ARTICOLI TRADOTTI
IL VERO PENSIERO DI PICHÓN È REPRESSO
di Alfredo Moffat
Enrique Pichón Rivière era un trasgressore, spontaneo, paradossale, segnalava le assurdità, rompeva i clichés, includeva l’elemento drammatico nelle sue analisi della realtà. Al contrario, il pensiero che circola oggi di Pichón, è un Pichón formale, di frasi ortodosse, con clichés ragionevoli, rassicuranti, il suo pensiero ha perso l’elemento sconcertante, quello che apre una prospettiva nuova, quella tematica drammatica che estraeva da ciò che stava accadendo e ci angosciava in quel momento.
Prendendo questo come un fatto, diciamo: per qualcosa sarà. Pichón era lo scandalo, era colui che contraddiceva tutti, come nel racconto dell’imperatore e del suo meraviglioso vestito invisibile che non era visto da coloro che erano bastardi. Pichón dava un calcio alla tavola da gioco e diceva: "L'imperatore è nudo" (sicuro avrebbe detto "nelle palle"). In questa epoca tutti vedono il vestito invisibile, ma lo descrivono anche con le stesse parole, tutti vedono gli stessi disegni nel vestito, per non rimanere esclusi dal festival dell’inganno.
Questo momento storico aveva bisogno di reprimere il Pichón-Heavy (pesante) e sostituirlo con un Pichón-Light (leggero). Perché Enrique era come il Fernet (che anche prendeva), al quale bisogna aggiungere la soda perché è molto forte, ma se noi aggiungiamo la soda non è più Fernet (è come una Coca Cola).
Siamo troppo spaventati in questa crisi che destruttura la realtà, non ci conviene guardare gli abissi, il profondo dell’esistenza, specialmente il tema della morte (paradigma di ciò che è negato nel post-modernismo), tema che, elaborandolo, realizza il vero significato dell’esser vivo.
Forse in questo momento sociale è realmente funzionale (sintomaticamente) reprimere ogni pensiero svelatore e, pertanto, sconcertante. Forse nel vederci affondati fino al collo in questo mare di bugie, ingiustizia, violenza e corruzione, siamo tentati di dire la storica frase… “non fate l’onda” e, pertanto, avrebbe una pia giustificazione convertire il pensiero di Enrique in una pappetta light post-moderna. Ma occhio, una cosa è coprire qualcosa durante la tormenta e un'altra è negare che neghiamo (i lacaniani direbbero ‘forcludere’).
Dobbiamo renderci conto che lo reprimiamo, possiamo darci una tregua e giocare alle parole inoffensive, per negare ciò che ci circonda, ma dobbiamo ricordare che siamo in “stand-by”, che ci fa paura agitare il profondo perché c’è una tormenta. Pensare paradossalmente (Enrique diceva spesso: che... qué “parajoda”…) sfidare l’accettato, le verità tranquillizzanti, sarebbe in questo momento di oscurità culturale, come “cambiare cavallo alla metà del fiume”, non conviene. Forse il consiglio del generale Perón “svuotare fino a quando non è chiaro”.
L’uso del pensiero accademico, rassicurante, formato da frasi clichés, è utile. Ogni cultura sviluppa le verità ortodosse, con spiegazioni e frasi già fatte, è necessario solo sceglierle per fare una lezione o un articolo su qualsiasi tema (senza partire dalla temuta realtà). Ogni schema stabilizzatore permette di controllare il continuo cambiamento del mondo reale, il carattere caotico del divenire, ma impoverisce la verità. Ma non conviene neppure esagerare la stabilità del pensiero, poiché ricordiamo che la vita è fondamentalmente trasformazione.
La creazione porta allo sconcerto e Pichón era sconcertante, inaspettato, con un umorismo ironico e tenero che faceva vacillare le nostre sicurezze. Ma in questo momento di scomposizione sociale, l’assurdo, il paradossale, è istituito come la norma. Questo che stiamo vivendo, soffrendo, è un paradosso sinistro, non chiarificatore; il corrotto dice che bisogna combattere la corruzione, i poliziotti rubano, la vittima è colpevole e colui che denuncia questo è un delinquente. Ciò che avviene è definito dal potere come il contrario (“la povertà è diminuita”, “garantiamo la pace”, e vendiamo armi); di modo che sono i messaggi schizofrenici (descritti dai sistemici) perché è un paradosso che viene negato, non come quello di Pichón che mostrava la contraddizione e il paradosso serviva per il chiarimento. Pichón accentuava l’assurdo, così che l’assurdo venisse svelato e, dopo, si potesse risolvere. Inoltre gli piaceva lo scandalo, aveva qualcosa del folletto burlone, il suo umorismo era incantatore. Il suo pensiero era estetico, aveva radici nel movimento surrealista che scompigliò l’arte accademica dell’epoca.
Pichón era molesto per il potere, perciò lo cacciarono dal manicomio e dalla stessa APA (Associazione Psicoanalitica Argentina) che lui aveva fondato, quando li chiamò “sfruttatori dell’angoscia”.
Pichón ti apriva la testa, in realtà te la “faceva a pezzi”, cosicché, dopo, tu potevi comporre il tuo puzzle con una nuova figura. Ti parlava del drammatico nel senso di piangere e ridere, il drammatico come il compromesso con la vita. Era molto seduttore quando faceva lezione, era impossibile annoiarsi. Faceva riferimento al qui e ora che stava accadendo, e usava da un linguaggio sofisticato fino al dialetto più lurido.
Sentivi che con la scienza che ti spiegava, capivi la tua vita.
Era dispettoso (Winnicottiano), proponeva il gioco come modo di apprendimento. Sembrava viaggiare per le epoche, a volte aveva la sua età, e altre volte sembrava avere sei anni e si permetteva degli scherzetti; a volte aveva ottantasei anni e parlava della morte.
Maneggiava la spontaneità in tutto gli ordini, faceva sorprese. Tutto questo attraverso un impeccabile e rigorosissimo metodo scientifico e un’analisi svelatrice della realtà. Univa la scienza e l’arte, era il Pichón ragionevole, terapeuta organizzatore del caos.
Molto studioso, profondo ricercatore, leggeva e conosceva tutte le correnti. La sua casa era un caos di libri. Aveva interesse per tutto, pittura, ecologia, cibernetica, il pensiero filosofico. Aveva una grande cultura letteraria ed artistica, di una formazione universale come ne ho conosciuto pochi. Poteva anche esser un finissimo professore di francese (Ginevrino), uno squisito psicoanalista e, allo stesso tempo, poteva sentirsi a proprio agio con un gruppo di barboni in una cantina pezzente. Conteneva tutto l’umano. Dopo la sua morte ho sentito che, per quanto mi riguarda, non avevo più maestri. Nella sua relazione con me è presente quello stile amoroso-ironico-burlone; ricordo che mi diceva, “voi siete li mio figlio putativo” (e mi lasciava a pensare sui vantaggi della “putatività materna”).
Per concludere questo articolo (certamente polemico), diremo che in questa epoca di sconcerto e di confusione accettiamo, senza colpa, di usare un Pichón‑light. L’altro è represso, come altre cose, come la solidarietà, l’etica ed il sentimento di giustizia sociale, ma ricordiamoci che esiste l’altro Pichón e che quando questo paese riscopre il suo progetto di destino ed usciamo dal pozzo, abbiamo necessità della psicoterapia, della socioterapia, del pensiero vigoroso, trasgressivo e creativo di Enrique Pichón Rivière.
Enrique Pichón Rivière era un trasgressore, spontaneo, paradossale, segnalava le assurdità, rompeva i clichés, includeva l’elemento drammatico nelle sue analisi della realtà. Al contrario, il pensiero che circola oggi di Pichón, è un Pichón formale, di frasi ortodosse, con clichés ragionevoli, rassicuranti, il suo pensiero ha perso l’elemento sconcertante, quello che apre una prospettiva nuova, quella tematica drammatica che estraeva da ciò che stava accadendo e ci angosciava in quel momento.
Prendendo questo come un fatto, diciamo: per qualcosa sarà. Pichón era lo scandalo, era colui che contraddiceva tutti, come nel racconto dell’imperatore e del suo meraviglioso vestito invisibile che non era visto da coloro che erano bastardi. Pichón dava un calcio alla tavola da gioco e diceva: "L'imperatore è nudo" (sicuro avrebbe detto "nelle palle"). In questa epoca tutti vedono il vestito invisibile, ma lo descrivono anche con le stesse parole, tutti vedono gli stessi disegni nel vestito, per non rimanere esclusi dal festival dell’inganno.
Questo momento storico aveva bisogno di reprimere il Pichón-Heavy (pesante) e sostituirlo con un Pichón-Light (leggero). Perché Enrique era come il Fernet (che anche prendeva), al quale bisogna aggiungere la soda perché è molto forte, ma se noi aggiungiamo la soda non è più Fernet (è come una Coca Cola).
Siamo troppo spaventati in questa crisi che destruttura la realtà, non ci conviene guardare gli abissi, il profondo dell’esistenza, specialmente il tema della morte (paradigma di ciò che è negato nel post-modernismo), tema che, elaborandolo, realizza il vero significato dell’esser vivo.
Forse in questo momento sociale è realmente funzionale (sintomaticamente) reprimere ogni pensiero svelatore e, pertanto, sconcertante. Forse nel vederci affondati fino al collo in questo mare di bugie, ingiustizia, violenza e corruzione, siamo tentati di dire la storica frase… “non fate l’onda” e, pertanto, avrebbe una pia giustificazione convertire il pensiero di Enrique in una pappetta light post-moderna. Ma occhio, una cosa è coprire qualcosa durante la tormenta e un'altra è negare che neghiamo (i lacaniani direbbero ‘forcludere’).
Dobbiamo renderci conto che lo reprimiamo, possiamo darci una tregua e giocare alle parole inoffensive, per negare ciò che ci circonda, ma dobbiamo ricordare che siamo in “stand-by”, che ci fa paura agitare il profondo perché c’è una tormenta. Pensare paradossalmente (Enrique diceva spesso: che... qué “parajoda”…) sfidare l’accettato, le verità tranquillizzanti, sarebbe in questo momento di oscurità culturale, come “cambiare cavallo alla metà del fiume”, non conviene. Forse il consiglio del generale Perón “svuotare fino a quando non è chiaro”.
L’uso del pensiero accademico, rassicurante, formato da frasi clichés, è utile. Ogni cultura sviluppa le verità ortodosse, con spiegazioni e frasi già fatte, è necessario solo sceglierle per fare una lezione o un articolo su qualsiasi tema (senza partire dalla temuta realtà). Ogni schema stabilizzatore permette di controllare il continuo cambiamento del mondo reale, il carattere caotico del divenire, ma impoverisce la verità. Ma non conviene neppure esagerare la stabilità del pensiero, poiché ricordiamo che la vita è fondamentalmente trasformazione.
La creazione porta allo sconcerto e Pichón era sconcertante, inaspettato, con un umorismo ironico e tenero che faceva vacillare le nostre sicurezze. Ma in questo momento di scomposizione sociale, l’assurdo, il paradossale, è istituito come la norma. Questo che stiamo vivendo, soffrendo, è un paradosso sinistro, non chiarificatore; il corrotto dice che bisogna combattere la corruzione, i poliziotti rubano, la vittima è colpevole e colui che denuncia questo è un delinquente. Ciò che avviene è definito dal potere come il contrario (“la povertà è diminuita”, “garantiamo la pace”, e vendiamo armi); di modo che sono i messaggi schizofrenici (descritti dai sistemici) perché è un paradosso che viene negato, non come quello di Pichón che mostrava la contraddizione e il paradosso serviva per il chiarimento. Pichón accentuava l’assurdo, così che l’assurdo venisse svelato e, dopo, si potesse risolvere. Inoltre gli piaceva lo scandalo, aveva qualcosa del folletto burlone, il suo umorismo era incantatore. Il suo pensiero era estetico, aveva radici nel movimento surrealista che scompigliò l’arte accademica dell’epoca.
Pichón era molesto per il potere, perciò lo cacciarono dal manicomio e dalla stessa APA (Associazione Psicoanalitica Argentina) che lui aveva fondato, quando li chiamò “sfruttatori dell’angoscia”.
Pichón ti apriva la testa, in realtà te la “faceva a pezzi”, cosicché, dopo, tu potevi comporre il tuo puzzle con una nuova figura. Ti parlava del drammatico nel senso di piangere e ridere, il drammatico come il compromesso con la vita. Era molto seduttore quando faceva lezione, era impossibile annoiarsi. Faceva riferimento al qui e ora che stava accadendo, e usava da un linguaggio sofisticato fino al dialetto più lurido.
Sentivi che con la scienza che ti spiegava, capivi la tua vita.
Era dispettoso (Winnicottiano), proponeva il gioco come modo di apprendimento. Sembrava viaggiare per le epoche, a volte aveva la sua età, e altre volte sembrava avere sei anni e si permetteva degli scherzetti; a volte aveva ottantasei anni e parlava della morte.
Maneggiava la spontaneità in tutto gli ordini, faceva sorprese. Tutto questo attraverso un impeccabile e rigorosissimo metodo scientifico e un’analisi svelatrice della realtà. Univa la scienza e l’arte, era il Pichón ragionevole, terapeuta organizzatore del caos.
Molto studioso, profondo ricercatore, leggeva e conosceva tutte le correnti. La sua casa era un caos di libri. Aveva interesse per tutto, pittura, ecologia, cibernetica, il pensiero filosofico. Aveva una grande cultura letteraria ed artistica, di una formazione universale come ne ho conosciuto pochi. Poteva anche esser un finissimo professore di francese (Ginevrino), uno squisito psicoanalista e, allo stesso tempo, poteva sentirsi a proprio agio con un gruppo di barboni in una cantina pezzente. Conteneva tutto l’umano. Dopo la sua morte ho sentito che, per quanto mi riguarda, non avevo più maestri. Nella sua relazione con me è presente quello stile amoroso-ironico-burlone; ricordo che mi diceva, “voi siete li mio figlio putativo” (e mi lasciava a pensare sui vantaggi della “putatività materna”).
Per concludere questo articolo (certamente polemico), diremo che in questa epoca di sconcerto e di confusione accettiamo, senza colpa, di usare un Pichón‑light. L’altro è represso, come altre cose, come la solidarietà, l’etica ed il sentimento di giustizia sociale, ma ricordiamoci che esiste l’altro Pichón e che quando questo paese riscopre il suo progetto di destino ed usciamo dal pozzo, abbiamo necessità della psicoterapia, della socioterapia, del pensiero vigoroso, trasgressivo e creativo di Enrique Pichón Rivière.
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