LORENZO SARTINI
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PICHON-RIVIÈRE: FRAMMENTI DI UNA MALINCONICA ECCENTRICITÀ

di Lorenzo Sartini

Facendo ricerche sul web a più riprese mi sono imbattuto su interviste di persone che si sono formate con Enrique Pichon-Rivière e che, in genere sollecitati dall’intervistatore, avevano l’occasione di far riemergere ricordi particolari relativi ai loro incontri con lo psicoanalista francese ma argentino di adozione, uno dei fondatori dell’APA (Asociación Psicoanalítica Argentina), nonché padre della psicologia sociale argentina.
Ho pensato di riunire alcuni degli aneddoti raccontati da queste figure, non molto conosciute alle nostre latitudini ma piuttosto note nel mondo psi argentino, che hanno avuto modo di frequentare Pichon-Rivière nel corso del tempo. Si tratta, sostanzialmente, di psicologi sociali e/o psicoanalisti che lo hanno incontrato sulla loro strada e che, in un modo o nell’altro, ne sono rimasti affascinati; anche chi, magari, ha successivamente deciso di seguire altri percorsi.
Ne emerge un quadro piuttosto insolito, in realtà non troppo sorprendente per chi conosce almeno un po’ le vicissitudini di Pichon. Un quadro costituito da una serie di stravaganti ma credo significative immagini segnate dalla sua immancabile vena malinconica, in cui si alternano sinistramente, o in modo perturbante potremmo dire, momenti di spiazzante eccentricità e momenti di assoluta quanto incomprensibile genialità.
 
Parto da Alfredo Moffat (1934-2023), uno psicologo sociale e psicodrammatista che si è formato con Pichon-Rivière e che riconobbe come suo Maestro. Moffat era molto impegnato nel lavoro in ambito comunitario e a favore degli ultimi, degli oppressi, e ha avuto modo di collaborare con Angel Fiasché (psicoanalista APA, allievo di Pichon-Rivière e che, interessandosi delle modalità terapeutiche alternative a quelle dominanti, ha avuto importanti scambi con Franco Basaglia, Roland Laing e David Cooper) e con Paulo Freire (riconosciuto e importante pedagogista e teorico dell’educazione, il cui più noto testo è La pedagogia degli oppressi).
 
Moffat, in un suo intervento che ho ripreso e tradotto (http://www.lorenzosartini.com/aneddoti-su-pichon.html), accenna alla cosiddetta Esperienza Rosario, un’esperienza di ricerca e intervento svolta nella cittadina di Rosario nel 1948 e che, attraverso informazioni e gruppi di elaborazione, ha visto il coinvolgimento di diverse centinaia di cittadini di varia formazione e professionalità.
Afferma Moffat: “Pichon ha fatto esperienze come quella di Rosario in cui hanno analizzato non solo una famiglia o un gruppo operativo ma tutta una comunità in un dato momento. Era con Bleger, Liberman, Fiasché e Ulloa, i suoi primi discepoli, che poi furono i maestri della psicologia dinamica. Pichon disse qualcosa e diede alcuni stimoli sui problemi della depressione, della paura, su ciò che girava in quel momento in quella città; la gente è stata ai gruppi operativi, ha lavorato e ha portato emergenti che sono stati rielaborati. Si ottenne qualcosa come una radiografia di com'era la salute mentale in quel momento e in quel posto. La vita di Pichon, il suo adattamento rapido e il suo coraggio, è descritta dal famoso aneddoto di Bleger. Quando stavano per salire sul treno di Rosario, Bleger (che era un ossessivo da manuale) si spaventò e disse ad Enrique: ‘E se quando arriviamo a Rosario ci tirano la merda?’. Pichon lo guardò e gli rispose: ‘Quello sarà il primo emergente’”.
 
Su tutt’altro piano, Moffat racconta un paio di episodi in cui Pichon-Rivière ha ricevuto nel suo studio persone con problemi psichiatrici rilevanti. Nel primo caso, vediamo Pichon alle prese con una persona con tratti paranoidi: “Come quando è venuto il pazzo, quello che credeva di essere paralizzato, stava sul divano e allucinava di essere su un binario e che veniva il treno (un paranoico). Enrique gli si gettò addosso, lo abbracciò e mentre lo faceva rotolare a terra, gli disse: ‘Togliamoci che ci prende...’. Così facendo gli stava dando il permesso di uscire da una sensazione di paralisi, sembra qualcosa di molto forzato o molto poetico ma è, clinicamente, correttissimo. Ci sono donne colpite da mariti molto violenti che sanno che per qualche circostanza che esse sospettano, potrebbe essere che quella notte vengano uccise e comunque lo aspettano, ossia, rimangono paralizzate come sui binari, ciò di cui hanno bisogno è che qualcuno gli dica ‘Vattene, vattene che ti uccide’. Pichon diceva: ‘L'interpretazione più difficile è quella ovvia, l'ovvio è ciò che non si vede’. Allora la più difficile non è la più profonda”.
 
Nel secondo caso, invece, vediamo Pichon alle prese con un cugino di Moffat che aveva una diagnosi di schizofrenia: “Io ho portato Tommy, il mio cugino schizofrenico, ma schizofrenico sul serio, trattato con insulina, elettroshock, ha fatto tutti i dottorati nel ‘Borda’, l'hanno fatto diventare merda. Tommy non accettava nessuno psichiatra per l'esperienza che aveva avuto. Quando siamo entrati, Pichon ha detto qualcosa di incoerente e poi gli ha proposto di studiare una macchia che aveva sul muro. Discutevano, Pichon e mio cugino, sul fatto se quella macchia fosse o no un messaggio da ‘i nemici’. Ora si, ora no, Pichon disse finalmente: ‘Forse è solo una macchiolina e non un messaggio...’. Pichon si mise nel delirio di cercare messaggi nascosti e poi tornò alla realtà definendolo come una semplice macchia. Quando siamo usciti, Tommy mi ha detto: ‘Voglio tornare...’, sapendo che l'altro era uno psichiatra”.
 
Un’altra situazione che racconta Moffat e che dipinge uno Pichon oscillante tra la follia e il genio li ritrae insieme a cena, dopo una giornata di lavoro: “Una volta eravamo in una taverna da due lire, credo che fosse di fronte al macello, dove ci sono taverne infernali. Siamo rimasti fino alle 3 del mattino mangiando degli spaghetti e Enrique, passato già dal Gin, di colpo mise la testa dentro agli spaghetti e io pensai: ‘Qui andiamo in carcere per alcolismo, ubriachezza...’. Poi venne il cameriere, un giovane ragazzo con un aspetto dell'interno, correntino. Enrique era ancora lì, e io dissi al cameriere: ‘Succede che il professore è molto stanco, ha fatto un sacco di lezioni’, cercando di spiegare perché aveva la testa dentro gli spaghetti. E l'altro non capiva, era sconcertato, ma un po' strano, come in lacrime, stava male. Poi Pichon alzò un po' la testa, prese il tovagliolo, si pulì la faccia e gli disse qualcosa in Guaraní. L'altro gli rispose e poi si mise a piangere. Pichon gli disse due o tre frasi in Guaraní e si calmò. La madre era morta il giorno prima e lui aveva colto la tristezza del ragazzo. Così, semplicemente: colse quell'angoscia che aveva attraverso il modo di muovere il corpo, attraverso la voce e tutto, un'angoscia molto profonda, aveva ricevuto un colpo molto spiacevole, non era angoscia del momento. Non so cosa gli disse, erano due o tre frasi che avevano a che fare con il capire cosa gli passava per la sua anima di figlio in solitudine”.
A questo proposito, viene anche da pensare che, forse, il fatto che Pichon assumesse degli antidepressivi, a cui poi, come ricorda Moffat, aggiunse dell’alcool, potrebbe aiutare a spiegare il repentino crollo all’interno del piatto di spaghetti.

Un ultimo aneddoto che riprendo da Moffat riguarda un Pichon-Rivière nei panni di presidente di un congresso sulla schizofrenia di cui doveva aprire i lavori: “È successo alla Facoltà di Medicina, in aula magna, durante un congresso sulla schizofrenia che lui presiedeva. Questo me l'ha detto Enrique, io a quel tempo non lo conoscevo. Doveva iniziare e il tema era pesante, in quel momento c'era abbastanza crisi, la schizofrenia aveva a che fare con quello che stava succedendo. Poi apparve Enrique e cominciò a fare come se stesse cercando delle cose, quando dissero: ‘... E ora il dottor Enrique Pichon-Rivière sta per inaugurare...’. Ci fu un gran silenzio e lui continuò a cercare dei documenti, controllò sul pavimento, si aggiustò il vestito e lì tutti i suoi discepoli vennero presi dal panico. Bleger particolarmente, che era un ossessivo grave, iniziò a tremare. Ulloa, Fiasché, tutti: ‘Questo è venuto ubriaco, farà una figuraccia al congresso che gli abbiamo organizzato’.
L'intera stanza iniziò a preoccuparsi. La gente tossiva un po', si muoveva. C'era una sensazione di disturbo, qualcosa stava accadendo, qualcosa di inappropriato. C'era qualcosa di schizofrenico nell'ambiente. La gente era sconcertata, sperava che si alzasse e parlasse. Poi, quando tutto era confuso, Enrique disse: ‘Ora, per la tosse e per il movimento delle sedie, vedo che è meglio ripartita l'ansia del tema e non è depositata tutta su di me. Iniziamo’. Cioè, quello che percepì è che lui era il responsabile, che doveva farsi carico di tutta l'angoscia nel metterci mano e voleva ripartirla tra tutti. Era una forma di psicodramma, sentì la proiezione e si scaricò, allora gli altri dovettero prendere il ruolo di assumere loro il problema”.
 
Fernando Octavio Ulloa (1924-2008), medico e psicoanalista, è stato un maestro per molte generazioni di psicologi e psicoanalisti argentini. È stato professore all'Università di Buenos Aires, dove si è laureato in medicina nel 1950.  Partendo dal suo forte impegno sociale, si è interessato del lavoro nelle istituzioni e si è occupato di diritti umani. È stato uno degli allievi più importanti di Enrique Pichon-Rivière, di cui poi divenne collega e amico, coincidendo soprattutto nell'impegno ad articolare psicoanalisi e politica.
 
Ulloa racconta di come avvenne l’incontro con Pichon-Rivière. Stava frequentando un corso di specializzazione triennale in psichiatria all'Università di Buenos Aires e aveva dei disaccordi con il direttore del corso poiché non pensava fossero troppo utili le molteplici classificazioni internazionali della schizofrenia. Studiava con Pereyra e Goldenberg [due importanti psichiatri argentini del tempo]. Dice Ulloa: “Quello che sapevo di Pichón lo avevo letto leggendo i suoi lavori su Lautréamont nel supplemento letterario de La Nación. Ne avevo avuto un'impressione un po' diabolica – qualcosa che mi attraeva – e allo stesso tempo nutrivo delle riserve sulla psicoanalisi; stiamo parlando dei primi anni Cinquanta. Il fatto è che sto lasciando questo corso; sono arrabbiato per una risposta che mi è stata data. Mancavano due mesi alla fine del corso triennale e me ne sono andato. Il professore mi dice: ‘Sei pazzo! Come, te ne vai?’. Quando esco dalla Sala Cátedra, incontro una donna che piange disperatamente. Mi avvicino a lei, ed è una dottoressa che si era fatta male a un dito con un martello e aveva dolori fortissimi. Mi disse: ‘Ero venuta ad ascoltare Pichon tenere una conferenza sulla psicosi, e pensavo che fosse qui alla Sala Cátedra – dove stavo seguendo il corso – ma mi dissero che era dal dottor Méndez Mosquera, che è da un'altra parte’. Così le dissi: ‘Ti accompagno io, ho una macchina’. Pichon aveva già iniziato a parlare di psicosi, e a quel tempo aveva probabilmente 51 o 52 anni, era in piena attività, e faceva cose molto curiose: ogni volta che voleva dare sostegno a un concetto, faceva quello che io ero solito dire: "Disegnava la schiena di un bisonte nelle grotte di Altamira". Parlava molto di malattie e usava parole incomplete, lettere. Per me, era come avere la prima impressione di cosa fosse l'inconscio. Lì accadde una cosa molto curiosa: Pichón parlava molto di una malattia unica, un concetto non molto famoso ma che lo caratterizzava. Probabilmente scrisse una E e una U alla lavagna: Enfermedad Única [in italiano, Malattia Unica], ma mancava la zampa dalla barra sottostante, la barra della E, quindi divenne una F. Improvvisamente, vidi F. U., Fernando Ulloa. È divertente e delirante! Quando finisce la lezione, mi avvicino a lui e gli dico: Senta, dottore, l'ho conosciuta leggendo i suoi articoli su Lautréamont e pensavo che fosse un po' diabolico, ora mi rendo conto che non è altro che mefistofelico. Lei è guidato da Goethe, da tutta la sua tradizione di ‘appropriarsi di ciò che si è ereditato dai genitori’. Questa frase è famosa in psicoanalisi.
Poi ho fatto alcune interviste con Pichon, la seconda delle quali ha una storia molto divertente che è probabilmente uno delle più note. Succede che lui cambiava posto, io mi sedetti nel posto spaziale che ora era la sua sedia, allora mi fece un'interpretazione, che è l'unica che mi abbia mai fatto in vita mia e mi disse: ‘non ancora’, con la quale mi apriva ‘un giorno sì’. Ne abbiamo riso. Nell'ultima intervista mi ha detto di non analizzarmi con lui, ma di studiare con lui. Ci sono volute due ore per convincermi. Gli avevo detto: ‘Ovviamente lei pensa che non ho abbastanza soldi per pagarla! Non ho mai mentito a nessuno’. ‘Beh, meglio’, dice...
A quel tempo, c'era un paziente che gli era stato segnalato da un collega della facoltà, il Dott. Fabreque, che era a capo della psichiatria militare. Era un uomo che aveva avuto un incidente colposo, perché era stato addirittura avvisato alla stazione di servizio che la gomma stava per esplodere. Lui continuò, la gomma esplose, sua moglie e sua figlia morirono e un neonato in una culla, sul sedile posteriore dell'auto, fu salvato. Questo ragazzo (suo figlio) si era laureato in medicina e non l'aveva invitato; si stava per sposare e non l'aveva invitato. Quest'uomo, che aveva subito molti elettroshock, stava per subire una lobotomia perché era un vegetale. Per questo lo mandò da Pichon, dicendogli che forse la psicoanalisi avrebbe potuto salvarlo. Pichon se ne accorse e mi disse: "Carramba! Stiamo parlando da due ore e ho un uomo che mi aspetta". Mi raccontò la storia che le ho appena raccontato. Il paziente entra, vomita, Pichon non batte ciglio e dice: ‘Guardi, ha così tante cose da dirmi, e con tutto questo mi ha detto più di quanto pensa. E io l'ho fatta aspettare. Non si preoccupi, andiamo in un'altra parte dello studio’. L'uomo inizia a raccontare la sua storia e io gli chiedo: ‘Lei è il padre di Tizio?’. Perché quel ragazzo che ha menzionato aveva avuto contatti con me come semiologo o assistente clinico, materie che mi hanno sempre interessato. Poi Pichon dice rapidamente: ‘Non so se l'analisi possa salvarla, ma un analista con una buona formazione psichiatrica, come Ulloa, che è anche molto entusiasta di essere analista, non ha nemmeno iniziato l'analisi, ma è molto entusiasta, potrebbe essere un buon terapeuta per lei, quell'entusiasmo potrebbe salvarla’. Naturalmente, Pichon non lo disse a caso, e rivolgendosi a me, esclamò: "Il dottore", al che il potenziale paziente chiese: ‘Ma lei è un medico?’. ‘Sì, certo’, risposi. ‘Ah! Allora non pago il trattamento’, e Pichon aggiunse: ‘Ah! Non farò pagare la supervisione’. Mi aveva detto che avrebbe supervisionato il caso. Il fatto di aver ricevuto un paziente che vomitava, di aver avuto quell'atteggiamento non ironico, di avergli dato un senso, era già una lezione, ma poi formulò quello che direi essere stato il suo primo insegnamento: ‘Guarda, Ulloa, il dottore’ – riferendosi al paziente – ‘ti prenderà come suo figlio, perché tu conosci il figlio, e lui sta cercando quel figlio. Non ha importanza se tu non ci credi, questa è la verità della psicoanalisi’, ed è così che mi ha descritto il transfert” (http://www.elsigma.com/entrevistas/homenaje-a-fernando-ulloa-entrevista-a-fernando-ulloa/3989).


 
Isidoro Berenstein (1932-2011) fu uno psi­co­a­na­lis­ta, membro con funzione didattica in APdeBA (Aso­cia­ción Psi­co­a­na­lí­ti­ca de Bue­nos Ai­res) e membro della Aso­cia­ción Ar­gen­ti­na de Psi­co­lo­gía y Psi­co­te­ra­pia de Gru­po. Inoltre, fu co-direttore scientifico del Dipartimento sulla famiglia e la coppia della Aso­cia­ción Psi­co­a­na­lí­ti­ca de Bue­nos Ai­res e co-direttore del Master sulla famiglia e la coppia presso lo IUSAM (Instituto Universitario de Salud mental) de APDEBA (Asociación Psicoanalítica de Buenos Aires).
 
L’intervistatrice, la giornalista Emilia Cueto, gli chiese quali sono stati gli aspetti più significativi dell’esperienza che ha fatto partecipando, negli anni Sessanta, ad un gruppo operativo e terapeutico coordinato Pichón-Rivière. Al che, Berenstein raccontò:
“Sono passati così tanti anni! In quel gruppo ognuno parlava delle proprie cose e anche Pichon parlava di quello che dicevamo, ma collegava un fatto con un altro, cioè pensava attraverso le relazioni, anche se allora non credo di essermene reso conto. Vorrei raccontarvi un aneddoto. Un collega mi ha raccontato che era in treno con la moglie e che nel sedile di fronte a lui c'era una donna sordomuta. Ciò che ha colpito il marito è che la moglie comunicava, la capiva, non solo con le parole ma anche con i gesti e i movimenti del corpo. Il nostro collega insisteva su quello che per lui era un mistero. Pichon-Rivière gli disse/domandò - domanda che è un modo di dire - se sua moglie fosse incinta. Non che sapesse, fino a quel momento, disse il nostro collega, ma in effetti lo era. Essere uno psicoanalista significa essere un indovino? Non credo. Si tratta di stabilire relazioni tra due persone: la moglie del mio collega è incinta, che lo sappia o no, e come senza saperlo, dal contatto con il proprio corpo e con quello dell'altro, incontra un'altra donna con cui si relaziona in un modo diverso, non convenzionale. Ho percepito che era possibile connettersi con gli altri non solo attraverso le parole, che spesso fanno conoscere e permettono anche di nascondere la connessione, ma anche attraverso il desiderio di afferrare e di essere afferrati, non solo di capire. Capire si avvicina alla conoscenza del significato delle parole, mentre afferrare ha a che fare con il significato che esse portano in quel momento, nell'adesso.
Pichon-Rivière mi ha influenzato negli anni '60 nell'avere un'idea dell'insieme, mai di una sola persona, e nei tentativi di spiegare un settore congiunto, come se fosse una comunità. In un'occasione ci portò a fare una ricerca sociale su un fatto curioso: in quel periodo nella periferia occidentale (Morón, Ramos Mejía) si diffuse la voce che un uomo vampiro aggrediva le ragazze e ne succhiava il sangue. Parlando con i vicini, molti di loro descrivevano in modo abbastanza convincente il suo aspetto: alto o medio, corpulento o magro, uomo o donna. Ma nessuno lo aveva visto. Il problema era diffuso e una vera e propria paura avvolgeva la comunità. Parlando con Pichon, si è giunti alla conclusione che le condizioni di precarietà sociale, la mancanza di lavoro registrata soprattutto come mancanza di cibo, la minaccia della fame, erano legate a questa produzione sociale. La voce trasformata generava nell'immaginario un predatore che usava le ragazze per ‘succhiare il loro sangue’. Un ‘succhiasangue’ era un'espressione popolare all'epoca per indicare uno sfruttatore, anche se si trattava di una situazione sociale” (http://www.elsigma.com/entrevistas/entrevista-a-isidoro-berenstein/12200).
 
Gilou Royer de García Reinoso (1926-2018) è stata una psicoanalista co-fondatrice della Asociación Argentina de Psicoterapia Psicoanalítica de Grupos, nel 1956. Membro di AMPAG (Asociación mexicana de psicoterapia grupal) e membro onorario del Circulo Psicoanalítico Mexicano, partecipò alla commissione direttiva di APDH (Asamblea Permanente por los Derechos Humanos).
 
La giornalista Emilia Cueto, già citata in precedenza, le chiede se sia d’accordo con l’affermazione di Emilio Rodrigué secondo cui Enrique Pichon-Rivière, costituisce, senza dubbio, il paradigma dell'analista argentino. La psicoanalista così risponde: “Pichon-Rivière era un'anomalia nell'istituzione, non era convenzionale. Era un uomo molto personale e molto originale, molto mal tollerato dall'istituzione e, a sua volta, mal tollerava l'istituzione stessa. Il maltrattamento subito dall'istituzione è stato un destino pesante, triste e decisamente oltraggioso.
Penso che sia un paradigma molto onorevole, non tutti gli analisti argentini sono paragonabili a Pichon-Rivière. Penso che Pichon sia un paradigma nel senso di creatore, introduttore di qualcosa, ma non so cosa si intenda per paradigma. Un nuovo paradigma è qualcosa che introduce una nuova modalità e credo che Pichon abbia fatto scuola al di là dei suoi insegnamenti, perché non ha insegnato molto. A un certo punto mi è stato chiesto di scrivere un articolo su Pichon e lì sostengo che sia stato un maestro nel senso che propone Borges, non nel senso di qualcuno che trasmette conoscenze dal sapere, ma qualcuno che trasmette una modalità di affrontare le difficoltà e l'universo. Un modo di essere, per questo dicevo che Pichon trasmetteva più di quanto insegnasse. Il sapere è nei libri, ma la trasmissione personale è un'altra cosa, è un modo di affrontare le cose” (http://www.elsigma.com/entrevistas/entrevista-a-gilou-garcia-reinoso/11786).

Isidoro Vegh si iscrisse alla facoltà di Medicina con l’idea di fare lo psichiatra. Durante il suo percorso di studi iniziò a pensare di poter fare ricerca inseno alla cattedra di fisiologia ma non riuscì ad entrare. Triste per la delusione, aveva perso il focus del suo percorso quando, su consiglio di un amico, decise di andare ad ascoltare una conferenza tenuta alla Facoltà di Psicologia da José Bleger. Ne rimase molto colpito e pensò che la psicoanalisi era ciò di cui volesse occuparsi nella vita. Si informò, venendo a sapere che il maestro di Bleger era Pichon-Rivière. Decise di iniziare a studiare con lui. Continuando il percorso in Medicina, all’inizio degli anni ’60 decise di entrare a far parte di un gruppo di studio su Freud coordinato da Armando Bauleo e si iscrisse alla scuola fondata da Pichon. Successivamente, approfondì e praticò la psicoanalisi kleiniana, allora predominante in Argentina, ma poi, annoiato, aderì al pensiero e alla psicoanalisi lacaniana, fino a fondare la Scuola Freudiana di Buenos Aires (https://www.acheronta.org/reportajes/vegh.htm).
 
Rispetto alla parte del suo percorso condiviso con Pichon-Rivière racconta:
“Ricordo un aneddoto: una volta andò a Tucumán, lì teneva dei gruppi di studio, e un suo discepolo, che lo accolse all'aeroporto, gli disse: ‘Dottore, non sa che pasticcio è iniziato! Due gruppi si sono divisi! E hanno iniziato a litigare... Come posso farle capire la gravità della situazione? Guardi: è come se lei fosse il River e io fossi il Boca’. Allora Pichon gli disse: ‘Prima di tutto mettiamo le cose in chiaro: tu sarai il River, io sarò il Boca’. Questa è un'interpretazione, perché è un modo di dire, senza dirlo realmente: togliamogli la serietà e diamogli un tono un po' giocoso. Quello è stato un momento molto importante nella mia vita. Pichon amava molto il calcio e scrisse diversi lavori sulla psicologia del calcio; fu influenzato da qualcuno che ammirava, George Mead, lo psicologo americano che lavorò, in psicologia sociale, su argomenti che anche Pichon affrontò, credo nel tentativo di scrollarsi di dosso un certo istintivismo naturalistico kleiniano.
Aveva dei richiami, delle questioni che avevano a che fare con il calcio e che mi hanno portato a dire, parlando di lui, che era uno psicoanalista ‘barrero’. Cosa significa ‘barrero’? Potremmo dividere i giocatori di calcio in due gruppi: quelli che giocano solo quando il campo è buono, cioè quando non c'è fango, e i calciatori che giocano quando il campo è in qualsiasi condizione. Ci ha insegnato a giocare con il campo in qualsiasi condizione, a non tirarci indietro di fronte alla scena del gioco. Questi sono i tratti di Pichon che apprezzo e che in qualche modo continuano a operare in me. La mia interpretazione è che Pichon abbia cercato nella psicologia sociale americana una via d'uscita per un incontro nel vincolo con l'altro, che l'istintivismo kleiniano evitava” (http://www.elsigma.com/entrevistas/entrevista-a-isidoro-vegh/1496).

Un altro aneddoto piuttosto sorprendente su Pichon-Rivière lo racconta Juan David Nasio, psicoanalista e saggista, autore di molti libri di psicoanalisi tradotti in 13 lingue. Nasio, nato a Rosario, in Argentina, si avvicina alla psicoanalisi attraverso la frequentazione di Mauricio Goldenberg, José Bleger e Enrique Pichon-Rivière. Dal 1969 vive a Parigi, dove si recò per studiare con Jacques Lacan. E a Parigi, effettivamente, collaborò con Lacan che, per circa 6 anni, fu anche il suo supervisore. Su invito dello stesso Lacan, Nasio ebbe l’opportunità di partecipare al suo Seminario. Nasio dice di ricordare con affetto quei professionisti che ebbero così tanta influenza nella sua vita. Tra le altre cose, accenna anche ai diversi tratti caratterizzanti le personalità di coloro che considera suoi maestri. Su Lacan dice che non era molto duttile nel dialogo con i pazienti e non aveva grande finezza nella relazione con i pazienti, però era straordinario successivamente, quando si trattava di commentare il “caso”, allora era illuminante: “… nel dialogo con il paziente Goldbenberg lo superava tre volte, molto di più. Ciò che più era straordinario di Lacan eran o i suoi seminari, i suoi libri, la sua teoria, la sua elaborazione. Ma nel contatto con il paziente, il dialogo, l’ascolto, l’abilità clinica, la duttilità… bisogna essere molto duttili soprattutto con uno psicotico, bisogna saper parlare con lo psicotico e poter, in poco tempo, estrarre da lui ciò che c’è di più intimo” (http://www.elsigma.com/entrevistas/entrevista-a-juan-david-nasio/1410).
Su Lacan, dal quale rimase letteralmente folgorato, dice anche che voleva dirigere tutto, tanto che, avendo modo di collaborarci e spesso andando a mangiare insieme, aggiunge: “… io dovevo mangiare quello che diceva lui”. Fu questo il Lacan che lui conobbe. O meglio, che lui visse: un Lacan forse distaccato, freddo, ma certamente geniale. “Non era come Pichon, non richiamava affetto. Pichon, Bleger o Goldenberg erano maestri amati”.
Chiaramente, la relazione tra due persone è sempre qualcosa di specifico, rappresentativo dell’incrocio tra quelle due particolari soggettività. Tanto che, per esempio, in un’intervista rilasciata da Pichon-Rivière alla rivista “Attualità Psicologica”, nel dicembre 1975, nella quale gli viene chiesto di parlare della sua relazione con Lacan (si erano conosciuti personalmente al “Congresso di Psicoanalisi in lingua francese” che si era svolto a Parigi nel 1951), Pichon-Rivière definisce lo psicoanalista francese in questi termini: “Lacan è un tipo simpaticissimo, affettuoso, comunicativo, che sa molto bene di che cosa parla e fin dove può arrivare con il suo interlocutore…”; e poi: “Un uomo sensibile, sottile, raffinato, generoso…”.
 
Ma ecco l’aneddoto che riguarda uno dei suoi incontri di supervisione con Pichon-Rivière: “Pichon mi riceveva sempre di notte. In quel momento mi stavo dedicando all’analisi delle coppie e andai a vederlo per questo tema. Doveva essere nell’anno 1968 perché lui mi fece una lettera di raccomandazione per Lacan. Un giorno gli dissi: “Bene, oggi voglio parlarle della coppia di Ricardo e di Inés. Quindi iniziai a leggere quello che avevo scritto sul caso, alzai la testa e vidi che Pichon stava dormendo. Allora feci silenzio. Lui alza la testa e mi dice: ‘Quella Inés ha avuto un problema con un aborto. Domandale dell’aborto’. Pensai che se lo stesse inventando e termino la sessione non molto contento. Ma, effettivamente, dopo ho avuto modo di verificare che Inés aveva avuto un aborto quando era molto giovane e che questo era stato decisivo, per lei, nel modo di amare l’uomo, perché l’aborto le generò una crisi molto grave. La menzione di quel fatto produsse un’illuminazione nel lavoro con la coppia. Da dove Pichon tirò fuori che quella donna avesse avuto un problema con un aborto ancora oggi non lo so. Questo era Pichon. Quando gli dissi che avrei voluto andare in Francia per studiare con Lacan, mi disse che lo conosceva e che mi avrebbe fatto una lettera. Così fu. Ho la copia di quella meravigliosa lettera in cui parla di me in modo troppo elogiativo per il ragazzo che ero. Io avevo 26 anni e quella era una follia di fiducia. Ho avuto una sorte eccezionale. Esco da Pichon, vado in Francia e mi relaziono con Lacan”. (https://www.tiempoar.com.ar/nota/juan-nasio-el-psicoanalisis-esta-para-aliviar-el-sufrimiento-nocivo).

L’ultimo aneddoto che riporto lo prendo da un’intervista fatta a Raimundo Salgado, fondatore e direttore della libreria Letra Viva nel 1967, che racconta di una situazione in cui, in una certa misura, è coinvolto ancora Lacan. Nello specifico, l’aneddoto riguarda il rapporto tra Pichon-Rivière e Oscar Masotta, eclettico scrittore che ha tradotto alcuni testi di Lacan in castigliano introducendo la sua psicoanalisi in Argentina.
 
“Si scopre che agli inizi del Masottismo – in quel periodo mi aveva presentato a Masotta, Isidoro Vegh – mi venne l’idea di pubblicare La lettera rubata – il racconto – e lo regalai ai clienti. Poi il racconto arrivò nelle mani di Masotta e accadde che mandò tutti i suoi amici a Letra Viva a comprare dei libri, e io diedi loro La lettera rubata. Con Masotta ebbe inizio così, il rapporto avvenne attraverso La lettera rubata. Pichon-Rivière veniva sempre in libreria. Parlavamo molto con Pichon. Quando arrivava – poverino, era già malato – prendeva un libro e lo portava via in una borsa. Poi mi chiamava per telefono la segretaria di Pichon [chissà, forse era ancora Janine Puget?] e mi diceva: ‘Ho visto che ha preso dei libri dalla sua libreria. Quanto le deve Pichon-Rivière?’ Io le dicevo quanto e lei mi pagava. Ma lui li prendeva direttamente e non mi è mai venuto in mente di far pagare i libri a Pichon. Bene, vedrai. Parlando, un giorno gli dico: ‘Mi dica, sa chi è Lacan?’; ‘Ehi, come potrei non saperlo?’, dice, ‘ma certo, so chi è Lacan’. Ha continuato a parlare e mi ha detto che aveva una lettera di Lacan. Dice: ‘Lacan mi ha scritto una lettera e la conservo nello studio. Ho la lettera’. ‘Oh’, dissi, ‘perché non me lo porta? Voglio vederla’. ‘Quella lettera è per lei’, mi disse, ‘Ve la regalerò, ve la porterò, ve la darò’. Fenomenale, fantastico. Venne il giorno dopo e gli dissi: ‘Pichon si è ricordato della lettera di Lacan?’. ‘No, ma la cercherò per lei’. Beh, fenomenale. Tornò di nuovo e gli dissi: ‘Pichon mi ha portato la lettera?’. E lui dice: ‘Sa, non riesco a trovarla. Ce l'avevo sulla mia scrivania e non riesco a trovarla’. ‘Che pasticcio. La cerchi bene’. Pichon è morto. Il tempo passa e un giorno Jorge Jinkis viene in libreria e mi dice: ‘Ehi, Ray, sai una cosa? Masotta aveva una lettera che Lacan scrisse a Pichon-Rivière’. Era la mia lettera! Masotta l’aveva fregata a Pichon. Sapete che Pichon-Rivière ha prestato a Masotta il suo spazio per insegnare. Deve essere successo che lui lì ha visto la lettera e l'ha presa... Quella era ‘la lettera rubata’. Stavo per dirti che Pichon Rivière era piuttosto... non so, aveva i suoi strani modi, perché mi disse: ‘Non ho mai letto Lautréamont. Non ho letto Lautréamont, mai’. Gli chiedo: ‘Perché Pichon?’. E lui dice: ‘È perché devo tutti i miei guadagni a Lautréamont’ (http://www.elsigma.com/historia-viva/conversaciones-entre-silvia-fendrik-y-raimundo-salgado-en-torno-a-las-historias-del-psicoanalisis/12850).




31/05/2025

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