Nel testo è presente anche un mio articolo dal titolo "Dalla Tecnica del Gruppo Operativo alla Concezione Operativa di Gruppo", in cui cerco sinteticamente di descrivere la concezione del gruppo proposta dalla Tecnica del Gruppo Operativo e l'evoluzione di un pensiero che, da tecnica di lavoro con i gruppi, si è ampliato e trasformato fino a diventare un dispositivo teorico-concettuale per pensare alle dinamiche sociali e alle modalità di produzione della soggettività.
La Prefazione al testo, che è possibile leggere di seguito, è di Leonardo Montecchi.
Il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura e l’arte del possibile
(Esperienze nel Diagnosi e Cura di Jesi)
Questo lavoro di Stefano Bonifazi condensa anni di pratica clinica nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Si tratta di una riflessione che cerca di estrarre i concetti che hanno guidato l’esperienza e quelli che ne sono derivati.
In particolare, Bonifazi si riferisce ad un acrostico, ECRO, che sta a significare Esquema, Conceptual, Referencial y Operativo, cioè Schema Concettuale Referenziale e Operativo. Si tratta del nucleo della Concezione Operativa di Gruppo che Enrique Pichon-Riviére ha inaugurato a partire dalla sua esperienza nell’Ospedale Psichiatrico di Buenos Aires di cui era direttore.
Infatti, a metà degli anni quaranta, Pichon-Riviére si trovò in una situazione di emergenza: gli infermieri erano entrati in sciopero ed era necessario gestire tutto l’ospedale.
Dice Pichon:
“Alrededor de 1945, circunstancias particulares crearon la necesidad de transformar a los pacientes de mi servicio en operadores, por haber quedado cesante todo el personal de enfermería. Es decir que ante una situación concreta hubo que cubrir en pocos días el hecho de no tener enfermeros, el carecer de toda ayuda institucional.”
“All’incirca nel 1945, circostanze particolari crearono la necessità di trasformare i pazienti del mio servizio in operatori, perchè tutto il personale della infermeria aveva abbandonato il lavoro. Cioè, di fronte ad una situazione concreta si è dovuto risolvere in pochi giorni il fatto che non ci fossero infermieri e la mancanza di qualsiasi aiuto istituzionale.”
(“Historia de la técnica de los grupos operativos”, in Enrique Pichon-Riviere, Obra Completa, Buenos Aires, Paidós, 2023)
Da questa necessità nasce l’idea di organizzare dei gruppi, che poi vennero chiamati operativi, attorno al compito di gestire, in questo caso autogestire, l’ospedale. In quella esperienza Pichon-Riviére si accorse di una serie di ostacoli che definì “resistenze al cambiamento”.
Le resistenze istituzionali sono sempre presenti in ogni tentativo di cambiamento. Nell’esperienza italiana, la chiusura nei manicomi sancita dalla legge 180 si è accompagnata a forti resistenze sia nella mentalità delle comunità attraversate dagli stereotipi sulla follia sanciti dalla precedente legge del 1905, che favoriva l’identificazione fra folle e pericoloso a sé e agli altri, con la conseguente necessità di reclusione nel “manicomio” dove il folle doveva essere reso incapace di nuocere a sé e agli altri. Ma la resistenza non era data solo da questa paura, alimentata da certi media ma anche da resistenze istituzionali. Infatti, gli ospedali psichiatrici si erano istituzionalizzati e cioè avevano subito un’eterogenesi dei fini. Il loro compito non era più la cura dei malati ma l’automantenimento dell’istituzione stessa: posti di lavoro, commmesse di ditte che fornivano biancheria, alimentari ecc., ossia tutte le necessità per le “città dei matti”.
Il collegamento fra l’esperienza ed il pensiero di Pichon-Riviére e la trasformazione istituzionale attuata da Franco Basaglia è costituito da Armando Bauleo. Bauleo fu allievo e collaboratore di Pichon-Riviére, poi fu costretto all’esilio nel 1975. Conosceva e stimava Franco Basaglia ed in Italia cominciò ad intervenire sia nella formazione che nella supervisione istituzionale dei nuovi servizi di salute mentale che erano nati dalla riforma del 1978.
Così cominciò a circolare il concetto di ECRO, che caratterizza anche l’esperienza di Stefano Bonifazi che si richiama direttamente a Bauleo di cui è stato allievo.
Lo schema di riferimento che troverete in queste pagine riguarda l’idea di fondo che la malattia non si identifica con il malato e che il paziente, con le sue problematiche è l’emergente di un gruppo famigliare. Questo schema, come si può notare, non sostiene che i sintomi siano da riferirsi esclusivamente ad una qualche alterazione della biochimica o immunologia ma che, per comprenderli, bisogna fare riferimento anche ai vincoli ed al tipo di comunicazione del paziente e del suo gruppo famigliare. Inoltre, è necessario considerare l’ambito istituzionale, che spesso complica ulteriormente il quadro, e quello comunitario, con la carica di stereotipi e con la conseguente produzione di uno stigma che marchia il paziente e il suo gruppo famigliare.
Lo schema di riferimento che viene applicato soprattutto negli SPDC italiani e non, nonostante la legge 180 e tutte le esperienze e le teorie che lo contraddicono, è uno schema che sovrappone la sofferenza mentale a quello di una malattia o sindrome della clinica biologica. In questo schema il riferimento, non potendo riferirsi all’anatomia patologica, si rivolge alla variazione della neurotrasmissione sinaptica, quasi sempre dedotta in base a sillogismi del tipo:
Premessa maggiore: In tutte le depressioni notiamo un calo di serotonina.
Premessa minore: Tizio è depresso
Conclusione: Tizio ha poca serotonina.
Questo sillogismo porta a somministrare un farmaco inibitore della ricaptazione della serotonina ed a pensare che il sintomo sia da riferirsi ad un deficit biologico.
Questi sillogismi sono divenuti algoritmi e caratterizzano la clinica neo-krepeliniana dominante nella psichiatria contemporanea.
Per questo schema, la psicoterapia, i gruppi terapeutici, le terapie famigliari, gli interventi educativi e sociali e tutte le forme di terapia sociale e comunitaria sono, se va bene, coadiuvanti della via regia della cura che è rappresentata dal trattamento farmacologico. Non è possibile nessun riferimento al vincolo pazienti/equipe curante se non come organizzazione del flusso lavorativo scomposto in protocolli per ottenere un risultato standard, azzerando le differenze soggettive, anzi oggettivizzando tutto, per così dire, in modo che si possa intravvedere la sostituzione dell’equipe curante con forme di intelligenza artificiale. Ciò farebbe scomparire gli effetti emotivi (quelli che, da almeno cento anni, si chiamano transfert e controtransfert) visti come bias dannosi alla corretta terapia.
Come si intuisce, lo Schema di Riferimento del lavoro di Stefano Bonifazi non è questo. Naturalmente, non si nega l’aspetto biologico e la cura farmacologica, ma la si riporta alla funzione che deve avere in un quadro più vasto. Che è rappresentato da un’istituzione caratterizzata dal vincolo fra l’equipe curante, i gruppi terapeutici dei pazienti e il gruppo multifamigliare.
In particolare, mi voglio soffermare sull’esperienza del gruppo terapeutico che è stata oggetto di analisi e discussione in un gruppo di ricerca della scuola “Josè Bleger”.
Per quanto riguarda il gruppo terapeutico, la ricerca è partita da quel “fatto sorprendente” che Massimo Bonfantini, nei nostri seminari sulla metodologia della ricerca, riferendosi a Charles S. Peirce, ci aveva indicato come il necessario punto di partenza.
La ricerca riguardava gli effetti di un gruppo operativo in un’istituzione totale come un Servizio Psichiatrico Di Diagnosi e Cura (SPDC).
Dopo una ricognizione negli SPDC delle Marche e della Romagna, ci siamo resi conto che erano pochi i servizi in cui si teneva strutturalmente una qualche forma di gruppo e, là dove si teneva, era considerato, come si è detto, come un coadiuvante della terapia farmacologica.
Ma l’esperienza di Bonifazi nel Servizio di Jesi ci ha sorpreso in primo luogo perchè aveva notato degli atteggiamenti tipici. La sorpresa è stata che nonostante la prossimità, le interazioni fra i degenti erano scarse. Così Bonifazi descrive queste forme stereotipate:
– Le abbiamo chiamate scherzosamente: le solitarie pecore del presepe, il gioco ai quattro cantoni, i pesci nell’acquario, il gioco del silenzio.
– Il fenomeno delle “pecore solitarie” perché così è la loro disposizione nei presepi dove, spesso, ognuna sta per conto suo (nei pascoli formano greggi); allo stesso modo, i pazienti se ne andavano sempre da soli quando uscivano, uno ad uno, per recarsi al bar o a prendere una boccata d’aria fuori.
– Il gioco ai “quattro cantoni” descriveva la prossemica in sala fumo, uno per angolo, come a stabilire la maggior distanza possibile tra loro, quando di posacenere da pavimento ve ne era uno soltanto.
– I “pesci nell’acquario” perché, nei momenti inattivi delle attività pomeridiane, i degenti passavano il tempo guardando a lungo gli infermieri nella guardiola, come fossero pesci da ammirare, senza comunicare né interagire, senza parlare tra loro; per non confrontarsi né conoscersi, occupavano il tempo ammirando i pesci che si lasciavano osservare indifferenti, infastiditi quando qualcuno bussava sul vetro con una scusa o un’altra. Questo è accaduto per anni e tende a ricorrere oggi, dopo la sospensione delle attività gruppali che ha prodotto l’implosione della socialità tra i ricoverati.
Queste stereotipie erano colte come forme del gruppo dei ricoverati, non come un atteggiamento del singolo. Se non si ha uno schema di riferimento gruppale, non si vedono: si vede il singolo che sta per conto suo e non “le pecore del presepe”; si vede un solitario in un angolo, non “Il gioco dei quattro cantoni”; e, naturalmente, il singolo che guarda il pesce, non “i pesci nell’acquario”, che già denota l’aspetto che assume il transfert istituzionale in un SPDC.
L’introduzione del gruppo terapeutico sotto varie forme, compresa la realizzazione di un gruppo multifamigliare con i degenti e i loro famigliari, supervisionato dal professor Alfredo Canevaro, ha prodotto la rottura di questi stereotipi, in primo luogo ha favorito e legittimato una comunicazione orizzontale fra i degenti che prima del gruppo si rivolgevano molto agli operatori con vario tipo di richieste e molto poco fra loro. Il gruppo, anche se praticato per pochi incontri, dato che la degenza media è breve, meno di 15 giorni, favorisce l’identificazione reciproca e diminuisce l’ansia; inoltre, ha reso possibile anche la realizzazione di “gruppi autogestiti” che, come sempre, valorizzano la partecipazione soggettiva al cambiamento.
Complessivamente, il compito che è emerso come fondante questo gruppo nel SPDC riguarda un primo terntativo di elaborare il motivo della crisi, il cercare un senso al ricovero fra i degenti e con i loro famigliari. Insomma, come dice bene in questo lavoro Bonifazi, un tentativo di passare dal processo primario ad un processo secondario, un provare a dare un significato a ciò che è successo e a farlo uscire dalla dimensione di evacuazione emozionale o di agiti senza un apparente senso.
Insomm,a si tratterebbe di considerare il SPDC come un dispositivo costituito da vari setting che possa essere percepito come un contenitore, un apparato formato da vincoli multipli fra degenti, operatori, famigliari e mondo esterno che riduca l’angoscia, il senso di persecuzione, la paura dell’abbandono e della dissoluzione nel nulla, e permetta di intravedere una via di uscita da questo labirinto.
Bonifazi ci mostra tutta la difficoltà e le resistenze nel condurre questa importante ricerca-azione che non è ancora conclusa e di cui questo testo non è solo una testimonianza, ma un manuale per la disseminazione in altri luoghi ed in altri tempi di esperienze simili. Le resistenze riguardano i ruoli, sulla differenza fra coordinatore e conduttore, differenza molto discussa nel gruppo di ricerca della scuola “José Bleger”. Il mio punto di vista è che all’interno di un’istituzione, e soprattutto un’istituzione totale come il SPDC, si è sempre implicati con l’istituzione stessa; si può cercare di ridurre l’implicazione, ma disimplicarsi totalmente significa abbandonare l’istituzione stessa e negare il proprio ruolo. Io sono convinto che si debba avviare una dinamica fra un aspetto istituito, le leggi, i regolamenti, le consuetudini, la mentalità ed il senso comune, comprese le routine quotidiane, e un aspetto istituente: l’esigenza di cambiamento, diversi schemi di riferimento, l’importanza dei vincoli e del mondo fuori dell’istituito, la capacità di lasciarsi attraversare da problematiche non strettamente pertinenti il campo di lavoro.
L’istituzione è il risultato della dinamica fra questi aspetti, è un processo in continuo divenire. Solo quando l’istituito pone se stesso come l’ISTITUZIONE e schiaccia ogni pensiero e pratica differente da quella ordinaria marchiandola come antiscientifica, non basata sull’evidenza, sentimentale o retrograda, e sclerotizza le proprie pratiche trasformandole in procedure tecniche, allora diventa evidente come il processo istituzionale si sia fermato, e il compito sia mutato dalla cura dei pazienti al mantenimento dell’istituito stesso. In questo caso, non c’è più cura, perchè non c’è più l’altro, ma l’oggetto di varie procedure che mirano tutte all’automantenimento dell’istituito. Siamo, in questo caso, nell’istituzionalizzazione che bisogna distruggere se si vuole ripristinare il processo istituzionale che è stato soppresso.
Questo è quello che è stato fatto in in Italia con la distruzione dei manicomi e la ripresa della dinamica istituzionale nel campo della salute mentale.
Tuttavia, l’istituzionalizzazione della psichiatria è sempre all’orizzonte, è dunque necessario tenere aperta la dinamica istituzionale anche in questo campo tenendo come orizzonte la salute mentale globale.
Il lavoro di Stefano Bonifazi, che sono contento ed onorato di presentare, va in questa direzione. Che possa servire per molteplici esperienze di ricerca e azione.
Leonardo Montecchi