TRADOTTI
QUESTIONI METODOLOGICHE DELLA PSICOANALISI
di Josè Bleger
La psicoanalisi riunisce una tripla condizione: procedura terapeutica, metodo di ricerca e teoria o insieme di teorie. Ne aggiungo una quarta: costituisce una sfida alla metodologia delle scienze della natura.
Ciò che è più frequente è un atteggiamento corrisposto: una predominante indifferenza degli psicoanalisti alla metodologia è parallela e compensata con un’indifferenza degli “scienziati” e dei metodologi alla psiconalisi. Questa modalità di “relazione” alterna alcune episodiche e reciproche “scariche” di rifiuti, disprezzi e giudizi lapidari. Ma non sono mancati, certamente, tentativi di incursioni reciproche.
Un altro “fronte” è quello degli scienziati delle scienze della natura nei quali si osserva una specie di superiorità e, a volte, indulgenza, per le scienze dell’uomo e per la psicoanalisi, come quella dei fratelli maggiori o dei genitori che aspettano che i minori crescano. Ma i loro “indicatori” di crescita corrispondono a quelli da essi adottati nei loro campi specifici, e le loro aspettative di “crescita” sono quelle per cui la psicoanalisi soddisfi le esigenze metodologiche che essi sostengono come le uniche valide. Una certa percentuale di psicoanalisti ha lo stesso atteggiamento e comprensione del problema e anela, aspira e sospira all’ideale di arrivare ad essere una “scienza esatta”, con verifiche, controlli e oggettivazioni così come quelli utilizzati nelle scienze della natura. Un’altra parte degli psicoanalisti si raggruppa nell’atteggiamento di “incompresi”, di superbia e di isolamento di fronte alle scienze della natura. Rispondono “a specchio” ad un atteggiamento equivalente da parte degli scienziati “veri”.
Questi psicoanalisti non vogliono nessuna connessione e tendono ad autobastarsi, rifiutando le esigenze e la necessità di un’epistemologia; bastano loro le “evidenze” e le intuizioni della loro scienza e della loro tecnica, tanto particolari e specifiche che, suppongono, nessuno è nelle condizioni di intenderle e sostengono che è meglio mantenere i ponti tagliati. E così fanno. Altri psicoanalisti (come me) vedono il problema molto più complicato e non lineare e né unilaterale; la psicoanalisi ancora non ha sviluppato epistemologicamente i procedimenti che utilizza, e questo per due motivi: uno, perché la stessa psicoanalisi non li ha ancora cercati o trovati, e l’altro, perché la verifica, l’esattezza e l’oggettività nelle scienze della natura si è raggiunta amputando il contesto ed il carattere dei fenomeni e della loro ricerca e, pertanto, sono metodi valdi per contesti scorretti o limitati, creati ad-hoc.
La psicoanalisi presenta un nuovo oggetto di studio, o presenta l’oggetto di studio della psicologia in un'altra maniera, con un metodo o una procedura anche nuovi. Questa nuova procedura o metodo della psicoanalisi ha uno dei suoi pilastri nella comprensione e l’altro nell’interpretazione come strumento per veicolare o usare in modo adeguato tale comprensione. Ed ecco che il metodo delle scienze esatte o delle scienze della natura può sottoporre tutto alla verifica e all’oggettivazione, con la sola eccezione di un elemento: l’unico che non può sottoporre a controllo, verifica ed oggettivazione è il momento della procedura di comprensione dei dati e dei risultati della ricerca.
Questa coincidenza non è una coincidenza. Se i procedimenti di verifica e di controllo delle scienze della natura non possono essere utilizzati in psicoanalisi, questo non avviene per un deficit della psicoanalisi o degli psicoanalisti, ma per un deficit del metodo scientifico delle scienze della natura. Queste ultime hanno raggiunto la loro esattezza, verifica ed oggettivazione restringendo il loro campo a quello che soddisfa le necessità o le esigenze del loro metodo e viceversa: il metodo ha ristretto gli oggetti ai quali si applica o, meglio detto, ha “costruito” i suoi oggetti in accordo con il metodo. Non si tratta, quindi, del fatto che le scienze dell’uomo non “entrino” nel metodo scientifico.
Si tratta del fatto che quest’ultimo non “entra” nelle scienze dell’uomo. E per una ragione fondamentale: la sua validità è stata raggiunta amputando o eliminando l’essere umano nei due estremi: nell’intervento umano negli oggetti che vengono studiati e nell’intervento dell’osservatore o ricercatore, scotomizzando la condizione umana di quest’ultimo così come quella della consocenza stessa. Le scienze della natura astraggono (isolano) oggetti dal contesto umano reale e, inoltre, in quest’ultimo escludono il ricercatore. Oggettività e razionalità significano, quindi, soppressione degli esseri umani e soppressione del senso e del contesto sociale e psicologico di ogni dato e di ogni ricerca. La disumanizzazione della scienza (esatta) e della tecnologia non è una novità. Ma, generalmente, si insiste su quest’ultimo punto soltanto nell’utilizzo sociale della conoscenza e della tecnica, mentre viene occultato questo stesso fenomeno come procedura nel seno stesso della metodologia utilizzata. Pertanto, la psicoanalisi è anche una sfida alla metodologia. E la metodologia delle scienze della natura non può dire nulla e né aiutare in nulla la psicoanalisi nella sua procedura-asse (la comprensione) perché nemmeno lo ha risolto per se stessa e lo ha persino scotomizzato come problema.
Piuttosto, nel problema della comprensione (chiamato generalmente “momento soggettivo” o “irrazionale”) è possibile che la psicoanalisi possa aiutare la metodologia delle scienze della natura a recuperare dalla disumanizzazione dei suoi oggetti di studio, dalla disumanizzazione della sua ricerca e nei suoi risultati. Ho anche detto che la psicoanalisi presenta un nuovo oggetto di studio o presenta l’oggetto di studio della psicologia in altro modo. E si rende necessario che mi soffermi su questo punto. La psicoanalisi iniziò ricercando ciò che accade nel paziente (“dentro” di lui), ma l’introduzione del transfert ha condotto impercettibilmente ad un cambiamento fondamentale: alla ricerca di ciò che accade durante la sessione analitica in quanto relazione interpersonale. A questo si è aggiunto lo studio di ciò che accade nello psicoanalista (controtransfert, contro-identificazione). Così, possiamo dire che la psicoanalisi si concentra sulla relazione interpersonale e, sulla base di questa relazione, si concentra anche sul paziente e sull’analista.
E questo non è solo un’innovazione metodologica; esige un’innovazione epistemologica che si rende necessaria (e si è iniziato) anche nelle scienze della natura; non si tratta di studiare “cose” che, per astrazione (nel senso di “astrarre” o portare fuori dal contesto), risultano enti disumanizzati, ma sempre la relazione dell’uomo con le cose. La conoscenza stessa, già, non può essere oggettiva poiché incorpora l’essere umano (nella ricerca e nella vita attuale). La relazione interpersonale in psicoanalisi è un dialogo che include la totalità di ambo i partecipanti (inclusi i loro corpi). È un dialogo di una struttura particolare e non un dialogo qualsiasi. Spesso mi domando se in tale dialogo ha qualche senso pretendere una verifica o un controllo. Questo è un problema in sospeso (perlomeno per me).
La complessità del metodo, così come l’innovazione in termini di oggetto di studio, rende necessario non soltanto avere estrema cautela nell’impiego dei procedimenti “consacrati” nella ricerca della scienza della natura ma anche una riformulazione dell’epistemologia. Questo in alcun modo significa invalidare tutto ciò che è stato raggiunto dalle scienze della natura ma, in funzione di ciò che è stato raggiunto, si tratta di un riaggiustamento dell’epistemologia, che prenda fondamentalmente in considerazione che non ci sono fatti “nudi” e che l’oggettivazione è alienata se esclude l’essere umano; è necessario riformulare l’oggettività e la soggettività, la razionalità e l’irrazionalità, che si rivelano pseudoproblemi se li si presenta come è stato fatto fino ad ora.
Ho voluto, fin qui, stabilire tre premesse: a) la psicoanalisi ha un serio deficit in termini di accuratezza dei suoi “dati” e in termini di fondatezza, di verifica, di oggettivazione e di controllo delle sue interpretazioni, delle ipotesi, delle teorie e dei risultati terapeutici; b) la metodologia delle scienze della natura ha un serio deficit, grazie a cui ha raggiunto esattezza, verifica, controllo e oggettivazione; c) l’incrocio si verifica nel fatto che la psicoanalisi utilizza precisamente ciò che le scienze della natura non hanno risolto per se stesse e affronta proprio ciò che le scienze della natura hanno amputato come condizione imprescindibile per raggiungere il proprio sviluppo. E due conclusioni: a) la psicoanalisi non può aspettarsi dal metodo delle scienze della natura nessuna soluzione basilare o aiuto sostanziale ai suoi problemi, e b) il metodo delle scienze esatte può aspettarsi dalla psicoanalisi che questa lo aiuti ad uscire dalla sua ristrettezza e dall’amputazione presente: dalla sua astrazione e disumanizzazione.
Il problema è ancora più complicato in vari sensi. Vediamone uno: Freud sviluppò la comprensione dei fenomeni psicologici normali e patologici; in questo senso la psicoanalisi si iscrive come un’ermeneutica, uno studio dei significati. Ma, parallelamente, sviluppò una metapsicologia che continua i lineamenti delle costruzioni “oggettiviste” delle scienze della natura, ricorrendo a enti e schemi esplicativi e causali. Quest’ultima cosa è conseguenza del desiderio e della necessità di Freud di sviluppare la psicologia come una scienza della natura. È proprio qui che non risiede il suo apporto fondamentale e quest’ultimo sarebbe stato ridotto più o meno ai tentativi di – per esempio – Herbart, se non avesse sviluppato una psicologia completa e un metodo adeguato a tale fine. Quest’ultimo fatto è, secondo me, ciò che è fondamentale e rivoluzionario dell’apporto freudiano.
E su questo aspetto la metodologia delle scienze della natura non può dire assolutamente nulla, salvo rivelare e prendere coscienza del suo proprio deficit, dei suoi propri limiti e amputazioni. In questo senso, il problema che deve affrontare la metodologia delle scienze della natura non può consistere in un mero aggregato di “qualcosa” che non ha preso in considerazione, ma probabilmente in una riconsiderazione radicale dei suoi propri fondamenti. E ciò che Freud ha incorporato come metapsicologia, seguendo le prescrizioni delle scienze della natura, è proprio la parte meno valida e importante: significa un compromesso di Freud e degli psicoanalisti che lo seguono in questo. Non c’è nulla, nella metodologia delle scienze esatte, che ci dia modelli o percorsi per comprendere, per pensare, per creare: in una parola, per ricercare (scoprire). Questo continua ad accadere per caso. Una gran quantità di ricercatori non ricercano: hanno solo appreso e applicato i procedimenti della raccolta dei dati, della classificazione delle osservazioni e quelli della verifica. Probabilmente l’unica procedura che insegna, in una certa misura, a comprendere, pensare e scoprire (e non a tutti) è la psicoanalisi; e ci riesce anche nei non psicoanalisti che passano attraverso un’esperienza personale psicoanalitica (e non in tutti).
In questo senso, sono interessanti e importanti, nella psicoanalisi del ricercatore, i problemi legati alla ricerca; ad esempio, ciò che Bachelard ha chiamato “ostacoli epistemologici”, la sublimazione o riparazione, le resistenze e le difficoltà per pensare o pianificare una ricerca, ecc. In sintesi, dato che in psicoanalisi lo “strumento” basilare della ricerca è la personalità del ricercatore, si è strutturata una conoscenza psicoanalitica della ricerca che risulta vantaggiosa anche per comprendere la ricerca e il ricercatore di qualsiasi campo scientifico. Come si può facilmente dedurre, questo non risulta un mero “aggregato”; può arrivare a costituire il “fermento” di un’innovazione epistemologica.
La metodologia delle scienze della natura risulta efficace solo nella verifica, ma non può dire nulla sulla scoperta. E questo non è casuale: lascia a lato e addirittura nega ciò che la psicoanalisi coglie come fondamentale. Non sarebbe esagerato dire che nelle scienze della natura, la scoperta viene raggiunta quando il ricercatore si allontana dalle esigenze della sua metodologia. Ho preteso finora di presentare alcune questioni basilari che non vengono generalmente prese in considerazione, cercando di tirare fuori le argomentazioni e le discussioni metodologiche dalle semplificazioni che vengono postulate in vario modo: cerco di chiarire pseudoproblemi, mettendo anche in chiaro che nei rapporti tra metodologia e psicoanalisi ci sono questioni non risolte in entrambe. E non lo faccio per il semplice fatto di contestare con accuse le accuse. Tutto il contrario: desidero una riflessione di carattere positivo o fertile, mostrando che queste reciproche inadeguatezze hanno nel proprio seno una profonda relazione che risponde, quest’ultima, proprio alla struttura e al senso del metodo della psicoanalisi e di quello delle scienze della natura.
Le inadeguatezze metodologiche della psicoanalisi in termini di verifica, di controllo e di oggettivazione, non la invalidano come metodo scientifico di scoperta in quanto il suo pilastro fondamentale risiede nella comprensione. I limiti del metodo delle scienze della natura non lo invalidano neppure rispetto a tutto ciò che ha raggiunto fino ad oggi; ma gli impediscono di chiudere strade della ricerca o di pretendere di decidere sui nostri errori o sulle nostre verità. La metodologia non è un corpo finito che è nelle condizioni di prescrivere o scartare; ha, in una certa misura, uno sviluppo proprio, ma dipende anche dagli apporti dei diversi campi scientifici e dalle procedure utilizzate per questi ultimi. Non deve essere dimenticato che la metodologia è una sistematizzazione delle procedure della ricerca, ma che – a rigore –non si ricerca (si scopre) mai con le sue formulazioni; queste ultime possono introdurre coerenza e discriminazione nei passi che segue il ricercatore.
La metodologia e l’epistemologia studiano ciò che i ricercatori fanno o dicono nel loro lavoro di ricerca: come lo fanno e perché. Ma tali obiettivi tacciono proprio nel punto nodale che la psicoanalisi riprende. Ma questo “tacere” su questo aspetto, da parte della metodologia delle scienze della natura, è uno dei fondamenti su cui si è costituita. Se cessa di tacere su questo aspetto deve procedere ad una rimozione delle sue costruzioni. Ed il metodo psicoanalitico cessa di tacere proprio su questo punto e si ritrova con problemi totalmente nuovi. Torniamo qui all’affermazione precedente, della necessità di ripensare problemi tali come quelli della soggettività versus l’oggettività e la razionalità versus l’irrazionalità.
Nel primo, l’oggettività viene raggiunta amputando il soggetto e non si ottiene che un’illusione di oggettività. Ma includere gli esseri umani nell’oggettività non è equivalente alla conoscenza soggettiva. Qualcosa di simile accade con la coppia razionale versus irrazionale: vengono confuse cose molto diverse, con un’amputazione della razionalità (ciò che è, senza esitare, un’amputazione molto seria). Così, lo studio dei cosiddetti “fenomeni irrazionali” non significa che il metodo o la conoscenza siano irrazionali. D’altra parte, se viene utilizzata l’empatia, l’insight, l’identificazione, questo di per sé non è irrazionale. Lo è se si usa solo questo. Ciò che non accade nella ricerca psicoanalitica.
Come controparte dirò che la razionalità (pura ragione) nella ricerca nelle scienze della natura è semplicemente irrazionale, se si usa solo questa. E qui sì, si pretende di aver usato solo questa e lo si espone come obiettivo o merito. Ma i ricercatori non usano solo questa (non potrebbero ricercare), ma hanno acconsentito a riconoscere come peccato la non ragione. A rigore, il ragionamento è irrazionale in quanto è una caricatura del pensare e in quanto si presenta come “pura ragione”. La razionalità (della “pura ragione”) è ciò che gli psicoanalisti chiamano razionalizzazione; costituisce il più puro esponente del formalismo. È curioso (non così curioso, guardando con crudezza le distorsioni) che gli psichiatri francesi “marxisti” e difensori della dialettica denominarono anni fa la loro rivista La Raison (ndt: La Ragione).
Questa razionalità (dell’Illuminismo) che utilizzano è ragionamento o razionalizzazione e non dialettica. Il pensiero scientifico è sempre dialettico e, pertanto, anche totale e umano. Gli scienziati si riferiscono alla religione e non alla scienza quando oppongono razionalità e irrazionalità. Non c’è bisogno di opporli: il problema non esiste. L’“orrore” alla comprensione e all’intuizione è - in ultima istanza - l’altra faccia di una falsa e vergognosa esaltazione delle “virtù” razionaliste della borghesia e della pretesa “razionalità” della sua struttura sociale. Capitolo che appartiene alla sociologia della conoscenza. Così, a mio parere, vengono poste le relazioni generali tra psicoanalisi, metodologia e scienze della natura, affermando la necessità che la psicoanalisi segua il suo sviluppo e la sua evoluzione con indipendenza, senza lasciarsi trascinare né pressare dalle procedure utilizzate nelle scienze della natura; ma gli psicoanalisti devono dedicarsi molto di più agli aspetti metodologici specifici della nostra disciplina, cercando di risolvere i problemi all’interno del contesto del nostro proprio metodo e in accordo con le caratteristiche peculiari dell’oggetto di studio e del tipo di conoscenza che viene apportata.
Tuttavia, quest’ultima affermazione non esclude la necessità di analisi che prendano contatto con altri campi scientifici e tecniche o metodi di ricerca. Così, non possiamo in alcun modo sovrapporre la natura della sessione psicoanalitica con il metodo sperimentale, ma non c’è nessun inconveniente nello studiare un protocollo di una sessione psicoanalitica “come se” fosse una procedura sperimentale con le categorie che utilizza quest’ultimo. Allo stesso modo, non esiste un impedimento per cui si operi allo stesso modo con, per esempio, la teoria della Gestalt, la topologia o l’operazionismo, o per cui vengano comparati i propri risultati e procedure con i dati delle altre scienze o metodi.
Un campo che non è psicoanalitico ma che richiede di essere ancora più sviluppato è quello della riproduzione – negli animali – di condizioni o situazioni che permettano di verificare o controllare certe affermazioni o scoperte della psicoanalisi: produzione di nevrosi sperimentali, esperimenti di deprivazione affettiva, ecc. Allo stesso modo, non manca di interesse comparare scoperte psicoanalitiche con le scoperte di altri campi, tali come, per esempio, la riflessologia, l’etologia, la psicologia sociale o la biologia comparata. I disaccordi non invalidano le affermazioni di nessuna delle procedure, ma gli accordi possono orientare ed aprire nuove possibilità, ricordando sempre che non dobbiamo subordinare il metodo psicoanalitico, il suo oggetto ed i suoi risultati, a nessun’altra disciplina. Queste comparazioni hanno solo il valore di essere tali.
Allo stesso modo, non mancano di interesse le analisi o gli studi che vengono realizzati su protoccolli psicoanalitici applicando, per esempio, la teoria dell’informazione o il metodo statistico o la correlazione di variabili, ecc. La natura degli strumenti ausiliari che possiamo mettere in gioco nello studio di ipotesi, teorie e presupposti psicoanalitici non ha nulla a che vedere con un impegno nel sostenere che la natura della psicoanalisi sia la stessa di questi strumenti ausiliari a cui si può far ricorso. Il limite risiede precisamente in quello: che nessuna procedura ausiliare arrivi a compromettere l’indipendenza del metodo psicoanalitico nelle sue proprie procedure, nelle sue proprie regole tecniche, nelle sue ipotesi, teorie, ecc. Questo non significa affermare la validità di tutte le nostre ipotesi e teorie e nemmeno rifiutare la necessità di grandi innovazioni.
Vediamo ora più da vicino qualcosa sulla ricerca psicoanalitica: questa viene esercitata in due contesti, ai quali ne aggiungo un terzo. Il primo è tradizionale e viene denominato psicoanalisi clinica; anche il secondo è stato introdotto da Freud con il nome di psicoanalisi applicata, e il terzo è quello che denomino psicoanalisi operativa. Non svilupperò le caratteristiche di ciascuno di essi ma, in modo molto sintetico, le loro peculiarità metodologiche. Per quanto riguarda la psicoanalisi clinica, le opinioni sono divise: ci sono coloro che la presentano come un’osservazione in condizioni controllate; altri la considerano una procedura quasi-sperimentale; altri enfatizzano l’originalità di una relazione interpersonale regolata. È necessario separare con chiarezza, nel metodo, il controllo della sua efficacia terapeutica dalla verifica delle sue ipotesi e teorie; ugualmente, quando parliamo di verifica dell’interpretazione, si rende necessario che chiariamo se ci riferiamo all’efficacia o alla validità della comprensione raggiunta. Non si avanza in nulla se non si discrimina in ogni momento ciò di cui si parla.
La denominazione “psicoanalisi applicata” è ingannevole giacché, a volte, viene letteralmente applicata la psicoanalisi (anche nella psicoanalisi clinica), mentre in altre occasioni si tratta, effettivamente, di una ricerca (il caso Schreber, Gradiva, ecc.). La psicoanalisi di un romanzo, un film, un’opera d’arte, un “diario” o delle “memorie”, ha il vantaggio di una maggior distanza per cui il ricercatore non si trova emotivamente tanto coinvolto come nel caso della psicoanalisi clinica, ma le deduzioni sono più congetturali. In ogni modo, nel ricorrere ad entrambe le procedure vengono potenziate le sue possibilità e questo è ciò che è accaduto nella pratica. A questo si aggiunge una variante mista che è l’esame o la ricerca a posteriori di sessioni psicoanalitiche ricostruite o registrate.
Ma una confusione deve essere chiarita: nella psicoanalisi clinica non si “applica” (o non si deve “applicare”) la psicoanalisi. La si utilizza. L’“applicare” la psicoanalisi nella psicoanalisi clinica è, precisamente, una delle cause dell’impoverimento della ricerca: si cerca ciò che si conosce nella maniera in cui lo si conosce, e non si tratta di trovare ciò che non si conosce. Questo si rapporta evidentemente con l’organizzazione “di successo” del professionalismo psicoanalitico, al posto della formazione di ricercatori.
Nella psicoanalisi operativa viene utilizzata la conoscenza psicoanalitica nelle situazioni gruppali, istituzionali o comunitarie ed ha il vantaggio, sulla psicoanalisi applicata, di poter utilizzare la comprensione osservando i suoi effetti. Metodologicamente si trova meno regolata e, per questo motivo, risulta più complicata della psicoanalisi clinica, ma con essa vengono ampliati i campi di ricerca e di utilizzo della psicoanalisi. In questo senso, è utile chiarire che non esistono “fenomeni psicoanalitici”; in ogni evento intervengono esseri umani e, pertanto, può essere utilizzata la psicoanalisi. La psicoanalisi operativa esige sempre un lavoro di campo ed è per quest’ultima esigenza che la si deve anche differenziare dalla speculazione basata su conoscenze o teorie psicoanalitiche che costituiscono - queste ultime - una variante della psicoanalisi applicata (speculazione psicoanalitica su accadimenti storici, fenomeni come la guerra, ecc.).
Come ho già segnalato, Freud introdusse la psicoanalisi clinica e applicata, ma realizzò ampie escursioni speculative in motli campi; in alcuni di essi apportò conoscenze molto valide (“Totem e tabù” o “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”). Credo legittimo ricercare con le conoscenze psicoanalitiche in lavori di campo in sociologia, psicologia sociale o antropologia. Ma in tutti questi casi, vengono utilizzate le conoscenze psicoanalitiche per comprendere o per ricercare, ma non viene utilizzato il metodo psicoanalitico. Quest’ultimo è esclusivo soltanto della psicoanalisi clinica e qui, in quanto tale, è soltanto inteso in questo senso. L’estensione alla psicoanalisi operativa risulta legittima unicamente con questa importante condizione.
In una prospettiva generale, possiamo dire che in psicoanalisi ci confrontiamo, attualmente, con povertà di idee e di creatività, con mancanza di audacia e poco spirito di permanente autocritica, di dubbio e di rettificazione. Applicare la psicoanalisi nel campo della psicoanalisi clinica è soltanto applicarla. Ma non utilizzarla. Questo si rapporta con un problema sollevato da me ripetutamente: l’istituzionalizzazione della psicoanalisi porta ad un consolidamento del professionalismo, ad una difesa di una “dottrina” più che alla formazione di ricercatori. È che ogni ricerca implica la negazione come forma di superamento.
Per la psicoanalisi è anche corretto ciò che Marx disse della filosofia: la sua realizzazione porta alla sua scomparsa. Un altro tranello risiede nel porre l’enfasi della psicoanalisi sul suo carattere di terapia; sulla sua efficacia per curare e non sulla sua efficacia per ricercare. Freud non commise questo errore: in “Analisi terminabile e interminabile” non pone l’enfasi sull’efficacia terapeutica bensì sulla ricerca. Glover segnala lucidamente questo indebolimento della psicoanalisi, con la tendenza alla stereotipia, al riferirsi al fatto che nella nostra disciplina esiste anche un “nuovo pantheon” di concetti teorici. Allude, fondamentalmente, al fatto che i concetti di valore operativo o strumentale risultano cosificati e trasformati in entità o entelechie (pulsioni, es, io, super.io, repressione, ecc.). Il dogmatismo ha posto dovunque e a tutti i gradi.
Un problema fondamentale della psicoanalisi clinica si presenta rispetto al carattere dei suoi dati; che cos’è che viene osservato, dato che ciò che è “osservabile” non è letteralmente ciò che viene visto o ascoltato ma anche ciò che viene sentito (tanto dal paziente come dallo psicoanalista). Lo psicoanalista lavora con significati o sensi, che deduce dagli osservabili [ndt: da ciò che può osservare] e dalle proprie esperienze. Qui è necessario che gli psicoanalisti dedichino più attenzione a ciò che viene interpretato, a ciò che viene compreso e alle “operazioni” che hanno luogo quando si comprende. Non tutto ciò che si comprende è interpretato, e molte volte ciò che si interpreta (ciò che si dice) non sono sognificati. D’altra parte, dobbiamo separare due problemi: quello degli effetti dell’interpretazione (efficacia), da quello della sua validità. I processi con cui si arriva a comprendere i significati sono anche molto vari e sarebbe utile stabilire una “tipologia” delle interpretazioni, riconoscendo le differenze tra – per esempio – l’utilizzo di analogie, allusioni, metafore, indizi, simboli, ecc. Loewenstein segnala che Bernfeld differenziò l’interpretazione come strumento terapeutico dall’interpretazione come strumento conoscitivo. Bernfeld, citato da Schmidt, segnalò cinque modi di interpretare: a) in accordo con l’intenzione; b) in accordo con la funzione; c) come indicatore di diagnosi; d) per traslazione simbolica; e) collocando l’elemento nella totalità dell’esperienza vitale del paziente. Sono riconosciute anche l’interpretazione della difesa, l’interpretazione degli impulsi, ecc.
Tutto questo è ancora molto semplice e richiede più interesse da parte nostra. La psicoanalisi deve anche differenziare meglio il significato di motivazione e di causalità; comprensione dell’interpretazione e, in quest’ultima, efficacia di validità. Qui, come sempre, l’approccio dei problemi regola la possibilità ed il carattere delle soluzioni. Il “dato” psicoanalitico è una relazione interpersonale nella quale lo psicoanalista si trova coinvolto e che, a sua volta, configura in una certa misura il carattere dei “dati”. Si potrebbe dire che viene persa l’oggettività. Sostengo che avviene tutto il contrario: viene raggiunta una maggior oggettività in quanto viene inclusa la soggettività. Che con questo non ci allontaniamo dalla pretesa oggettività delle scienze della natura, nelle quali l’oggettività è astratta e pertanto amputata. Ma questo conduce molte volte gli psicoanalisti ad un altro errore: supporre che ciò sia già sufficiente per affermare il carattere scientifico della psicoanalisi. L’esporre un’ipotesi o la comprensione che è stata raggiunta di un paziente non può essere convalidata con la sola comprensione. Quest’ultima deve essere approfondita. Il materiale clinico che utilizziamo nei nostri apporti scientifici non dimostra mai nulla. Esemplifica soltanto e gli stessi psicoanalisti trovano assurde, a volte, e senza fondamento le interpretazioni che pubblicano altri psicoanalisti. A rigore, oggi non esiste la psicoanalisi ma le psicoanalisi, anche se ci limitiamo esclusivamente alla psicoanalisi dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale.
Risulta ovvio che è più facile essere “scientifico” se ci limitiamo a studiare i fenomeni che coincidono con la metodologia accettata come scientifica, ma è anche più scientifico osare con tutto ciò che la metodologia amputa. Se ciò che stabilisce la metodologia risulta violentato, può essere un segnale del fatto che la stessa metodologia deve essere modificata. Se si trattasse solamente di psicoanalisi e metodologia, la questione non sarebbe grave, anche se difficile. Ciò che è più grave è che, insieme ad essa, c’è la relazione (o scarsa relazione) tra psicoanalisti e metodologi. Gli “osservabili” del campo psicoanalitico non sono “puliti” e le nostre definizioni sono difettose. Potrei riferire, per esempio, l’evoluzione del concetto di narcisismo, per trovare un senza fine di “mancanze” metodologiche di ogni tipo. Così, nel concetto di narcisismo, il descrittivo, l’empirico o fattico, l’ipotetico e il teorico molte volte non sono differenziati con chiarezza. Allo stesso modo, per il non addestrato, il transfert non è un dato clinico ma una teoria.
D’altra parte, può risultare il contrario: lo psicoanalista è “abituato” così tanto, per esempio, alle pulsioni di vita e di morte che le utilizza direttamente come descrizioni. “Vede” la pulsione all’opera. E questo conduce a discussioni e problemi strani. La convinzione, l’insight, e anche l’efficacia di una procedura sono importanti ma non sono - di per sé - testimonianze o prove di validazione scientifica. È molto difficile descrivere ciò che accade in una sessione psicoanalitica in termini accurati e logici. La logica della comprensione e la logica della relazione umana, la logica del lavoro psicoanalitico non si conformano alla logica della razionalità (ciò che è stato ammesso fino ad ora come razionalità). Ma qui tocchiamo un problema complesso, che anche la logica (come parte della metodologia) è arrivata a mettere in discussione radicalmente. Ragionare per dimostrare non è la stessa cosa che pensare e comprendere per ricercare. A ciò si aggiunga che, molto spesso, gli scienziati delle scienze della natura conoscono una metodologia semplificata dai libri di testo e sono molto lontani dagli sviluppi e dalle domande della metodologia. Gli scienziati non psicoanalisti: quando ci accettano, lo fanno a causa dei “fatti” che non possono più eludere e non per mezzo della metodologia. I filosofi della scienza, quando ci accettano, ci capiscono di più. Scientificamente, quest’ultimo punto è più valido. Il primo è un proselitismo.
Un altro problema è il doppio orientamento del metodo e della teoria psicoanaliltica e la sua storia risale allo stesso Freud. Ne “Il disagio della civiltà” e in “Costruzioni nell’analisi”, Freud riconobbe chiaramente l’interpretazione dalla ricostruzione. Quest’ultima tenta di ricostruire il passato del paziente e si basa su una direzione che Fred stesso chiamò “archeologica”; è strettamente correlata alla ricerca sull’isteria e al proposito terapeutico di colmare le “lacune mestiche”. La funzione dell’analista consiste - secondo Freud – “nello scoprire o, per essere più esatti costruire ciò che è stato dimenticato, a partire dalle tracce che quest’ultimo ha lasciato dietro di sé”. L’interpretazione “si riferisce a ciò che si intraprende con un singolo elemento del materiale: un’idea improvvisa, un atto mancato e così via. Una ‘costruzione’ si dà invece quando si presenta all’analizzato un brano della sua storia passata e dimenticata. […] La via che parte dalla costruzione dell’analista dovrebbe terminare nel ricordo dell’analizzato”. L’utilizzo sempre più approfondito del transfert come fenomeno e strumento peculiare del metodo psicoanalitico ha procurato problemi tecnici e metodologici specifici che hanno avuto un corso differente. Il transfert è un fenomeno presente ma è anche un frammento di storia. Ma, per esempio, per Rickman, la psicoanalisi è un metodo astorico, dinamico e non un metodo genetico-storico.
Le esigenze metodologiche variano o cambiano di carattere secondo la direzione adottata in tal senso e secondo la teoria che fondamenta tale tecnica. Inoltre, da questa controversia situazionale versus genetico-storico, le questioni che vengono suscitate cambiano se al posto di “colmare lacune mnestiche” o “fare cosciente l’inconscio”, lo psicoanalista fissa come meta l’integrazione delle dissociazioni o la discriminazione. Ciò riguarda niente meno che la concezione della natura del fenomeno psicologico e la concezione di ciò che è la psicoanalisi.
Da qui a un’approccio antropologico non c’è nemmeno un passo: ci si trova in pieno nella concezione dell’uomo. Si rende necessario ricordare, perlomeno, alcuni problemi che, essendo poco trattati, non sono esclusivi della psicoanalisi ma di tutta la conoscenza scientifica. Tra questi si trova il ruolo dei modelli, la sociologia della consocenza, i presupposti precedenti e l’ideologia implicita in ogni costruzione di teorie. In nessun campo scientifico una teoria si riferisce solamente ai dati del proprio campo, e viene dedotta solamente dai fatti verificati. Una teoria coinvolge sempre un’ideologia. Con questa prospettiva devono anche essere messi a fuoco gli aspetti teorici della psicoanalisi, come quelli dell’inconscio, della natura del fenomeno psicologico, della “mente”, del dualismo o monismo corpo-mente, ecc.
L’importante è, ora, ricordare che nessuna teoria in nessun campo scientifico ha una verifica diretta e piena; la sua validità è accettabile per il suo valore euristico, per la sua costruzione ideologica, per la sua coerenza interna e per la sua ampiezza. Le valutazioni ideologiche e politiche supportano alcuni criteri che implicitamente influiscono sulla teoria e sulla tecnica; in psicoanalisi questo risulta evidente nei criteri di salute e malattia, cura, normalità, ecc. Di tutto ciò che si è esposto sorge con evidenza, perlomeno, una conclusione: la psicoanalisi, come tutte le scienze dell’uomo e le scienze della natura, affronta ardui problemi metodologici, molti dei quali sono comuni e molti altri sono specifici. La prospettiva generale non deve “diluire” i problemi specifici della psicoanalisi, ma nemmeno quest’ultima deve farsi carico esclusivamente di ciò che neppure le altre scienze hanno risolto e, a volte, persino sollevato. Questo articolo è integrato ed è stato scritto congiuntamente ad un altro intitolato “Teoria e pratica in psicoanalisi. La prassi psicoanalitica” e che è stato pubblicato sulla Revista Uruguaya de Psicoanálisis (1969).
Di tutto questo ritorno ad un permanente interesse personale per l’epistemologia desidero ripetere la mia convizione della necessità del fatto che gli istituti di psicoanalisi (gli incaricati della formazione di psicoanalisti) devono essere orientati fondamentalmente a formare ricercatori e non meri professionisti. La psicoanalisi non deve essere una professione dell’arte di curare ma un’attività di ricerca: questo è il suo reale potenziale scientifico e la sua possibilità sociale. Pertanto, nel curriculum della formazione degli psicoanalisti, gli istituti di psicoanalisi dovrebbero incorporare lo studio della metodologia, dell’epistemologia, della storia delle scienze e della filosofia della scienza, nonché sforzarsi di esaminare i presupposti di ciascuna fase del metodo psicoanalitico.
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L'articolo, scritto nel 1969, è estratto dal testo Métodos de investigación en psicología y psicopatología, a cura di David Ziziemsky, Buenos Aires, Ediciones Nueva Visión, 1971.
La psicoanalisi riunisce una tripla condizione: procedura terapeutica, metodo di ricerca e teoria o insieme di teorie. Ne aggiungo una quarta: costituisce una sfida alla metodologia delle scienze della natura.
Ciò che è più frequente è un atteggiamento corrisposto: una predominante indifferenza degli psicoanalisti alla metodologia è parallela e compensata con un’indifferenza degli “scienziati” e dei metodologi alla psiconalisi. Questa modalità di “relazione” alterna alcune episodiche e reciproche “scariche” di rifiuti, disprezzi e giudizi lapidari. Ma non sono mancati, certamente, tentativi di incursioni reciproche.
Un altro “fronte” è quello degli scienziati delle scienze della natura nei quali si osserva una specie di superiorità e, a volte, indulgenza, per le scienze dell’uomo e per la psicoanalisi, come quella dei fratelli maggiori o dei genitori che aspettano che i minori crescano. Ma i loro “indicatori” di crescita corrispondono a quelli da essi adottati nei loro campi specifici, e le loro aspettative di “crescita” sono quelle per cui la psicoanalisi soddisfi le esigenze metodologiche che essi sostengono come le uniche valide. Una certa percentuale di psicoanalisti ha lo stesso atteggiamento e comprensione del problema e anela, aspira e sospira all’ideale di arrivare ad essere una “scienza esatta”, con verifiche, controlli e oggettivazioni così come quelli utilizzati nelle scienze della natura. Un’altra parte degli psicoanalisti si raggruppa nell’atteggiamento di “incompresi”, di superbia e di isolamento di fronte alle scienze della natura. Rispondono “a specchio” ad un atteggiamento equivalente da parte degli scienziati “veri”.
Questi psicoanalisti non vogliono nessuna connessione e tendono ad autobastarsi, rifiutando le esigenze e la necessità di un’epistemologia; bastano loro le “evidenze” e le intuizioni della loro scienza e della loro tecnica, tanto particolari e specifiche che, suppongono, nessuno è nelle condizioni di intenderle e sostengono che è meglio mantenere i ponti tagliati. E così fanno. Altri psicoanalisti (come me) vedono il problema molto più complicato e non lineare e né unilaterale; la psicoanalisi ancora non ha sviluppato epistemologicamente i procedimenti che utilizza, e questo per due motivi: uno, perché la stessa psicoanalisi non li ha ancora cercati o trovati, e l’altro, perché la verifica, l’esattezza e l’oggettività nelle scienze della natura si è raggiunta amputando il contesto ed il carattere dei fenomeni e della loro ricerca e, pertanto, sono metodi valdi per contesti scorretti o limitati, creati ad-hoc.
La psicoanalisi presenta un nuovo oggetto di studio, o presenta l’oggetto di studio della psicologia in un'altra maniera, con un metodo o una procedura anche nuovi. Questa nuova procedura o metodo della psicoanalisi ha uno dei suoi pilastri nella comprensione e l’altro nell’interpretazione come strumento per veicolare o usare in modo adeguato tale comprensione. Ed ecco che il metodo delle scienze esatte o delle scienze della natura può sottoporre tutto alla verifica e all’oggettivazione, con la sola eccezione di un elemento: l’unico che non può sottoporre a controllo, verifica ed oggettivazione è il momento della procedura di comprensione dei dati e dei risultati della ricerca.
Questa coincidenza non è una coincidenza. Se i procedimenti di verifica e di controllo delle scienze della natura non possono essere utilizzati in psicoanalisi, questo non avviene per un deficit della psicoanalisi o degli psicoanalisti, ma per un deficit del metodo scientifico delle scienze della natura. Queste ultime hanno raggiunto la loro esattezza, verifica ed oggettivazione restringendo il loro campo a quello che soddisfa le necessità o le esigenze del loro metodo e viceversa: il metodo ha ristretto gli oggetti ai quali si applica o, meglio detto, ha “costruito” i suoi oggetti in accordo con il metodo. Non si tratta, quindi, del fatto che le scienze dell’uomo non “entrino” nel metodo scientifico.
Si tratta del fatto che quest’ultimo non “entra” nelle scienze dell’uomo. E per una ragione fondamentale: la sua validità è stata raggiunta amputando o eliminando l’essere umano nei due estremi: nell’intervento umano negli oggetti che vengono studiati e nell’intervento dell’osservatore o ricercatore, scotomizzando la condizione umana di quest’ultimo così come quella della consocenza stessa. Le scienze della natura astraggono (isolano) oggetti dal contesto umano reale e, inoltre, in quest’ultimo escludono il ricercatore. Oggettività e razionalità significano, quindi, soppressione degli esseri umani e soppressione del senso e del contesto sociale e psicologico di ogni dato e di ogni ricerca. La disumanizzazione della scienza (esatta) e della tecnologia non è una novità. Ma, generalmente, si insiste su quest’ultimo punto soltanto nell’utilizzo sociale della conoscenza e della tecnica, mentre viene occultato questo stesso fenomeno come procedura nel seno stesso della metodologia utilizzata. Pertanto, la psicoanalisi è anche una sfida alla metodologia. E la metodologia delle scienze della natura non può dire nulla e né aiutare in nulla la psicoanalisi nella sua procedura-asse (la comprensione) perché nemmeno lo ha risolto per se stessa e lo ha persino scotomizzato come problema.
Piuttosto, nel problema della comprensione (chiamato generalmente “momento soggettivo” o “irrazionale”) è possibile che la psicoanalisi possa aiutare la metodologia delle scienze della natura a recuperare dalla disumanizzazione dei suoi oggetti di studio, dalla disumanizzazione della sua ricerca e nei suoi risultati. Ho anche detto che la psicoanalisi presenta un nuovo oggetto di studio o presenta l’oggetto di studio della psicologia in altro modo. E si rende necessario che mi soffermi su questo punto. La psicoanalisi iniziò ricercando ciò che accade nel paziente (“dentro” di lui), ma l’introduzione del transfert ha condotto impercettibilmente ad un cambiamento fondamentale: alla ricerca di ciò che accade durante la sessione analitica in quanto relazione interpersonale. A questo si è aggiunto lo studio di ciò che accade nello psicoanalista (controtransfert, contro-identificazione). Così, possiamo dire che la psicoanalisi si concentra sulla relazione interpersonale e, sulla base di questa relazione, si concentra anche sul paziente e sull’analista.
E questo non è solo un’innovazione metodologica; esige un’innovazione epistemologica che si rende necessaria (e si è iniziato) anche nelle scienze della natura; non si tratta di studiare “cose” che, per astrazione (nel senso di “astrarre” o portare fuori dal contesto), risultano enti disumanizzati, ma sempre la relazione dell’uomo con le cose. La conoscenza stessa, già, non può essere oggettiva poiché incorpora l’essere umano (nella ricerca e nella vita attuale). La relazione interpersonale in psicoanalisi è un dialogo che include la totalità di ambo i partecipanti (inclusi i loro corpi). È un dialogo di una struttura particolare e non un dialogo qualsiasi. Spesso mi domando se in tale dialogo ha qualche senso pretendere una verifica o un controllo. Questo è un problema in sospeso (perlomeno per me).
La complessità del metodo, così come l’innovazione in termini di oggetto di studio, rende necessario non soltanto avere estrema cautela nell’impiego dei procedimenti “consacrati” nella ricerca della scienza della natura ma anche una riformulazione dell’epistemologia. Questo in alcun modo significa invalidare tutto ciò che è stato raggiunto dalle scienze della natura ma, in funzione di ciò che è stato raggiunto, si tratta di un riaggiustamento dell’epistemologia, che prenda fondamentalmente in considerazione che non ci sono fatti “nudi” e che l’oggettivazione è alienata se esclude l’essere umano; è necessario riformulare l’oggettività e la soggettività, la razionalità e l’irrazionalità, che si rivelano pseudoproblemi se li si presenta come è stato fatto fino ad ora.
Ho voluto, fin qui, stabilire tre premesse: a) la psicoanalisi ha un serio deficit in termini di accuratezza dei suoi “dati” e in termini di fondatezza, di verifica, di oggettivazione e di controllo delle sue interpretazioni, delle ipotesi, delle teorie e dei risultati terapeutici; b) la metodologia delle scienze della natura ha un serio deficit, grazie a cui ha raggiunto esattezza, verifica, controllo e oggettivazione; c) l’incrocio si verifica nel fatto che la psicoanalisi utilizza precisamente ciò che le scienze della natura non hanno risolto per se stesse e affronta proprio ciò che le scienze della natura hanno amputato come condizione imprescindibile per raggiungere il proprio sviluppo. E due conclusioni: a) la psicoanalisi non può aspettarsi dal metodo delle scienze della natura nessuna soluzione basilare o aiuto sostanziale ai suoi problemi, e b) il metodo delle scienze esatte può aspettarsi dalla psicoanalisi che questa lo aiuti ad uscire dalla sua ristrettezza e dall’amputazione presente: dalla sua astrazione e disumanizzazione.
Il problema è ancora più complicato in vari sensi. Vediamone uno: Freud sviluppò la comprensione dei fenomeni psicologici normali e patologici; in questo senso la psicoanalisi si iscrive come un’ermeneutica, uno studio dei significati. Ma, parallelamente, sviluppò una metapsicologia che continua i lineamenti delle costruzioni “oggettiviste” delle scienze della natura, ricorrendo a enti e schemi esplicativi e causali. Quest’ultima cosa è conseguenza del desiderio e della necessità di Freud di sviluppare la psicologia come una scienza della natura. È proprio qui che non risiede il suo apporto fondamentale e quest’ultimo sarebbe stato ridotto più o meno ai tentativi di – per esempio – Herbart, se non avesse sviluppato una psicologia completa e un metodo adeguato a tale fine. Quest’ultimo fatto è, secondo me, ciò che è fondamentale e rivoluzionario dell’apporto freudiano.
E su questo aspetto la metodologia delle scienze della natura non può dire assolutamente nulla, salvo rivelare e prendere coscienza del suo proprio deficit, dei suoi propri limiti e amputazioni. In questo senso, il problema che deve affrontare la metodologia delle scienze della natura non può consistere in un mero aggregato di “qualcosa” che non ha preso in considerazione, ma probabilmente in una riconsiderazione radicale dei suoi propri fondamenti. E ciò che Freud ha incorporato come metapsicologia, seguendo le prescrizioni delle scienze della natura, è proprio la parte meno valida e importante: significa un compromesso di Freud e degli psicoanalisti che lo seguono in questo. Non c’è nulla, nella metodologia delle scienze esatte, che ci dia modelli o percorsi per comprendere, per pensare, per creare: in una parola, per ricercare (scoprire). Questo continua ad accadere per caso. Una gran quantità di ricercatori non ricercano: hanno solo appreso e applicato i procedimenti della raccolta dei dati, della classificazione delle osservazioni e quelli della verifica. Probabilmente l’unica procedura che insegna, in una certa misura, a comprendere, pensare e scoprire (e non a tutti) è la psicoanalisi; e ci riesce anche nei non psicoanalisti che passano attraverso un’esperienza personale psicoanalitica (e non in tutti).
In questo senso, sono interessanti e importanti, nella psicoanalisi del ricercatore, i problemi legati alla ricerca; ad esempio, ciò che Bachelard ha chiamato “ostacoli epistemologici”, la sublimazione o riparazione, le resistenze e le difficoltà per pensare o pianificare una ricerca, ecc. In sintesi, dato che in psicoanalisi lo “strumento” basilare della ricerca è la personalità del ricercatore, si è strutturata una conoscenza psicoanalitica della ricerca che risulta vantaggiosa anche per comprendere la ricerca e il ricercatore di qualsiasi campo scientifico. Come si può facilmente dedurre, questo non risulta un mero “aggregato”; può arrivare a costituire il “fermento” di un’innovazione epistemologica.
La metodologia delle scienze della natura risulta efficace solo nella verifica, ma non può dire nulla sulla scoperta. E questo non è casuale: lascia a lato e addirittura nega ciò che la psicoanalisi coglie come fondamentale. Non sarebbe esagerato dire che nelle scienze della natura, la scoperta viene raggiunta quando il ricercatore si allontana dalle esigenze della sua metodologia. Ho preteso finora di presentare alcune questioni basilari che non vengono generalmente prese in considerazione, cercando di tirare fuori le argomentazioni e le discussioni metodologiche dalle semplificazioni che vengono postulate in vario modo: cerco di chiarire pseudoproblemi, mettendo anche in chiaro che nei rapporti tra metodologia e psicoanalisi ci sono questioni non risolte in entrambe. E non lo faccio per il semplice fatto di contestare con accuse le accuse. Tutto il contrario: desidero una riflessione di carattere positivo o fertile, mostrando che queste reciproche inadeguatezze hanno nel proprio seno una profonda relazione che risponde, quest’ultima, proprio alla struttura e al senso del metodo della psicoanalisi e di quello delle scienze della natura.
Le inadeguatezze metodologiche della psicoanalisi in termini di verifica, di controllo e di oggettivazione, non la invalidano come metodo scientifico di scoperta in quanto il suo pilastro fondamentale risiede nella comprensione. I limiti del metodo delle scienze della natura non lo invalidano neppure rispetto a tutto ciò che ha raggiunto fino ad oggi; ma gli impediscono di chiudere strade della ricerca o di pretendere di decidere sui nostri errori o sulle nostre verità. La metodologia non è un corpo finito che è nelle condizioni di prescrivere o scartare; ha, in una certa misura, uno sviluppo proprio, ma dipende anche dagli apporti dei diversi campi scientifici e dalle procedure utilizzate per questi ultimi. Non deve essere dimenticato che la metodologia è una sistematizzazione delle procedure della ricerca, ma che – a rigore –non si ricerca (si scopre) mai con le sue formulazioni; queste ultime possono introdurre coerenza e discriminazione nei passi che segue il ricercatore.
La metodologia e l’epistemologia studiano ciò che i ricercatori fanno o dicono nel loro lavoro di ricerca: come lo fanno e perché. Ma tali obiettivi tacciono proprio nel punto nodale che la psicoanalisi riprende. Ma questo “tacere” su questo aspetto, da parte della metodologia delle scienze della natura, è uno dei fondamenti su cui si è costituita. Se cessa di tacere su questo aspetto deve procedere ad una rimozione delle sue costruzioni. Ed il metodo psicoanalitico cessa di tacere proprio su questo punto e si ritrova con problemi totalmente nuovi. Torniamo qui all’affermazione precedente, della necessità di ripensare problemi tali come quelli della soggettività versus l’oggettività e la razionalità versus l’irrazionalità.
Nel primo, l’oggettività viene raggiunta amputando il soggetto e non si ottiene che un’illusione di oggettività. Ma includere gli esseri umani nell’oggettività non è equivalente alla conoscenza soggettiva. Qualcosa di simile accade con la coppia razionale versus irrazionale: vengono confuse cose molto diverse, con un’amputazione della razionalità (ciò che è, senza esitare, un’amputazione molto seria). Così, lo studio dei cosiddetti “fenomeni irrazionali” non significa che il metodo o la conoscenza siano irrazionali. D’altra parte, se viene utilizzata l’empatia, l’insight, l’identificazione, questo di per sé non è irrazionale. Lo è se si usa solo questo. Ciò che non accade nella ricerca psicoanalitica.
Come controparte dirò che la razionalità (pura ragione) nella ricerca nelle scienze della natura è semplicemente irrazionale, se si usa solo questa. E qui sì, si pretende di aver usato solo questa e lo si espone come obiettivo o merito. Ma i ricercatori non usano solo questa (non potrebbero ricercare), ma hanno acconsentito a riconoscere come peccato la non ragione. A rigore, il ragionamento è irrazionale in quanto è una caricatura del pensare e in quanto si presenta come “pura ragione”. La razionalità (della “pura ragione”) è ciò che gli psicoanalisti chiamano razionalizzazione; costituisce il più puro esponente del formalismo. È curioso (non così curioso, guardando con crudezza le distorsioni) che gli psichiatri francesi “marxisti” e difensori della dialettica denominarono anni fa la loro rivista La Raison (ndt: La Ragione).
Questa razionalità (dell’Illuminismo) che utilizzano è ragionamento o razionalizzazione e non dialettica. Il pensiero scientifico è sempre dialettico e, pertanto, anche totale e umano. Gli scienziati si riferiscono alla religione e non alla scienza quando oppongono razionalità e irrazionalità. Non c’è bisogno di opporli: il problema non esiste. L’“orrore” alla comprensione e all’intuizione è - in ultima istanza - l’altra faccia di una falsa e vergognosa esaltazione delle “virtù” razionaliste della borghesia e della pretesa “razionalità” della sua struttura sociale. Capitolo che appartiene alla sociologia della conoscenza. Così, a mio parere, vengono poste le relazioni generali tra psicoanalisi, metodologia e scienze della natura, affermando la necessità che la psicoanalisi segua il suo sviluppo e la sua evoluzione con indipendenza, senza lasciarsi trascinare né pressare dalle procedure utilizzate nelle scienze della natura; ma gli psicoanalisti devono dedicarsi molto di più agli aspetti metodologici specifici della nostra disciplina, cercando di risolvere i problemi all’interno del contesto del nostro proprio metodo e in accordo con le caratteristiche peculiari dell’oggetto di studio e del tipo di conoscenza che viene apportata.
Tuttavia, quest’ultima affermazione non esclude la necessità di analisi che prendano contatto con altri campi scientifici e tecniche o metodi di ricerca. Così, non possiamo in alcun modo sovrapporre la natura della sessione psicoanalitica con il metodo sperimentale, ma non c’è nessun inconveniente nello studiare un protocollo di una sessione psicoanalitica “come se” fosse una procedura sperimentale con le categorie che utilizza quest’ultimo. Allo stesso modo, non esiste un impedimento per cui si operi allo stesso modo con, per esempio, la teoria della Gestalt, la topologia o l’operazionismo, o per cui vengano comparati i propri risultati e procedure con i dati delle altre scienze o metodi.
Un campo che non è psicoanalitico ma che richiede di essere ancora più sviluppato è quello della riproduzione – negli animali – di condizioni o situazioni che permettano di verificare o controllare certe affermazioni o scoperte della psicoanalisi: produzione di nevrosi sperimentali, esperimenti di deprivazione affettiva, ecc. Allo stesso modo, non manca di interesse comparare scoperte psicoanalitiche con le scoperte di altri campi, tali come, per esempio, la riflessologia, l’etologia, la psicologia sociale o la biologia comparata. I disaccordi non invalidano le affermazioni di nessuna delle procedure, ma gli accordi possono orientare ed aprire nuove possibilità, ricordando sempre che non dobbiamo subordinare il metodo psicoanalitico, il suo oggetto ed i suoi risultati, a nessun’altra disciplina. Queste comparazioni hanno solo il valore di essere tali.
Allo stesso modo, non mancano di interesse le analisi o gli studi che vengono realizzati su protoccolli psicoanalitici applicando, per esempio, la teoria dell’informazione o il metodo statistico o la correlazione di variabili, ecc. La natura degli strumenti ausiliari che possiamo mettere in gioco nello studio di ipotesi, teorie e presupposti psicoanalitici non ha nulla a che vedere con un impegno nel sostenere che la natura della psicoanalisi sia la stessa di questi strumenti ausiliari a cui si può far ricorso. Il limite risiede precisamente in quello: che nessuna procedura ausiliare arrivi a compromettere l’indipendenza del metodo psicoanalitico nelle sue proprie procedure, nelle sue proprie regole tecniche, nelle sue ipotesi, teorie, ecc. Questo non significa affermare la validità di tutte le nostre ipotesi e teorie e nemmeno rifiutare la necessità di grandi innovazioni.
Vediamo ora più da vicino qualcosa sulla ricerca psicoanalitica: questa viene esercitata in due contesti, ai quali ne aggiungo un terzo. Il primo è tradizionale e viene denominato psicoanalisi clinica; anche il secondo è stato introdotto da Freud con il nome di psicoanalisi applicata, e il terzo è quello che denomino psicoanalisi operativa. Non svilupperò le caratteristiche di ciascuno di essi ma, in modo molto sintetico, le loro peculiarità metodologiche. Per quanto riguarda la psicoanalisi clinica, le opinioni sono divise: ci sono coloro che la presentano come un’osservazione in condizioni controllate; altri la considerano una procedura quasi-sperimentale; altri enfatizzano l’originalità di una relazione interpersonale regolata. È necessario separare con chiarezza, nel metodo, il controllo della sua efficacia terapeutica dalla verifica delle sue ipotesi e teorie; ugualmente, quando parliamo di verifica dell’interpretazione, si rende necessario che chiariamo se ci riferiamo all’efficacia o alla validità della comprensione raggiunta. Non si avanza in nulla se non si discrimina in ogni momento ciò di cui si parla.
La denominazione “psicoanalisi applicata” è ingannevole giacché, a volte, viene letteralmente applicata la psicoanalisi (anche nella psicoanalisi clinica), mentre in altre occasioni si tratta, effettivamente, di una ricerca (il caso Schreber, Gradiva, ecc.). La psicoanalisi di un romanzo, un film, un’opera d’arte, un “diario” o delle “memorie”, ha il vantaggio di una maggior distanza per cui il ricercatore non si trova emotivamente tanto coinvolto come nel caso della psicoanalisi clinica, ma le deduzioni sono più congetturali. In ogni modo, nel ricorrere ad entrambe le procedure vengono potenziate le sue possibilità e questo è ciò che è accaduto nella pratica. A questo si aggiunge una variante mista che è l’esame o la ricerca a posteriori di sessioni psicoanalitiche ricostruite o registrate.
Ma una confusione deve essere chiarita: nella psicoanalisi clinica non si “applica” (o non si deve “applicare”) la psicoanalisi. La si utilizza. L’“applicare” la psicoanalisi nella psicoanalisi clinica è, precisamente, una delle cause dell’impoverimento della ricerca: si cerca ciò che si conosce nella maniera in cui lo si conosce, e non si tratta di trovare ciò che non si conosce. Questo si rapporta evidentemente con l’organizzazione “di successo” del professionalismo psicoanalitico, al posto della formazione di ricercatori.
Nella psicoanalisi operativa viene utilizzata la conoscenza psicoanalitica nelle situazioni gruppali, istituzionali o comunitarie ed ha il vantaggio, sulla psicoanalisi applicata, di poter utilizzare la comprensione osservando i suoi effetti. Metodologicamente si trova meno regolata e, per questo motivo, risulta più complicata della psicoanalisi clinica, ma con essa vengono ampliati i campi di ricerca e di utilizzo della psicoanalisi. In questo senso, è utile chiarire che non esistono “fenomeni psicoanalitici”; in ogni evento intervengono esseri umani e, pertanto, può essere utilizzata la psicoanalisi. La psicoanalisi operativa esige sempre un lavoro di campo ed è per quest’ultima esigenza che la si deve anche differenziare dalla speculazione basata su conoscenze o teorie psicoanalitiche che costituiscono - queste ultime - una variante della psicoanalisi applicata (speculazione psicoanalitica su accadimenti storici, fenomeni come la guerra, ecc.).
Come ho già segnalato, Freud introdusse la psicoanalisi clinica e applicata, ma realizzò ampie escursioni speculative in motli campi; in alcuni di essi apportò conoscenze molto valide (“Totem e tabù” o “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”). Credo legittimo ricercare con le conoscenze psicoanalitiche in lavori di campo in sociologia, psicologia sociale o antropologia. Ma in tutti questi casi, vengono utilizzate le conoscenze psicoanalitiche per comprendere o per ricercare, ma non viene utilizzato il metodo psicoanalitico. Quest’ultimo è esclusivo soltanto della psicoanalisi clinica e qui, in quanto tale, è soltanto inteso in questo senso. L’estensione alla psicoanalisi operativa risulta legittima unicamente con questa importante condizione.
In una prospettiva generale, possiamo dire che in psicoanalisi ci confrontiamo, attualmente, con povertà di idee e di creatività, con mancanza di audacia e poco spirito di permanente autocritica, di dubbio e di rettificazione. Applicare la psicoanalisi nel campo della psicoanalisi clinica è soltanto applicarla. Ma non utilizzarla. Questo si rapporta con un problema sollevato da me ripetutamente: l’istituzionalizzazione della psicoanalisi porta ad un consolidamento del professionalismo, ad una difesa di una “dottrina” più che alla formazione di ricercatori. È che ogni ricerca implica la negazione come forma di superamento.
Per la psicoanalisi è anche corretto ciò che Marx disse della filosofia: la sua realizzazione porta alla sua scomparsa. Un altro tranello risiede nel porre l’enfasi della psicoanalisi sul suo carattere di terapia; sulla sua efficacia per curare e non sulla sua efficacia per ricercare. Freud non commise questo errore: in “Analisi terminabile e interminabile” non pone l’enfasi sull’efficacia terapeutica bensì sulla ricerca. Glover segnala lucidamente questo indebolimento della psicoanalisi, con la tendenza alla stereotipia, al riferirsi al fatto che nella nostra disciplina esiste anche un “nuovo pantheon” di concetti teorici. Allude, fondamentalmente, al fatto che i concetti di valore operativo o strumentale risultano cosificati e trasformati in entità o entelechie (pulsioni, es, io, super.io, repressione, ecc.). Il dogmatismo ha posto dovunque e a tutti i gradi.
Un problema fondamentale della psicoanalisi clinica si presenta rispetto al carattere dei suoi dati; che cos’è che viene osservato, dato che ciò che è “osservabile” non è letteralmente ciò che viene visto o ascoltato ma anche ciò che viene sentito (tanto dal paziente come dallo psicoanalista). Lo psicoanalista lavora con significati o sensi, che deduce dagli osservabili [ndt: da ciò che può osservare] e dalle proprie esperienze. Qui è necessario che gli psicoanalisti dedichino più attenzione a ciò che viene interpretato, a ciò che viene compreso e alle “operazioni” che hanno luogo quando si comprende. Non tutto ciò che si comprende è interpretato, e molte volte ciò che si interpreta (ciò che si dice) non sono sognificati. D’altra parte, dobbiamo separare due problemi: quello degli effetti dell’interpretazione (efficacia), da quello della sua validità. I processi con cui si arriva a comprendere i significati sono anche molto vari e sarebbe utile stabilire una “tipologia” delle interpretazioni, riconoscendo le differenze tra – per esempio – l’utilizzo di analogie, allusioni, metafore, indizi, simboli, ecc. Loewenstein segnala che Bernfeld differenziò l’interpretazione come strumento terapeutico dall’interpretazione come strumento conoscitivo. Bernfeld, citato da Schmidt, segnalò cinque modi di interpretare: a) in accordo con l’intenzione; b) in accordo con la funzione; c) come indicatore di diagnosi; d) per traslazione simbolica; e) collocando l’elemento nella totalità dell’esperienza vitale del paziente. Sono riconosciute anche l’interpretazione della difesa, l’interpretazione degli impulsi, ecc.
Tutto questo è ancora molto semplice e richiede più interesse da parte nostra. La psicoanalisi deve anche differenziare meglio il significato di motivazione e di causalità; comprensione dell’interpretazione e, in quest’ultima, efficacia di validità. Qui, come sempre, l’approccio dei problemi regola la possibilità ed il carattere delle soluzioni. Il “dato” psicoanalitico è una relazione interpersonale nella quale lo psicoanalista si trova coinvolto e che, a sua volta, configura in una certa misura il carattere dei “dati”. Si potrebbe dire che viene persa l’oggettività. Sostengo che avviene tutto il contrario: viene raggiunta una maggior oggettività in quanto viene inclusa la soggettività. Che con questo non ci allontaniamo dalla pretesa oggettività delle scienze della natura, nelle quali l’oggettività è astratta e pertanto amputata. Ma questo conduce molte volte gli psicoanalisti ad un altro errore: supporre che ciò sia già sufficiente per affermare il carattere scientifico della psicoanalisi. L’esporre un’ipotesi o la comprensione che è stata raggiunta di un paziente non può essere convalidata con la sola comprensione. Quest’ultima deve essere approfondita. Il materiale clinico che utilizziamo nei nostri apporti scientifici non dimostra mai nulla. Esemplifica soltanto e gli stessi psicoanalisti trovano assurde, a volte, e senza fondamento le interpretazioni che pubblicano altri psicoanalisti. A rigore, oggi non esiste la psicoanalisi ma le psicoanalisi, anche se ci limitiamo esclusivamente alla psicoanalisi dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale.
Risulta ovvio che è più facile essere “scientifico” se ci limitiamo a studiare i fenomeni che coincidono con la metodologia accettata come scientifica, ma è anche più scientifico osare con tutto ciò che la metodologia amputa. Se ciò che stabilisce la metodologia risulta violentato, può essere un segnale del fatto che la stessa metodologia deve essere modificata. Se si trattasse solamente di psicoanalisi e metodologia, la questione non sarebbe grave, anche se difficile. Ciò che è più grave è che, insieme ad essa, c’è la relazione (o scarsa relazione) tra psicoanalisti e metodologi. Gli “osservabili” del campo psicoanalitico non sono “puliti” e le nostre definizioni sono difettose. Potrei riferire, per esempio, l’evoluzione del concetto di narcisismo, per trovare un senza fine di “mancanze” metodologiche di ogni tipo. Così, nel concetto di narcisismo, il descrittivo, l’empirico o fattico, l’ipotetico e il teorico molte volte non sono differenziati con chiarezza. Allo stesso modo, per il non addestrato, il transfert non è un dato clinico ma una teoria.
D’altra parte, può risultare il contrario: lo psicoanalista è “abituato” così tanto, per esempio, alle pulsioni di vita e di morte che le utilizza direttamente come descrizioni. “Vede” la pulsione all’opera. E questo conduce a discussioni e problemi strani. La convinzione, l’insight, e anche l’efficacia di una procedura sono importanti ma non sono - di per sé - testimonianze o prove di validazione scientifica. È molto difficile descrivere ciò che accade in una sessione psicoanalitica in termini accurati e logici. La logica della comprensione e la logica della relazione umana, la logica del lavoro psicoanalitico non si conformano alla logica della razionalità (ciò che è stato ammesso fino ad ora come razionalità). Ma qui tocchiamo un problema complesso, che anche la logica (come parte della metodologia) è arrivata a mettere in discussione radicalmente. Ragionare per dimostrare non è la stessa cosa che pensare e comprendere per ricercare. A ciò si aggiunga che, molto spesso, gli scienziati delle scienze della natura conoscono una metodologia semplificata dai libri di testo e sono molto lontani dagli sviluppi e dalle domande della metodologia. Gli scienziati non psicoanalisti: quando ci accettano, lo fanno a causa dei “fatti” che non possono più eludere e non per mezzo della metodologia. I filosofi della scienza, quando ci accettano, ci capiscono di più. Scientificamente, quest’ultimo punto è più valido. Il primo è un proselitismo.
Un altro problema è il doppio orientamento del metodo e della teoria psicoanaliltica e la sua storia risale allo stesso Freud. Ne “Il disagio della civiltà” e in “Costruzioni nell’analisi”, Freud riconobbe chiaramente l’interpretazione dalla ricostruzione. Quest’ultima tenta di ricostruire il passato del paziente e si basa su una direzione che Fred stesso chiamò “archeologica”; è strettamente correlata alla ricerca sull’isteria e al proposito terapeutico di colmare le “lacune mestiche”. La funzione dell’analista consiste - secondo Freud – “nello scoprire o, per essere più esatti costruire ciò che è stato dimenticato, a partire dalle tracce che quest’ultimo ha lasciato dietro di sé”. L’interpretazione “si riferisce a ciò che si intraprende con un singolo elemento del materiale: un’idea improvvisa, un atto mancato e così via. Una ‘costruzione’ si dà invece quando si presenta all’analizzato un brano della sua storia passata e dimenticata. […] La via che parte dalla costruzione dell’analista dovrebbe terminare nel ricordo dell’analizzato”. L’utilizzo sempre più approfondito del transfert come fenomeno e strumento peculiare del metodo psicoanalitico ha procurato problemi tecnici e metodologici specifici che hanno avuto un corso differente. Il transfert è un fenomeno presente ma è anche un frammento di storia. Ma, per esempio, per Rickman, la psicoanalisi è un metodo astorico, dinamico e non un metodo genetico-storico.
Le esigenze metodologiche variano o cambiano di carattere secondo la direzione adottata in tal senso e secondo la teoria che fondamenta tale tecnica. Inoltre, da questa controversia situazionale versus genetico-storico, le questioni che vengono suscitate cambiano se al posto di “colmare lacune mnestiche” o “fare cosciente l’inconscio”, lo psicoanalista fissa come meta l’integrazione delle dissociazioni o la discriminazione. Ciò riguarda niente meno che la concezione della natura del fenomeno psicologico e la concezione di ciò che è la psicoanalisi.
Da qui a un’approccio antropologico non c’è nemmeno un passo: ci si trova in pieno nella concezione dell’uomo. Si rende necessario ricordare, perlomeno, alcuni problemi che, essendo poco trattati, non sono esclusivi della psicoanalisi ma di tutta la conoscenza scientifica. Tra questi si trova il ruolo dei modelli, la sociologia della consocenza, i presupposti precedenti e l’ideologia implicita in ogni costruzione di teorie. In nessun campo scientifico una teoria si riferisce solamente ai dati del proprio campo, e viene dedotta solamente dai fatti verificati. Una teoria coinvolge sempre un’ideologia. Con questa prospettiva devono anche essere messi a fuoco gli aspetti teorici della psicoanalisi, come quelli dell’inconscio, della natura del fenomeno psicologico, della “mente”, del dualismo o monismo corpo-mente, ecc.
L’importante è, ora, ricordare che nessuna teoria in nessun campo scientifico ha una verifica diretta e piena; la sua validità è accettabile per il suo valore euristico, per la sua costruzione ideologica, per la sua coerenza interna e per la sua ampiezza. Le valutazioni ideologiche e politiche supportano alcuni criteri che implicitamente influiscono sulla teoria e sulla tecnica; in psicoanalisi questo risulta evidente nei criteri di salute e malattia, cura, normalità, ecc. Di tutto ciò che si è esposto sorge con evidenza, perlomeno, una conclusione: la psicoanalisi, come tutte le scienze dell’uomo e le scienze della natura, affronta ardui problemi metodologici, molti dei quali sono comuni e molti altri sono specifici. La prospettiva generale non deve “diluire” i problemi specifici della psicoanalisi, ma nemmeno quest’ultima deve farsi carico esclusivamente di ciò che neppure le altre scienze hanno risolto e, a volte, persino sollevato. Questo articolo è integrato ed è stato scritto congiuntamente ad un altro intitolato “Teoria e pratica in psicoanalisi. La prassi psicoanalitica” e che è stato pubblicato sulla Revista Uruguaya de Psicoanálisis (1969).
Di tutto questo ritorno ad un permanente interesse personale per l’epistemologia desidero ripetere la mia convizione della necessità del fatto che gli istituti di psicoanalisi (gli incaricati della formazione di psicoanalisti) devono essere orientati fondamentalmente a formare ricercatori e non meri professionisti. La psicoanalisi non deve essere una professione dell’arte di curare ma un’attività di ricerca: questo è il suo reale potenziale scientifico e la sua possibilità sociale. Pertanto, nel curriculum della formazione degli psicoanalisti, gli istituti di psicoanalisi dovrebbero incorporare lo studio della metodologia, dell’epistemologia, della storia delle scienze e della filosofia della scienza, nonché sforzarsi di esaminare i presupposti di ciascuna fase del metodo psicoanalitico.
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L'articolo, scritto nel 1969, è estratto dal testo Métodos de investigación en psicología y psicopatología, a cura di David Ziziemsky, Buenos Aires, Ediciones Nueva Visión, 1971.
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