuetudine l’appuntamento, facilitando la possibilità di tenere il gruppo in mente.
I ruoli (o funzioni) sono quelli dell’integrante e del coordinatore. Sarebbe ideale la presenza di un osservatore. L’integrante partecipa a quella situazione cercando di trovare il modo per entrare in una qualche relazione con gli altri partecipanti al fine di lavorare sul compito che li ha convocati. Situazione non facile, tanto che gli integranti faranno di tutto per non lavorare sul compito: rimarranno in silenzio; oppure parleranno di argomenti di poca importanza, riempiendo lo spazio-tempo del gruppo. Cercheranno ogni modo per non mettersi direttamente in gioco nella relazione con gli altri rispetto al compito.
Spostandoci sul ruolo del coordinatore, invece, la prima cosa da dire è che non deve essere inteso come il coordinatore di un servizio; non è il capo del gruppo e, contrariamente a quanto si può pensare, non è il suo leader (che invece è una funzione del gruppo). Il compito fondamentale che ha il coordinatore è di mantenere il setting, ossia le regole che definiscono l’incontro degli integranti, e non è suo compito gestire il gruppo, che invece dovrebbe imparare a gestirsi in modo autonomo. Il coordinatore ha il compito di ascoltare ciò che vanno dicendo gli integranti, cercando di aiutarli a superare i blocchi cognitivi ed affettivi che possono arrestare il pensiero. Possiamo considerarlo un co-pensatore che, partecipe della dinamica transfert-controtransfert che lì si dispiega, cerca di capire, da una posizione differente rispetto a quella degli integranti, i problemi di comunicazione e apprendimento che il gruppo incontra nel corso del processo. Per svolgere questo ruolo, vale a dire per aiutare gli integranti a comprendere che cosa stanno comunicando, o che cosa stanno rappresentando, in rapporto al compito, deve essere capace di utilizzare quella modalità operativa che Bleger chiama dissociazione strumentale: in parte, deve riuscire a porsi dentro il gruppo, per poter cogliere, percepire e sentire ciò che avviene tra gli integranti, ciò che attraversa il gruppo; in parte, però, deve riuscire a rimanere distaccato, così da non farsi completamente assorbire dalle pressioni emotive che circolano nel gruppo, e poter mantenere quel grado di lucidità tale da permettergli di provare a dare significato alle espressioni gruppali. Una modalità operativa che è possibile agire solamente se si riesce a mantenere quella che, sempre Bleger, definisce distanza ottimale dalla situazione.
Portavoce ed emergenti gruppali
Il coordinatore può aiutare il gruppo a superare gli ostacoli, i conflitti ed i blocchi che incontra, e che sarebbero espressione delle ansie vissute nel processo gruppale, proponendo delle interpretazioni rispetto al materiale latente emergente o facendo delle segnalazioni rispetto a ciò che il gruppo manifesta. Se precedentemente si è sostenuto che lo sguardo deve essere rivolto alla situazione gruppale nella sua totalità, ora si aggiunge che sono i singoli integranti che con i loro interventi forniscono informazioni su quella stessa situazione. In altre parole, l’integrante che dice qualcosa viene considerato come un portavoce del gruppo. Il portavoce è qualcuno che, facendo riferimento alla sua storia personale (verticalità), in quel momento risuona con la situazione che sta attraversando il gruppo nella sua complessità (orizzontalità), e la esprime verbalmente. Nei termini di Teoria della Gestalt, potremmo pensare all’integrante che interagisce con gli altri come alla figura che assume significato in rapporto allo sfondo costituito dal gruppo: figura e sfondo sono ineludibilmente intrecciati[6].
Il portavoce, in alcune occasioni, può essere anche considerato come un emergente. Con il termine di emergente si intende, sostanzialmente, un avvenimento che si produce nel contesto gruppale e che può essere inteso come rappresentativo della situazione attuale: può essere una verbalizzazione da parte di uno degli integranti oppure un silenzio, o un gesto, o anche un evento che accade nella stanza in cui si svolge l’incontro e che stimola nel coordinatore un pensiero che può essere riferito alla fase che sta attraversando il gruppo.
Il coordinatore del gruppo si baserà sugli emergenti per cercare di capire la fase che il gruppo sta attraversando, cercando di aiutare gli integranti a collocarsi rispetto alla situazione complessiva. Se l’intervento del coordinatore viene sentito rispondente alla situazione che il gruppo vive, allora si verificherà una modifica della configurazione gruppale e verrà proposta una situazione differente; nel caso contrario, il gruppo continuerà a riproporre segnali o emergenti, di diversa fattura, che possano aiutare il coordinatore a leggere la situazione esistente.
Schemi di riferimento ed ECRO
Un concetto estremamente importante e funzionale che Pichon-Rivière ha sviluppato sul finire degli anni ’50, è quello di ECRO: un acronimo che in spagnolo si legge Esquéma Conceptual Referencial y Operativo e che in italiano può essere tradotto con Schema Concettuale di Riferimento e Operativo.
Ogni integrante entra in un gruppo attrezzato con un proprio schema di riferimento, ciò che Bleger definisce “l’insieme di esperienze, conoscenze ed affetti mediante i quali l’individuo pensa e agisce” (1987, p. 172) e che corrisponderebbe ad una cristallizzazione organizzata della propria personalità. Ogni individuo entra quindi in un gruppo con un proprio modo organizzato di vedere le cose del mondo. Nel confronto dialettico con gli altri integranti lo schema di riferimento di ciascuno viene continuamente sollecitato e messo in discussione, suscitando il timore di perdere i propri punti di riferimento e, come prima sostenuto, stimolando i vissuti di ansia paranoide, confusionale e depressiva.
Il lavoro gruppale e interdisciplinare con la Tecnica Operativa mira a sottoporre costantemente a revisione lo schema di riferimento con cui ciascuno entra nel gruppo. Il confronto dialettico tra i vari schemi di riferimento in gioco, in rapporto al compito che ha convocato il gruppo, può arrivare a produrre uno Schema Concettuale di Riferimento e Operativo. ECRO non significa che tutti gli integranti la pensino allo stesso modo, bensì che sia possibile raggiungere una coerenza interna tale da permettere l’analisi delle contraddizioni che emergono nel processo tra gli integranti. Rappresentativo del fatto che nel gruppo si sia creato un ECRO può essere l’adozione di un linguaggio o codice comune, o di alcuni termini specifici il cui significato è condiviso dai vari membri del gruppo.
Ritengo necessario soffermarsi sull’ultimo termine dell’acronimo ECRO: O sta per Operativo. Nella Tecnica dei Gruppi Operativi, ça va sans dire, il concetto di operatività riveste un’importanza fondamentale. Il gruppo diventa operativo quando riesce a produrre un cambiamento nel proprio modo di affrontare il compito. Il concetto di operatività, in questa concezione, sostituisce quello di verità: non si raggiunge mai una verità assoluta, nel qual caso dovremmo parlare di dogma, ma si lavora sempre in funzione di una ricerca che, mentre si realizza, porta ad una modifica dello stato di cose esistente.
La Concezione Operativa di Gruppo
Come ho provato a mostrare all’inizio di questo lavoro, la Tecnica dei Gruppi Operativi è stata organizzata, gradualmente, attraverso le necessità emerse dalle vicissitudini e dalle esperienze affrontate da Pichon-Rivière nel suo percorso professionale. Successivamente, attraverso il lavoro con i gruppi sono stati elaborati tutta una serie di concetti, alcuni dei quali abbiamo provato a delineare sinteticamente. Dalla pratica con i gruppi terapeutici e con quelli di formazione/apprendimento, nel corso degli anni, si è passati a fare esperienze di lavoro più specifiche negli ambiti delle istituzioni e delle comunità sociali. Questi nuovi approdi esperienziali se, da un lato, hanno permesso di usare e anche di ripensare i concetti fino a quel momento elaborati, dall’altro, hanno consentito di pensarne di nuovi, permettendo di arricchire quell’apparato concettuale. In altre parole, attraverso nuove pratiche è mutato lo Schema di Riferimento Concettuale e Operativo e dalla tecnica si è passati a sistematizzare una concezione, ossia “ideas guías para elaborar la comprensión de los pedidos-demandas y de esctructurar una posibile intervención-interpretación” [7](Bauleo, 1990, p. 16).
Fare riferimento alla Concezione Operativa di Gruppo significa disporre di un apparato teorico-concettuale per mezzo del quale indagare le dinamiche emergenti (ideologia) nei vari ambiti sociali (psicosociale, sociodinamico, istituzionale, comunitario e della globalizzazione)[8] e le modalità di produzione delle soggettività, pensando a possibili modalità di intervento in funzione di un cambiamento dell’esistente. Una concezione all’interno della quale il gruppo, considerato un’istanza ponte tra individuo e società, viene pensato come un elemento basilare; e nella quale il lavoro con i gruppi, cioè l’applicazione della Tecnica dei Gruppi Operativi, consentendo di avere a che fare con una situazione concreta e definita, funge da contenitore necessario per “la labor terapeútica y la elaboración ‘in situ’ de la conflictividad de los individuos”[9] (Bauleo, 1990, p. 33).
Note:
[1] Una Psicologia Sociale con fondamenta teoriche ed epistemologiche evidentemente differenti rispetto a quella che ha conquistato la scena accademica e che venne sviluppata soprattutto negli Stati Uniti, alla quale siamo soliti pensare.
[2] Lewin elabora questo pensiero fondandosi sull’idea di Wolfgang Köhler (1887-1967), anch’esso psicologo esponente della Psicologia della Gestalt, per cui “Il tutto è diverso dalla somma delle singole parti”.
[3] Armando Bauleo (1932-2008), psichiatra e psicoanalista, è stato uno degli allievi di seconda generazione di Pichon-Rivière. A lui, prevalentemente, si deve il merito di aver fatto arrivare il pensiero pichoniano in Europa e in Italia.
[4] A questo proposito credo sia utile riprendere un’annotazione che propone Bauleo, il quale considera che in una prima fase del lavoro insieme, gli integranti non possono ancora riconoscersi, non c’è un “noi”, non essendosi ancora stabilito un codice comune, per cui si dovrebbe più propriamente parlare di aggruppamento e non di gruppo. Si dovrebbe parlare di gruppo solo quando, invece, attraverso il lavoro insieme, gli integranti iniziano a riconoscersi, ossia sviluppano quella che Pichon-Rivière definisce, appunto, mutua rappresentazione interna.
[5] José Bleger (1922-1972), psichiatra e psicoanalista, è stato tra i prosecutori più brillanti del pensiero del suo maestro, Pichon-Rivière, di cui fu stretto collaboratore in moltissime occasioni.
[6] Questo concetto viene ripreso ed approfondito da Bleger quando sostiene l’esistenza di due modalità di relazione nei gruppi che corrispondono a due livelli di identità: un livello più primitivo, inconscio, è quello costituito da una socialità muta, di tipo sincretico, psicotico, senza limiti, sostenuta dalla “nuda” appartenenza al gruppo (identità sincretica di gruppo); l’altro livello, che affiora da questo primo livello di socialità pre-verbale, è definito da modalità di interazione più formali e mature che si configurano per mezzo del lavoro svolto in comune (identità per interazione). L’interazione, afferma Bleger, è la figura che emerge dallo sfondo costituito dalla socialità sincretica, cioè da una forma di socialità non consapevole.
[7] In italiano tradurrei la citazione in questo modo: “idee guida per elaborare la comprensione delle richieste-domande e per strutturare un eventuale intervento-interpretazione”.
[8] Vedi la Psicologia degli ambiti elaborata da Bleger.
[9] In italiano la riporterei così: “il lavoro terapeutico e per l’elaborazione ‘in situ’ della conflittualità degli individui”.
Bibliografia:
Adamson G., “El ultimo Pichon”, https://area3.org.es/descargas/a3-E3-elultimoPichon-GAdamson.pdf
Bauleo A. J., Ideologia, gruppo e famiglia, Feltrinelli, Milano, 1978
Bauleo A. J. e De Brasi M. (1990), Clinica gruppale, clinica istituzionale, Il Poligrafo, Padova, 1994
Bauleo A. J., Duro J. C., Vignale R., a cura di, (1990), Concepción Operativa de Grupo, Mariar S. A., Madrid
Bleger J. (1966), Psicoigiene e psicologia istituzionale, Libreria Editrice Lauretana, Loreto, 1989
Fischetti R., La Concezione Operativa di Gruppo, Área 3. Cuadernos de temas grupales e institucionales, n. 15, otoño-invierno 2011, www.area3.org.es
Lezioni alla Scuola di prevenzione “José Bleger” di Rimini
Pichon-Rivière E. (1971), Il processo gruppale. Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale, Libreria Editrice Lauretana, Loreto, 1985
Questo articolo è stato pubblicato nel libro di Stefano Bonifazi, Buongiorno dottore, come sto questa mattina? Il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura e l'arte del possibile (2024)