SCRITTI
ADOLESCENTI TRA PERDITE, INCERTEZZE E CAMBIAMENTI
di Lorenzo Sartini
(Relazione presentata all’interno del ciclo di incontri “INTERNET, SOCIAL NETWORK E SMARTPHONE: SICUREZZA E COMPORTAMENTI RESPONSABILI - Rischi, opportunità, consapevolezza nell’uso dei nuovi (e qualche volta inquietanti) strumenti multimediali: quale ruolo, da adulti ed educatori?”, svolti presso l’I.C. di Monterenzio nel periodo aprile-maggio 2015)
Penso sia interessante partire dal significato etimologico del termine adolescenza: deriva da “adolescere” e significa crescere. E il participio passato di adolescere, che poi significherebbe “cresciuto” o “che ha finito di crescere”, è adulto.
In genere, si è concordi nel ritenere la fase dell’adolescenza come una fase di passaggio e di transizione tra due fasi: da una parte l’età infantile, caratterizzata fondamentalmente dal rapporto che si intrattiene con il mondo esterno, mediato da quelle figure genitoriali che costituiscono dei punti di riferimento certi e sicuri; e dall’altra parte l’età adulta, nella quale confluirebbe il periodo adolescenziale e nella quale si dovrebbe riuscire a trovare, forse in maniera anche un po’ mitica, come sostiene Georges Lapassade nel suo primo libro “Il mito dell’adulto”[1], una propria sicurezza e stabilità.
La preadolescenza, che costituirebbe la prima fase di trasformazione del bambino in adolescente, e poi l’adolescenza vera e propria, si presentano come fasi della vita della persona caratterizzate da grande instabilità, da incertezza e dalla perdita delle sicurezze che avevano accompagnato la crescita del soggetto fino a quel momento. In questo periodo della vita le ragazze ed i ragazzi vanno incontro a cambiamenti straordinari che li modificano sia dal punto di vista fisico, soprattutto con la maturazione sessuale e genitale, che psichico, con il riemergere dell’elemento narcisistico propizio alla ricerca di una propria identità, ossia di un proprio modo di stare al mondo. La fase dell’adolescenza viene generalmente considerata come una tappa fondamentale nella costruzione della personalità; come una fase di ricerca e sperimentazione per trovare la propria strada, il proprio modo di essere.
Il vivere questi cambiamenti straordinari, con le conseguenti sensazioni di squilibrio che ne derivano, provoca tensioni enormi, per affrontare le quali spesso si fa ricorso ad alcuni comportamenti comunemente considerati come anormali; e che spesso potrebbero quasi definirsi patologici: improvvisi cambiamenti di umore, repentine chiusure in se stessi, azioni inconsulte ed anche violente, atteggiamenti trasgressivi, ribellioni contro tutto e tutti. Proprio per la difficoltà a leggere ed intendere la stranezza dei comportamenti degli adolescenti, da più parti si parla di "sindrome normale" (Milano F., 1996), intendendo con questo ossimoro un insieme di comportamenti che potrebbero caratterizzare un’entità clinica, da cui il termine sindrome, ma normale poiché li si riscontra frequentemente nella fase dell’adolescenza.
In effetti, i comportamenti dell’adolescente, in molti casi largamente contraddistinti da aspetti trasgressivi e antisociali, generano una forte preoccupazione negli adulti, i quali spesso rispondono in maniera allarmata, facendosi condizionare da tutta una serie di pregiudizi e stereotipi che possono portare ad attuare reazioni repressive che si rivelano, il più delle volte, inefficaci e finanche controproducenti.
L’elemento trasgressivo sembra fare naturalmente parte dell’età adolescenziale e la corrispondenza tra adolescenza e trasgressività è stata da sempre riconosciuta[2]. Questo fatto crea qualche problema poiché può essere piuttosto complicato differenziare i casi in cui l’aggressività e le trasgressioni possono essere parte integrante del processo di crescita e di ricerca di una propria identità e quelli in cui, invece, possono rappresentare espressioni di tendenze più problematiche, fino a scaturire in situazioni patologiche.
Tali annotazioni per rilevare come la modalità di vivere l’adolescenza cui si fa costantemente riferimento nei nostri giorni, allorché si evidenziano soprattutto questi aspetti problematici (trasgressioni, antisocialità, sessualità precoce), a cui si legano le tante preoccupazioni degli adulti, non sembra proprio essere caratteristica del nostro tempo, ma parrebbe costituire una condizione strutturale di questo periodo della vita:
“Vorrei che non ci fosse l’età che va dai sedici ai ventitre; o che per tutto questo tempo la gioventù che è in noi dormisse sempre. Perché in tutto quell’intervallo non si fa che mettere incinte ragazze, maltrattare gli anziani, rubar la roba e menar cazzotti”
(Shakespeare, Il racconto d’inverno, 1611)
Shakespeare, nella citazione tratta dal bel lavoro di Arturo Casoni sull’età adolescenziale (2008), si riferiva all’età che va dai sedici ai ventitre anni, ma sappiamo che l’entrata nell’età puberale sembra essere costantemente anticipata (e ritardata la sua conclusione per i complessi mutamenti della società), sia a livello psicologico che fisico. Per fare solamente due esempi: dal punto di vista fisico, sappiamo che se un secolo fa i primi flussi mestruali nelle ragazze apparivano intorno ai 14 anni circa, ai giorni nostri si presentano, in media, prima dei 12 anni[3]; dal punto di vista psicologico, parimenti, è noto come gli adolescenti, anche in virtù delle tante esperienze che hanno occasione di fare e dei tanti stimoli che ricevono nella società odierna, sono più precoci, rispetto ad un tempo, nelle richieste che fanno al mondo adulto.
In breve, possiamo riassumere sostenendo che la questione fondamentale da considerare quando si parla di adolescenza è che i ragazzi si trovano a passare da uno stato caratterizzato da modalità relazionali ancora appartenenti al mondo dell’infanzia, nel quale molto forte è la dipendenza dalle figure adulte la cui protettiva presenza è sentita come estremamente rassicurante, e che influenza decisamente la considerazione di se stessi, ad un altro nel quale tutto viene messo in discussione ed è da ricostruire. Come se si perdesse tutto: o quasi.
La perdita delle certezze
Quando si parla di perdita, si ha a che fare con il lutto. In psicoanalisi si ritiene che questa fase della vita sia caratterizzata dal lutto, intendendo una situazione nella quale si ha a che fare con una sensazione di tristezza dovuta al doversi confrontare con una mancanza: di solito si pensa alla perdita di una persona cara, un qualcuno cui si è voluto bene e che non c’è più. L’adolescente, da questo punto di vista, è come se si trovasse a fare i conti con la perdita di se stesso, ossia, con la perdita di parti della propria personalità. In generale, come scrive la psicoterapeuta Fiorenza Milano (1996), si parla di tre lutti fondamentali che si devono attraversare durante la preadolescenza:
Si trasforma il corpo
A tutto questo, si aggiunge l’esplosione ormonale che sconquassa il corpo del preadolescente mettendolo a confronto con una forza delle pulsioni interne prima sconosciuta.
È nella fase della pubertà, in linea di massima intorno ai 10-11 anni nelle ragazze e ai 12-13 anni nei ragazzi, che iniziano ad accennarsi i cambiamenti corporei che poi verranno accentuati nel corso dell’adolescenza fino a trovare una stabilizzazione. Ci si scontra con la necessità di integrare nell’immagine di sé il corpo; ossia, si assiste ad un cambiamento fisico su tutti i fronti, ciò che richiede una rielaborazione di quello che l’adolescente pensa sul proprio corpo. Un corpo che cambia e che si trasforma repentinamente senza riuscire a capire bene ciò che sta accadendo; un corpo che diviene uno strumento di riferimento spaziale e di misura rispetto al mondo esterno (basta pensare alla sbadataggine degli adolescenti, scambiata spesso per disattenzione e menefreghismo, invece dovuta al controllo ancora precario che riescono ad avere rispetto al loro corpo che si trasforma); un corpo che diventa un mezzo per esprimersi anche simbolicamente (tutto ciò che fa l’adolescente va inteso come comunicazione: come decide di tenere i suoi capelli, lunghi o corti? E che tipo di abiti decide di indossare?); un corpo che diventa anche uno strumento di offesa (anche menando le mani ci si misura rispetto al fuori, agli altri); un corpo cui viene riconosciuto socialmente, con la maturazione degli organi genitali e tutta una serie di metamorfosi da cui viene investito (cambia la voce, cresce la peluria, aumentano la muscolatura nei maschi e le rotondità nelle femmine), la possibilità di esprimersi in quanto corpo sessuato. L’adolescente, infatti, sebbene Freud ci abbia parlato dell’esistenza della sessualità sin dalle fasi infantili, viene socialmente e culturalmente investito del diritto di innamorarsi e di andare verso l’altro. La società riconosce all’adolescente il diritto alla sessualità, un diritto che, spesso, viene ad essere sentito quasi come un dovere (Casoni A., 2008). Questa chiamata alla sessualità da parte della società spinge, e costringe, i ragazzi a fare i conti anche con la scelta di una propria identità sessuale.
Se fino all’inizio della pubertà si può parlare di bisessualità infantile, con il bambino che vive un’indiscriminazione a livello della sessualità (ossia, vive sia aspetti sessuali femminili che maschili), l’entrata nella pubertà, con le pressioni sociali e familiari che l’accompagnano, aprirà ai ragazzi il percorso che li porterà a scoprire in altri il proprio oggetto sessuale e ad assumere una propria identità sessuale.
Un’identità instabile
Nella fase adolescenziale si pone fortemente il problema dell’identità, intesa come il riuscire ad avere un sentimento di continuità di se stessi che si snoda tra un prima, ciò che si è stati, un adesso, ciò che si è, e un dopo, ciò che si potrà essere.
È un compito assai arduo riuscire ad affrontare questa fase così instabile e precaria, connotata da tutta una serie di conflitti che si vivono rispetto alla propria immagine di se stessi e alla posizione che si va a ricoprire in rapporto al mondo esterno. Per affrontare questi conflitti, e l’incertezza che ne deriva, si può assistere all’utilizzo di identità fittizie che hanno l’obiettivo di evitarli e di potersi pensare adulti prima del tempo: così avremo a che fare con il “macho”, oppure con il “figo”, o con il “ragazzino ancora bambino”, o con le “Lolite”, o con le “svampite” o con i “troppo seri” (cfr. Milano F., 1996). Tutte identità-scorciatoia, stereotipate, che hanno l’obiettivo di evitare quelle situazioni conflittuali della quotidianità che provocano un’intensa angoscia e che possono essere assunte conformandosi ai vari modelli sociali che si sono osservati nei propri contesti di vita.
Ritengo si debba considerare che l’adolescente, con la perdita della precedente identità infantile, dunque con i lutti prima accennati, e con l’apertura delle nuove possibilità che intravede dischiudersi all’orizzonte (i cambiamenti fisici, la pulsione sessuale socialmente riconosciuta, i mutamenti di immagine e di fantasie su se stesso), si scontri con i complessi sentimenti dell’ansia e della depressione. Sovente si assiste nell’adolescente ad un alternarsi tra fasi psicologiche di ripiegamento su se stesso, caratterizzate da chiusura, isolamento e senso di solitudine, e fiduciosi slanci verso l’esterno (Milano F., ibidem). Nelle situazioni più complesse può esserci il tentativo di eludere la fase del ripiegamento depressivo mediante il passaggio agli ‘agiti’, ossia ad azioni incontrollate, non pensate, che hanno come unico ed inconsapevole obiettivo di buttar fuori l’angoscia originata da situazioni conflittuali legate ai compiti evolutivi che si affrontano nella quotidianità.
Si ha a che fare con continui cambiamenti di umore che provocano disorientamento non solo nell’adolescente ma anche negli adulti di riferimento; questi cambiamenti di umore dovrebbero però essere sempre pensati come tentativi di elaborazione e di ricerca di una propria identità e di una propria posizione nel mondo, e non dei capricci.
In questo senso, le fasi di chiusura e di ripiegamento su se stesso potrebbero essere considerate come momenti di riflessione ed elaborazione di pensieri, di fantasie e di idee che andranno poi a confluire nella formazione degli ideali e dei principi che guideranno, almeno in parte, la propria vita. È noto, d'altronde, come l’adolescenza sia un periodo della vita nel quale molto intensa è la tendenza a fantasticare, ad idealizzare, a formulare grandi idee con la convinzione di combattere sempre nuove ed epiche battaglie contro tutto ciò che viene sentito profondamente ingiusto nel mondo. È molto importante che l’adolescente abbia delle opportunità per comunicare queste sue idee agli altri, all’esterno, altrimenti si rischia che questo ripiegamento, piuttosto che costituire un momento di riflessione e di elaborazione creativa, diventi una sterile e asfittica chiusura su se stessi.
L’avvento delle nuove tecnologie
Nella società odierna l’avvento delle cosiddette nuove tecnologie (internet, smartphone, videogiochi, ecc.) sembrerebbe aver apportato enormi modifiche agli stili di vita degli adolescenti di oggi che, nati a ridosso del 2000, sono tra le prime generazioni ad aver avuto da sempre a che fare con le possibilità messe a disposizione da questi nuovi dispositivi così rapidamente diffusisi. Quando si affronta il tema delle nuove tecnologie molto spesso si cade nella facile tentazione di lasciarsi andare a critiche negative, interpretandole esclusivamente come strumenti distruttivi e forieri di problemi. Le nuove tecnologie aprono delle possibilità, sono degli strumenti e, in quanto tali, non è possibile definire una valenza a priori, indipendentemente dal modo in cui vengono utilizzate.
Penso sia innegabile affermare che questi strumenti tecnologici, effettivamente, facilitino le possibilità di relazione con gli altri e, di fatto, rendono possibile un allargamento dello spazio relazionale delle persone: con facebook, twitter e gli altri ‘social media’ si ha l’opportunità di ampliare il ventaglio delle proprie relazioni. La questione centrale, però, secondo me, è che questo enorme potenziale comunicativo, in alcuni casi, ovverosia con le persone che vivono con una certa difficoltà le relazioni umane, rischia di comportare la convinzione di poter considerare l’altro, invece che come corpo pensante fatto di carne ed ossa, come pura protesi virtuale di se stessi.
Si passa, in questi casi, all’estremo opposto e, da strumenti dalle enormi potenzialità comunicative, i ‘social networks’ rischiano di trasformarsi in strumenti che veicolano solamente una comunicazione virtuale irta di illusioni: l’illusione della condivisione, della vicinanza, della costante presenza dell’altro.
Credo che si debba distinguere: ci saranno adolescenti meglio attrezzati, con un adeguato bagaglio di strumenti affettivi e relazionali che permetteranno loro di riuscire ad usare con cognizione le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, non temendo eccessivamente l’incontro reale con l’altro. In questi casi, allora, le relazioni virtuali andranno solamente ad aggiungersi ad una piattaforma di relazioni costituite perlopiù da rapporti concreti, umani, caldi.
E ci saranno invece coloro, poco attrezzati dal punto di vista relazionale, che rischieranno maggiormente di vedersi assorbire da un utilizzo massiccio degli stessi strumenti tecnologici. Il problema, possiamo pensare, si pone con questi ultimi, meno capaci di organizzare e gestire le proprie relazioni con gli altri e la propria autonomia quotidiana. In questi casi il rischio reale è che, pur di stare in rapporto con gli altri e comunicare (perché questo è, comunque sia, l’obiettivo), si sostituisca alla relazione concreta, vissuta con eccessive tensioni, problematicità e paura, una relazione virtuale che assicuri maggior distanza dall’altro e maggior controllo sulla relazione medesima. Una relazione sentita come più sicura ma, certamente, più piatta e fredda. Ossia, il ritiro dal mondo e dai rapporti concretamente umani viene coperto con un’apparente ricchezza delle relazioni virtuali, provocando questo un reale impoverimento delle esperienze concrete e, alla fine, ritrovandosi a confrontarsi con una condizione di solitudine ancor più profonda. Ci si illude di poter nascondere la sofferenza e l’incertezza che si vivono nel rapporto con gli altri e, alla fine, le si cronicizza.
La questione su cui porre l’attenzione, quindi, non è tanto lo strumento tecnologico (i cui potenziali effetti vanno comunque certamente studiati e approfonditi), bensì la mancanza di competenze emotive ed affettive che rendono estremamente arduo il solo pensare di poter istaurare relazioni con gli altri traendone soddisfacimento, e che possono far deviare verso un uso massiccio delle nuove tecnologie.
Fammi vedere cosa posso fare
La personalità dell’adolescente viene dunque investita di cambiamenti di enorme portata, cambiamenti che però dobbiamo pensare coinvolgano anche la famiglia. Le nuove pretese che il figlio manifesta, in modo più o meno ortodosso, costringono a nuove prese di posizione da parte dei genitori: la pretesa di maggior libertà, di maggior elasticità negli orari di uscita, nella disponibilità economica, ecc., impongono anche ai genitori di rivedere il proprio modo di pensare il figlio e di stare in relazione con lui, dovendo tollerare la sua crescita che significa anche, di riflesso, il proprio invecchiamento. In altre parole, come sosteneva lo psichiatra e psicoanalista argentino Armando Bauleo, il processo di crescita del preadolescente non dovrebbe considerarsi solamente un fatto individuale, bensì, sviluppandosi la vita di un individuo all’interno di un gruppo familiare (e quest’ultimo inevitabilmente collocandosi all’interno di una specifica organizzazione sociale in un preciso momento storico), sarebbe necessariamente da considerarsi un fatto che riguarda la vita di tutta la famiglia, essa stessa dunque alle prese con il rischio e la sfida dell’adolescenza (Milano F., ibidem).
Dobbiamo pensare, infatti, che in questa fase della vita, sì, i figli, ma anche i genitori sono costantemente alle prese con l’ambivalenza: da una parte l’adolescente, che mostra la sua ambivalenza attraverso la manifestazione di comportamenti che oscillano tra l’incertezza della fase che sta attraversando ed il ritorno all’oramai superata fase infantile; dall’altra i genitori, che si trovano a fare i conti con il passaggio da una condizione nella quale costituivano delle entità onnipotenti (i genitori protettivi e rassicuranti dell’infanzia) ad una’altra nella quale si ritrovano a giocare il ruolo di figure costantemente contestate e giudicate.
Questo è un punto estremamente importante da considerare. Si dà quasi per scontato che l’adolescente si ritrovi giocoforza a dover fare i conti con l’incertezza e con un’apertura delle proprie possibilità, ovverosia a porsi mille domande. È però interessante chiedersi se i genitori del figlio adolescente siano pronti a porsi domande simili, poiché quell’incertezza, dunque, non riguarda soltanto il loro figlio ma, inevitabilmente, coinvolge nella concretezza della vita quotidiana anche loro: si è in grado di accettare questo passaggio e ricoprire il ruolo necessario, sempre mutevole, complementare a quello mobile e incerto giocato dall’adolescente? Ossia, si è in grado di identificarsi con la forza creativa e instabile del figlio per ritrovare dentro di sé quella parte incerta costitutiva della propria adolescenza?
Venerdì, 8 maggio 2015
Bibliografia:
Bernardini J., “Adulti di carta. La rappresentazione sociale dell’età adulta sulla stampa”, Franco Angeli, Milano, 2013
Casoni A., “L’adolescenza liquida. Una riflessione e revisione del concetto”, in Casoni A. (a cura di), “Adolescenza liquida”, EDUP, Roma, 2008
Freud S., (1905), “Tre saggi sulla teoria sessuale”, in “Opere, vol. 4”, Bollati Boringhieri, Torino, 1998
Milano F., “L’adolescenza: una sindrome normale”, in Buongiorno L. (a cura di), “Scuola e prevenzione. Un’esperienza psicopedagogica”, Pitagora Editrice, Bologna, 1996
Note:
[1] Georges Lapassade, un filosofo e sociologo francese scomparso nel 2008, nel 1963 scrisse il suo primo libro, “L’entree dans la vie” (tradotto in italiano e pubblicato nel 1971 da Guaraldi con il titolo “Il mito dell’adulto”), nel quale metteva in discussione quest’idea dell’adultità per cui sembrerebbe che l’adolescenza sia l’età dei dubbi e delle incertezze, mentre una volta risolte queste indecisioni proprie dell’età giovanile si entrerebbe nell’età adulta dove ci si trova a vivere uno stato di completezza, avendo risolto le proprie questioni ed avendo trovato la propria definitiva strada. Lapassade in quel testo sosteneva che questa idea fosse, appunto, un mito, ritenendo invece l’uomo come un essere sempre incompleto che non smette mai di interrogarsi e, anzi, che è proprio a cagione di questo stato permanente di incompletezza che gli è possibile muoversi, ricercare, crescere.
[2] “L’esistenza di una dinamica descrivibile in termini di disagio, le cui modalità espressive appartengono all’adolescenza/giovinezza, sembra indubitabile. È possibile rilevare, persino come dato transculturale, che per i giovani il disagio - vissuto come momento di eroismo, trasgressione, atto di sfida e di ribellione alla conformità, visto come rischio voluto e con misurata incoscienza - entra, in un certo senso, a far parte addirittura del mito e proprio come tale è celebrato ed esaltato da tanta produzione artistica (letteratura, cinema) soprattutto per i maschi. Nell’età adolescente, il dinamismo del disagio dev’essere considerato quasi parte integrante del percorso di emancipazione e di autonomia dalla famiglia d’origine, una sorta di scotto inevitabile per affrancarsi dalla dipendenza o per contrastare provocatoriamente chi la incarna o la rappresenta. In queste forme il disagio si presenta di non facile lettura, a causa della sua ambiguità. Come ogni trasgressione, esso esprime infatti, in modo esaltato ed esagerato, il desiderio/bisogno di sfidare la tradizione o di contrapporsi all’ordine costituito, non disgiunto però da quello, altrettanto intenso, di appartenervi, di esserne accolto e integrato. Questo spiega il perché, molto spesso, il disagio ricalchi, nelle sue manifestazioni più estreme, proprio i modelli a cui si contrappone e che intende distruggere o superare” (Comitato Nazionale di Bioetica, 1999).
[3] Jacopo Bernardini, nel suo “Adulti di carta. La rappresentazione sociale dell’età adulta sulla stampa” (2013) scrive: “È un fatto ormai appurato che, negli ultimi 150 anni, l’inizio della pubertà femminile è andato anticipandosi di circa 3-4 mesi per decennio. Infatti se nel 1900 le prime mestruazioni avvenivano intorno ai 14 anni, oggi la media è sotto ai dodici.”
(Relazione presentata all’interno del ciclo di incontri “INTERNET, SOCIAL NETWORK E SMARTPHONE: SICUREZZA E COMPORTAMENTI RESPONSABILI - Rischi, opportunità, consapevolezza nell’uso dei nuovi (e qualche volta inquietanti) strumenti multimediali: quale ruolo, da adulti ed educatori?”, svolti presso l’I.C. di Monterenzio nel periodo aprile-maggio 2015)
Penso sia interessante partire dal significato etimologico del termine adolescenza: deriva da “adolescere” e significa crescere. E il participio passato di adolescere, che poi significherebbe “cresciuto” o “che ha finito di crescere”, è adulto.
In genere, si è concordi nel ritenere la fase dell’adolescenza come una fase di passaggio e di transizione tra due fasi: da una parte l’età infantile, caratterizzata fondamentalmente dal rapporto che si intrattiene con il mondo esterno, mediato da quelle figure genitoriali che costituiscono dei punti di riferimento certi e sicuri; e dall’altra parte l’età adulta, nella quale confluirebbe il periodo adolescenziale e nella quale si dovrebbe riuscire a trovare, forse in maniera anche un po’ mitica, come sostiene Georges Lapassade nel suo primo libro “Il mito dell’adulto”[1], una propria sicurezza e stabilità.
La preadolescenza, che costituirebbe la prima fase di trasformazione del bambino in adolescente, e poi l’adolescenza vera e propria, si presentano come fasi della vita della persona caratterizzate da grande instabilità, da incertezza e dalla perdita delle sicurezze che avevano accompagnato la crescita del soggetto fino a quel momento. In questo periodo della vita le ragazze ed i ragazzi vanno incontro a cambiamenti straordinari che li modificano sia dal punto di vista fisico, soprattutto con la maturazione sessuale e genitale, che psichico, con il riemergere dell’elemento narcisistico propizio alla ricerca di una propria identità, ossia di un proprio modo di stare al mondo. La fase dell’adolescenza viene generalmente considerata come una tappa fondamentale nella costruzione della personalità; come una fase di ricerca e sperimentazione per trovare la propria strada, il proprio modo di essere.
Il vivere questi cambiamenti straordinari, con le conseguenti sensazioni di squilibrio che ne derivano, provoca tensioni enormi, per affrontare le quali spesso si fa ricorso ad alcuni comportamenti comunemente considerati come anormali; e che spesso potrebbero quasi definirsi patologici: improvvisi cambiamenti di umore, repentine chiusure in se stessi, azioni inconsulte ed anche violente, atteggiamenti trasgressivi, ribellioni contro tutto e tutti. Proprio per la difficoltà a leggere ed intendere la stranezza dei comportamenti degli adolescenti, da più parti si parla di "sindrome normale" (Milano F., 1996), intendendo con questo ossimoro un insieme di comportamenti che potrebbero caratterizzare un’entità clinica, da cui il termine sindrome, ma normale poiché li si riscontra frequentemente nella fase dell’adolescenza.
In effetti, i comportamenti dell’adolescente, in molti casi largamente contraddistinti da aspetti trasgressivi e antisociali, generano una forte preoccupazione negli adulti, i quali spesso rispondono in maniera allarmata, facendosi condizionare da tutta una serie di pregiudizi e stereotipi che possono portare ad attuare reazioni repressive che si rivelano, il più delle volte, inefficaci e finanche controproducenti.
L’elemento trasgressivo sembra fare naturalmente parte dell’età adolescenziale e la corrispondenza tra adolescenza e trasgressività è stata da sempre riconosciuta[2]. Questo fatto crea qualche problema poiché può essere piuttosto complicato differenziare i casi in cui l’aggressività e le trasgressioni possono essere parte integrante del processo di crescita e di ricerca di una propria identità e quelli in cui, invece, possono rappresentare espressioni di tendenze più problematiche, fino a scaturire in situazioni patologiche.
Tali annotazioni per rilevare come la modalità di vivere l’adolescenza cui si fa costantemente riferimento nei nostri giorni, allorché si evidenziano soprattutto questi aspetti problematici (trasgressioni, antisocialità, sessualità precoce), a cui si legano le tante preoccupazioni degli adulti, non sembra proprio essere caratteristica del nostro tempo, ma parrebbe costituire una condizione strutturale di questo periodo della vita:
“Vorrei che non ci fosse l’età che va dai sedici ai ventitre; o che per tutto questo tempo la gioventù che è in noi dormisse sempre. Perché in tutto quell’intervallo non si fa che mettere incinte ragazze, maltrattare gli anziani, rubar la roba e menar cazzotti”
(Shakespeare, Il racconto d’inverno, 1611)
Shakespeare, nella citazione tratta dal bel lavoro di Arturo Casoni sull’età adolescenziale (2008), si riferiva all’età che va dai sedici ai ventitre anni, ma sappiamo che l’entrata nell’età puberale sembra essere costantemente anticipata (e ritardata la sua conclusione per i complessi mutamenti della società), sia a livello psicologico che fisico. Per fare solamente due esempi: dal punto di vista fisico, sappiamo che se un secolo fa i primi flussi mestruali nelle ragazze apparivano intorno ai 14 anni circa, ai giorni nostri si presentano, in media, prima dei 12 anni[3]; dal punto di vista psicologico, parimenti, è noto come gli adolescenti, anche in virtù delle tante esperienze che hanno occasione di fare e dei tanti stimoli che ricevono nella società odierna, sono più precoci, rispetto ad un tempo, nelle richieste che fanno al mondo adulto.
In breve, possiamo riassumere sostenendo che la questione fondamentale da considerare quando si parla di adolescenza è che i ragazzi si trovano a passare da uno stato caratterizzato da modalità relazionali ancora appartenenti al mondo dell’infanzia, nel quale molto forte è la dipendenza dalle figure adulte la cui protettiva presenza è sentita come estremamente rassicurante, e che influenza decisamente la considerazione di se stessi, ad un altro nel quale tutto viene messo in discussione ed è da ricostruire. Come se si perdesse tutto: o quasi.
La perdita delle certezze
Quando si parla di perdita, si ha a che fare con il lutto. In psicoanalisi si ritiene che questa fase della vita sia caratterizzata dal lutto, intendendo una situazione nella quale si ha a che fare con una sensazione di tristezza dovuta al doversi confrontare con una mancanza: di solito si pensa alla perdita di una persona cara, un qualcuno cui si è voluto bene e che non c’è più. L’adolescente, da questo punto di vista, è come se si trovasse a fare i conti con la perdita di se stesso, ossia, con la perdita di parti della propria personalità. In generale, come scrive la psicoterapeuta Fiorenza Milano (1996), si parla di tre lutti fondamentali che si devono attraversare durante la preadolescenza:
- il lutto per la perdita del corpo infantile, con cambiamenti fisici tali che gli stessi ragazzi sembrano assistervi in maniera impotente e meravigliata;
- il lutto per la perdita del ruolo e dell’identità infantile, ossia di quella cosiddetta ‘beata ingenuità’ che contraddistingueva le esperienze vissute nell’infanzia, che spinge i ragazzi a sentire di dover lasciare la condizione di dipendenza precedente ricercando nuove possibilità evolutive ed identitarie;
- il lutto per la perdita, da un punto di vista psicologico, dell’immagine di quei genitori dell’infanzia, così protettivi e ai quali si era legati da amore totale e pieno di gratitudine. Genitori che si trovano anch’essi a dover fare i conti con i mutamenti che vedono accadere nei figli dovendo adattarsi alla nuova situazione che si va organizzando.
Si trasforma il corpo
A tutto questo, si aggiunge l’esplosione ormonale che sconquassa il corpo del preadolescente mettendolo a confronto con una forza delle pulsioni interne prima sconosciuta.
È nella fase della pubertà, in linea di massima intorno ai 10-11 anni nelle ragazze e ai 12-13 anni nei ragazzi, che iniziano ad accennarsi i cambiamenti corporei che poi verranno accentuati nel corso dell’adolescenza fino a trovare una stabilizzazione. Ci si scontra con la necessità di integrare nell’immagine di sé il corpo; ossia, si assiste ad un cambiamento fisico su tutti i fronti, ciò che richiede una rielaborazione di quello che l’adolescente pensa sul proprio corpo. Un corpo che cambia e che si trasforma repentinamente senza riuscire a capire bene ciò che sta accadendo; un corpo che diviene uno strumento di riferimento spaziale e di misura rispetto al mondo esterno (basta pensare alla sbadataggine degli adolescenti, scambiata spesso per disattenzione e menefreghismo, invece dovuta al controllo ancora precario che riescono ad avere rispetto al loro corpo che si trasforma); un corpo che diventa un mezzo per esprimersi anche simbolicamente (tutto ciò che fa l’adolescente va inteso come comunicazione: come decide di tenere i suoi capelli, lunghi o corti? E che tipo di abiti decide di indossare?); un corpo che diventa anche uno strumento di offesa (anche menando le mani ci si misura rispetto al fuori, agli altri); un corpo cui viene riconosciuto socialmente, con la maturazione degli organi genitali e tutta una serie di metamorfosi da cui viene investito (cambia la voce, cresce la peluria, aumentano la muscolatura nei maschi e le rotondità nelle femmine), la possibilità di esprimersi in quanto corpo sessuato. L’adolescente, infatti, sebbene Freud ci abbia parlato dell’esistenza della sessualità sin dalle fasi infantili, viene socialmente e culturalmente investito del diritto di innamorarsi e di andare verso l’altro. La società riconosce all’adolescente il diritto alla sessualità, un diritto che, spesso, viene ad essere sentito quasi come un dovere (Casoni A., 2008). Questa chiamata alla sessualità da parte della società spinge, e costringe, i ragazzi a fare i conti anche con la scelta di una propria identità sessuale.
Se fino all’inizio della pubertà si può parlare di bisessualità infantile, con il bambino che vive un’indiscriminazione a livello della sessualità (ossia, vive sia aspetti sessuali femminili che maschili), l’entrata nella pubertà, con le pressioni sociali e familiari che l’accompagnano, aprirà ai ragazzi il percorso che li porterà a scoprire in altri il proprio oggetto sessuale e ad assumere una propria identità sessuale.
Un’identità instabile
Nella fase adolescenziale si pone fortemente il problema dell’identità, intesa come il riuscire ad avere un sentimento di continuità di se stessi che si snoda tra un prima, ciò che si è stati, un adesso, ciò che si è, e un dopo, ciò che si potrà essere.
È un compito assai arduo riuscire ad affrontare questa fase così instabile e precaria, connotata da tutta una serie di conflitti che si vivono rispetto alla propria immagine di se stessi e alla posizione che si va a ricoprire in rapporto al mondo esterno. Per affrontare questi conflitti, e l’incertezza che ne deriva, si può assistere all’utilizzo di identità fittizie che hanno l’obiettivo di evitarli e di potersi pensare adulti prima del tempo: così avremo a che fare con il “macho”, oppure con il “figo”, o con il “ragazzino ancora bambino”, o con le “Lolite”, o con le “svampite” o con i “troppo seri” (cfr. Milano F., 1996). Tutte identità-scorciatoia, stereotipate, che hanno l’obiettivo di evitare quelle situazioni conflittuali della quotidianità che provocano un’intensa angoscia e che possono essere assunte conformandosi ai vari modelli sociali che si sono osservati nei propri contesti di vita.
Ritengo si debba considerare che l’adolescente, con la perdita della precedente identità infantile, dunque con i lutti prima accennati, e con l’apertura delle nuove possibilità che intravede dischiudersi all’orizzonte (i cambiamenti fisici, la pulsione sessuale socialmente riconosciuta, i mutamenti di immagine e di fantasie su se stesso), si scontri con i complessi sentimenti dell’ansia e della depressione. Sovente si assiste nell’adolescente ad un alternarsi tra fasi psicologiche di ripiegamento su se stesso, caratterizzate da chiusura, isolamento e senso di solitudine, e fiduciosi slanci verso l’esterno (Milano F., ibidem). Nelle situazioni più complesse può esserci il tentativo di eludere la fase del ripiegamento depressivo mediante il passaggio agli ‘agiti’, ossia ad azioni incontrollate, non pensate, che hanno come unico ed inconsapevole obiettivo di buttar fuori l’angoscia originata da situazioni conflittuali legate ai compiti evolutivi che si affrontano nella quotidianità.
Si ha a che fare con continui cambiamenti di umore che provocano disorientamento non solo nell’adolescente ma anche negli adulti di riferimento; questi cambiamenti di umore dovrebbero però essere sempre pensati come tentativi di elaborazione e di ricerca di una propria identità e di una propria posizione nel mondo, e non dei capricci.
In questo senso, le fasi di chiusura e di ripiegamento su se stesso potrebbero essere considerate come momenti di riflessione ed elaborazione di pensieri, di fantasie e di idee che andranno poi a confluire nella formazione degli ideali e dei principi che guideranno, almeno in parte, la propria vita. È noto, d'altronde, come l’adolescenza sia un periodo della vita nel quale molto intensa è la tendenza a fantasticare, ad idealizzare, a formulare grandi idee con la convinzione di combattere sempre nuove ed epiche battaglie contro tutto ciò che viene sentito profondamente ingiusto nel mondo. È molto importante che l’adolescente abbia delle opportunità per comunicare queste sue idee agli altri, all’esterno, altrimenti si rischia che questo ripiegamento, piuttosto che costituire un momento di riflessione e di elaborazione creativa, diventi una sterile e asfittica chiusura su se stessi.
L’avvento delle nuove tecnologie
Nella società odierna l’avvento delle cosiddette nuove tecnologie (internet, smartphone, videogiochi, ecc.) sembrerebbe aver apportato enormi modifiche agli stili di vita degli adolescenti di oggi che, nati a ridosso del 2000, sono tra le prime generazioni ad aver avuto da sempre a che fare con le possibilità messe a disposizione da questi nuovi dispositivi così rapidamente diffusisi. Quando si affronta il tema delle nuove tecnologie molto spesso si cade nella facile tentazione di lasciarsi andare a critiche negative, interpretandole esclusivamente come strumenti distruttivi e forieri di problemi. Le nuove tecnologie aprono delle possibilità, sono degli strumenti e, in quanto tali, non è possibile definire una valenza a priori, indipendentemente dal modo in cui vengono utilizzate.
Penso sia innegabile affermare che questi strumenti tecnologici, effettivamente, facilitino le possibilità di relazione con gli altri e, di fatto, rendono possibile un allargamento dello spazio relazionale delle persone: con facebook, twitter e gli altri ‘social media’ si ha l’opportunità di ampliare il ventaglio delle proprie relazioni. La questione centrale, però, secondo me, è che questo enorme potenziale comunicativo, in alcuni casi, ovverosia con le persone che vivono con una certa difficoltà le relazioni umane, rischia di comportare la convinzione di poter considerare l’altro, invece che come corpo pensante fatto di carne ed ossa, come pura protesi virtuale di se stessi.
Si passa, in questi casi, all’estremo opposto e, da strumenti dalle enormi potenzialità comunicative, i ‘social networks’ rischiano di trasformarsi in strumenti che veicolano solamente una comunicazione virtuale irta di illusioni: l’illusione della condivisione, della vicinanza, della costante presenza dell’altro.
Credo che si debba distinguere: ci saranno adolescenti meglio attrezzati, con un adeguato bagaglio di strumenti affettivi e relazionali che permetteranno loro di riuscire ad usare con cognizione le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, non temendo eccessivamente l’incontro reale con l’altro. In questi casi, allora, le relazioni virtuali andranno solamente ad aggiungersi ad una piattaforma di relazioni costituite perlopiù da rapporti concreti, umani, caldi.
E ci saranno invece coloro, poco attrezzati dal punto di vista relazionale, che rischieranno maggiormente di vedersi assorbire da un utilizzo massiccio degli stessi strumenti tecnologici. Il problema, possiamo pensare, si pone con questi ultimi, meno capaci di organizzare e gestire le proprie relazioni con gli altri e la propria autonomia quotidiana. In questi casi il rischio reale è che, pur di stare in rapporto con gli altri e comunicare (perché questo è, comunque sia, l’obiettivo), si sostituisca alla relazione concreta, vissuta con eccessive tensioni, problematicità e paura, una relazione virtuale che assicuri maggior distanza dall’altro e maggior controllo sulla relazione medesima. Una relazione sentita come più sicura ma, certamente, più piatta e fredda. Ossia, il ritiro dal mondo e dai rapporti concretamente umani viene coperto con un’apparente ricchezza delle relazioni virtuali, provocando questo un reale impoverimento delle esperienze concrete e, alla fine, ritrovandosi a confrontarsi con una condizione di solitudine ancor più profonda. Ci si illude di poter nascondere la sofferenza e l’incertezza che si vivono nel rapporto con gli altri e, alla fine, le si cronicizza.
La questione su cui porre l’attenzione, quindi, non è tanto lo strumento tecnologico (i cui potenziali effetti vanno comunque certamente studiati e approfonditi), bensì la mancanza di competenze emotive ed affettive che rendono estremamente arduo il solo pensare di poter istaurare relazioni con gli altri traendone soddisfacimento, e che possono far deviare verso un uso massiccio delle nuove tecnologie.
Fammi vedere cosa posso fare
La personalità dell’adolescente viene dunque investita di cambiamenti di enorme portata, cambiamenti che però dobbiamo pensare coinvolgano anche la famiglia. Le nuove pretese che il figlio manifesta, in modo più o meno ortodosso, costringono a nuove prese di posizione da parte dei genitori: la pretesa di maggior libertà, di maggior elasticità negli orari di uscita, nella disponibilità economica, ecc., impongono anche ai genitori di rivedere il proprio modo di pensare il figlio e di stare in relazione con lui, dovendo tollerare la sua crescita che significa anche, di riflesso, il proprio invecchiamento. In altre parole, come sosteneva lo psichiatra e psicoanalista argentino Armando Bauleo, il processo di crescita del preadolescente non dovrebbe considerarsi solamente un fatto individuale, bensì, sviluppandosi la vita di un individuo all’interno di un gruppo familiare (e quest’ultimo inevitabilmente collocandosi all’interno di una specifica organizzazione sociale in un preciso momento storico), sarebbe necessariamente da considerarsi un fatto che riguarda la vita di tutta la famiglia, essa stessa dunque alle prese con il rischio e la sfida dell’adolescenza (Milano F., ibidem).
Dobbiamo pensare, infatti, che in questa fase della vita, sì, i figli, ma anche i genitori sono costantemente alle prese con l’ambivalenza: da una parte l’adolescente, che mostra la sua ambivalenza attraverso la manifestazione di comportamenti che oscillano tra l’incertezza della fase che sta attraversando ed il ritorno all’oramai superata fase infantile; dall’altra i genitori, che si trovano a fare i conti con il passaggio da una condizione nella quale costituivano delle entità onnipotenti (i genitori protettivi e rassicuranti dell’infanzia) ad una’altra nella quale si ritrovano a giocare il ruolo di figure costantemente contestate e giudicate.
Questo è un punto estremamente importante da considerare. Si dà quasi per scontato che l’adolescente si ritrovi giocoforza a dover fare i conti con l’incertezza e con un’apertura delle proprie possibilità, ovverosia a porsi mille domande. È però interessante chiedersi se i genitori del figlio adolescente siano pronti a porsi domande simili, poiché quell’incertezza, dunque, non riguarda soltanto il loro figlio ma, inevitabilmente, coinvolge nella concretezza della vita quotidiana anche loro: si è in grado di accettare questo passaggio e ricoprire il ruolo necessario, sempre mutevole, complementare a quello mobile e incerto giocato dall’adolescente? Ossia, si è in grado di identificarsi con la forza creativa e instabile del figlio per ritrovare dentro di sé quella parte incerta costitutiva della propria adolescenza?
Venerdì, 8 maggio 2015
Bibliografia:
Bernardini J., “Adulti di carta. La rappresentazione sociale dell’età adulta sulla stampa”, Franco Angeli, Milano, 2013
Casoni A., “L’adolescenza liquida. Una riflessione e revisione del concetto”, in Casoni A. (a cura di), “Adolescenza liquida”, EDUP, Roma, 2008
Freud S., (1905), “Tre saggi sulla teoria sessuale”, in “Opere, vol. 4”, Bollati Boringhieri, Torino, 1998
Milano F., “L’adolescenza: una sindrome normale”, in Buongiorno L. (a cura di), “Scuola e prevenzione. Un’esperienza psicopedagogica”, Pitagora Editrice, Bologna, 1996
Note:
[1] Georges Lapassade, un filosofo e sociologo francese scomparso nel 2008, nel 1963 scrisse il suo primo libro, “L’entree dans la vie” (tradotto in italiano e pubblicato nel 1971 da Guaraldi con il titolo “Il mito dell’adulto”), nel quale metteva in discussione quest’idea dell’adultità per cui sembrerebbe che l’adolescenza sia l’età dei dubbi e delle incertezze, mentre una volta risolte queste indecisioni proprie dell’età giovanile si entrerebbe nell’età adulta dove ci si trova a vivere uno stato di completezza, avendo risolto le proprie questioni ed avendo trovato la propria definitiva strada. Lapassade in quel testo sosteneva che questa idea fosse, appunto, un mito, ritenendo invece l’uomo come un essere sempre incompleto che non smette mai di interrogarsi e, anzi, che è proprio a cagione di questo stato permanente di incompletezza che gli è possibile muoversi, ricercare, crescere.
[2] “L’esistenza di una dinamica descrivibile in termini di disagio, le cui modalità espressive appartengono all’adolescenza/giovinezza, sembra indubitabile. È possibile rilevare, persino come dato transculturale, che per i giovani il disagio - vissuto come momento di eroismo, trasgressione, atto di sfida e di ribellione alla conformità, visto come rischio voluto e con misurata incoscienza - entra, in un certo senso, a far parte addirittura del mito e proprio come tale è celebrato ed esaltato da tanta produzione artistica (letteratura, cinema) soprattutto per i maschi. Nell’età adolescente, il dinamismo del disagio dev’essere considerato quasi parte integrante del percorso di emancipazione e di autonomia dalla famiglia d’origine, una sorta di scotto inevitabile per affrancarsi dalla dipendenza o per contrastare provocatoriamente chi la incarna o la rappresenta. In queste forme il disagio si presenta di non facile lettura, a causa della sua ambiguità. Come ogni trasgressione, esso esprime infatti, in modo esaltato ed esagerato, il desiderio/bisogno di sfidare la tradizione o di contrapporsi all’ordine costituito, non disgiunto però da quello, altrettanto intenso, di appartenervi, di esserne accolto e integrato. Questo spiega il perché, molto spesso, il disagio ricalchi, nelle sue manifestazioni più estreme, proprio i modelli a cui si contrappone e che intende distruggere o superare” (Comitato Nazionale di Bioetica, 1999).
[3] Jacopo Bernardini, nel suo “Adulti di carta. La rappresentazione sociale dell’età adulta sulla stampa” (2013) scrive: “È un fatto ormai appurato che, negli ultimi 150 anni, l’inizio della pubertà femminile è andato anticipandosi di circa 3-4 mesi per decennio. Infatti se nel 1900 le prime mestruazioni avvenivano intorno ai 14 anni, oggi la media è sotto ai dodici.”
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