SCRITTI
LA FORZA DEL PASSATO NELLA TEORIA DI JOSE' BLEGER
di Lorenzo Sartini
Il punto di partenza: il non-Io, ovvero la valigia psicotica
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Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, dall’orlo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno, a cercare fratelli che non sono più. (Poesie Mondane – 10 giugno 1962, Pier Paolo Pasolini) |
Josè Bleger, all’inizio del suo scritto “Psicoanalisi dell’inquadramento psicoanalitico”, sostiene che la situazione psicoanalitica sia da intendersi come la “totalità dei fenomeni compresi nella relazione terapeutica tra analista e paziente”. Afferma poi che questa situazione consta di un processo, ossia di ciò che avviene all’interno di questa relazione, e di un non-processo, ossia l’inquadramento (o setting), determinato da alcune costanti (tempo, spazio, ruolo e compito) nel cui ambito si dipana il processo medesimo (l’utente che pone la domanda e l’analista che la ascolta e la analizza).
Successivamente viene dichiarata la similitudine tra l’istituzione e l’inquadramento poiché “Un rapporto che dura per anni, e viene mantenuto in base a un insieme di norme e di attitudini altro non è, per la sua stessa definizione, che un’istituzione. L’inquadramento è dunque un’istituzione nel cui ambito si verificano dei fenomeni che chiamiamo comportamenti”. E di seguito si spinge oltre, sino a sostenere un legame, forte e duraturo, tra istituzione ed individuo: “... ogni istituzione è una parte della personalità dell’individuo e una parte tanto importante che l’identità è sempre – parzialmente o totalmente – un’identità di gruppo o istituzionale; ciò significa che almeno una parte dell’identità si struttura sempre mediante l’appartenenza a un gruppo, a un’istituzione, a un’ideologia, a un partito, ecc”.
Di tutto ciò il soggetto difficilmente riesce a rendersi conto poiché nel setting, e quindi nell’istituzione, egli proietta il suo mondo fantasma, cioè quel modo di vedere e di vivere le cose che lo hanno accompagnato sin dai primissimi momenti della sua vita. Si tratta di un mondo che per il soggetto è sconosciuto, dato che “Ciò che esiste nella percezione del soggetto è ciò che, come l’esperienza gli ha insegnato, può venirgli a mancare. Invece, le relazioni stabili o immobilizzate (le non-assenze) sono quelle che organizzano e mantengono il non-Io e formano la base per la strutturazione dell’Io in funzione delle esperienze frustranti e gratificanti. Il fatto che non si percepisca il non-Io non significa che questo non esista per l’organizzazione della personalità. Non si ha conoscenza di qualcosa se non nell’assenza di questo qualcosa, fino a che non viene organizzato come oggetto interno”. Ciascuno dà per scontato una parte di realtà che lo circonda perché quella realtà è sempre esistita per lui, non è mai venuta meno: non gli è mai venuta a mancare.
Il Nucleo Agglutinato e la Posizione Glischro-Carica
Successivamente viene dichiarata la similitudine tra l’istituzione e l’inquadramento poiché “Un rapporto che dura per anni, e viene mantenuto in base a un insieme di norme e di attitudini altro non è, per la sua stessa definizione, che un’istituzione. L’inquadramento è dunque un’istituzione nel cui ambito si verificano dei fenomeni che chiamiamo comportamenti”. E di seguito si spinge oltre, sino a sostenere un legame, forte e duraturo, tra istituzione ed individuo: “... ogni istituzione è una parte della personalità dell’individuo e una parte tanto importante che l’identità è sempre – parzialmente o totalmente – un’identità di gruppo o istituzionale; ciò significa che almeno una parte dell’identità si struttura sempre mediante l’appartenenza a un gruppo, a un’istituzione, a un’ideologia, a un partito, ecc”.
Di tutto ciò il soggetto difficilmente riesce a rendersi conto poiché nel setting, e quindi nell’istituzione, egli proietta il suo mondo fantasma, cioè quel modo di vedere e di vivere le cose che lo hanno accompagnato sin dai primissimi momenti della sua vita. Si tratta di un mondo che per il soggetto è sconosciuto, dato che “Ciò che esiste nella percezione del soggetto è ciò che, come l’esperienza gli ha insegnato, può venirgli a mancare. Invece, le relazioni stabili o immobilizzate (le non-assenze) sono quelle che organizzano e mantengono il non-Io e formano la base per la strutturazione dell’Io in funzione delle esperienze frustranti e gratificanti. Il fatto che non si percepisca il non-Io non significa che questo non esista per l’organizzazione della personalità. Non si ha conoscenza di qualcosa se non nell’assenza di questo qualcosa, fino a che non viene organizzato come oggetto interno”. Ciascuno dà per scontato una parte di realtà che lo circonda perché quella realtà è sempre esistita per lui, non è mai venuta meno: non gli è mai venuta a mancare.
Il Nucleo Agglutinato e la Posizione Glischro-Carica
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Ritorno in casa pensando che in fondo è vero, quello che siamo veramente non lo sa nessuno, perché lo nascondiamo, e se non lo nascondiamo apposta lo nascondiamo d’istinto. Una volta una mia amica è rimasta scioccata perché ha saputo all’improvviso, dopo cinque anni di matrimonio, che suo marito era allergico al pollo. D’accordo, una spiegazione c’era, dato che vivevano sopra al ristorante dei genitori di lei e andavano quasi sempre a cena lì, dove lui si limitava a non ordinare pollo, mentre nelle poche occasioni in cui avevano mangiato a casa, fino a quel giorno, semplicemente non era mai capitato che lei cucinasse il pollo; quella volta è capitato, e allora lui le ha detto di essere allergico al pollo. [...] ...ma intanto, diversamente da prima, ora si ritrova a prestare una certa attenzione a tutto ciò che suo marito non fa, a quello che non ordina al bar e che non legge prima di addormentarsi: e non è che sia una cosa tanto naturale.
(La forza del passato, Sandro Veronesi) |
L’Io di cui parla Bleger corrisponde alle parti nevrotiche del soggetto, che si sviluppano a partire dalla parte psicotica della personalità, da quell’indifferenziazione primitiva con il non-Io che l’analista argentino definisce nucleo agglutinato. Il nucleo agglutinato (1) si forma nei primissimi momenti dello sviluppo, mediante le identificazioni primarie del soggetto, e consiste in un “concentrato di esperienze frustranti e gratificanti vissute dal lattante con diversi gradi di intensità e in diversi momenti nella prima parte della sua vita, in tutte le fasi dello sviluppo (orale, anale, genitale); sono esperienze caratterizzate da una mancanza di stratificazione e sequenza fra le une e le altre, che coinvolgono svariatissimi aspetti della realtà esterna e un piccolo nucleo dell’io, che forma però un tutto agglutinato, non differenziato, né discriminato” (Bleger, 1967 [1992], p. 122). Questo nucleo agglutinato, che è presente in ogni soggetto, costituisce la parte psicotica della personalità che rimarrà sempre presente, in gradi diversi, in ciascun individuo. È dalla consistenza di questa parte che derivano i disturbi legati alla sfera soggettiva quali mancanza di personificazione, del senso di identità, del senso di realtà e dello schema corporeo.
La persistenza del nucleo agglutinato deriva dal legame che questa formazione ha con le esperienze vissute da ciascun soggetto: esperienze non adeguatamente discriminate e causa, perciò, di una costante situazione di ambiguità: “una parte non discriminata della personalità geneticamente legata a tutte le esperienze ambigue che non hanno dato luogo a modelli definiti nell’organizzazione della personalità, dal momento che non è avvenuta la fondamentale discriminazione ai livelli più profondi della situazione edipica (fra gli oggetti padre-madre e lo stesso Io del paziente)” (id., p. 157). Una struttura mentale particolare ed arcaica dove non ci sono confini, non ci sono limiti tra il mondo interno ed il mondo esterno e dove persiste una primitiva organizzazione fusionale; l’Io e la realtà esterna sembrano un tutt’uno, un unico pensiero ed un’unica realtà ed è questa mancanza di discriminazione, o clivaggio, che permette a Bleger di utilizzare il termine “psicotico” per definire una delle due parti in cui divide, almeno concettualmente, la personalità umana.
Il nucleo agglutinato, dunque, è una formazione primitiva indiscriminata che il soggetto tende a mantenere in una situazione di immobilizzazione; una sua mobilizzazione, infatti, che, seppure in maniera episodica, coinvolgerebbe massicciamente la struttura agglutinata, procurerebbe ansie così forti ed intense che il soggetto vivrebbe come catastrofiche; e per evitare il verificarsi di questa situazione utilizza difese molto primitive quali la dissociazione, la proiezione e l’immobilizzazione.
“Questo nucleo agglutinato, che costituisce nell’adulto la parte psicotica della personalità, altro non sarebbe che un residuo dell’organizzazione più primitiva della personalità, geneticamente anteriore alla posizione schizoparanoide, che ho denominato posizione glischro-carica” (id., p. 128).
Si rende necessario, arrivati a questo punto, fare un salto indietro, un salto nel passato, la cui forza si fa sentire nello psicoanalista argentino attraverso il riferimento al pensiero ed alla teoria di Melanie Klein. La psicoanalista inglese, attraverso i suoi studi, allargò la nozione di oggetto interno, superando il limitato riferimento al Super-Io che ne faceva la teoria classica freudiana, ossia l’interiorizzazione delle figure genitoriali con la risoluzione della crisi edipica. Se è vero che nel soggetto coesistono, sin dalle fasi più precoci dell’esistenza, le pulsioni di vita e di morte che vengono proiettate su uno stesso oggetto, questa situazione di ambivalenza crea ansia nel bambino che, per proteggersi, attraverso il meccanismo della scissione, divide l’oggetto in due parti: l’oggetto “buono”, quello gratificante e rassicurante, e l’oggetto “cattivo”, quello frustrante e persecutorio. Il primo oggetto che viene scisso è il seno, considerato “buono” quando nutre e “cattivo” quando si allontana e non soddisfa il desiderio dell’infante. In questa fase, che corrisponde all’incirca ai primi tre o quattro mesi del primo anno di vita e che la Klein denomina posizione schizoparanoide, il bambino tenta di fuggire gli oggetti cattivi cercando di tenerli quanto più possibile separati dal sé e dai propri oggetti buoni (schizo), provando angoscia per il timore di poter essere distrutto dall’oggetto esterno cattivo (paranoide): la Klein si riferisce ai sentimenti sperimentati dal bambino che si trova a vivere questa fase della vita parlando di angoscia paranoide. Il bambino, oltre al meccanismo della scissione dell’oggetto, usa il diniego (rispetto alla realtà frustrante dell’oggetto) ed il controllo onnipotente (dell’oggetto stesso) per difendersi da questa realtà angosciante. Nella seconda parte del primo anno di vita, all’incirca dal quarto mese in poi, il bambino comincia ad essere in grado di integrare le percezioni relative agli oggetti precedentemente scissi in buoni e cattivi; comprende che la madre buona, quella che lo gratifica accudendolo e dandogli il seno quando lui ha fame, e quella cattiva, che può anche allontanarsi e non rendergli il seno sempre disponibile, sono uno stesso oggetto. Non si parla più ora soltanto di oggetto “parziale” (il seno, il pene, le feci,... ), ma c’è anche la costituzione dell’oggetto “totale” (la madre, il padre,... ). Il bambino prova paura ed angoscia per il destino dell’oggetto intero, totale, che se da una parte è il destinatario dei suoi sentimenti buoni, dall’altro è odiato e “fantasticamente” distrutto perché ansiogeno e frustrante. Questa fase è chiamata posizione depressiva ed il bambino prova un’ ansia depressiva, ovvero ha timore che gli altri, gli oggetti esterni amati, che in questa fase percepisce come più vicini ai propri oggetti interni, possano venire distrutti dalle sue fantasie malvagie, nate sull’onda dell’aggressività provata verso l’oggetto frustrante. In questo periodo il bambino cerca di far fronte alle sue fantasie distruttrici e sadiche mediante il meccanismo della riparazione: provando angoscia e colpevolezza per aver fantasticato di distruggere l’oggetto amato, il bambino tenta di ripristinare l’integrità del corpo materno annullando, nello stesso momento, tutto il male che gli è stato procurato. Questo processo permetterebbe al bambino di aver a che fare con un oggetto pienamente buono, la cui introiezione avrebbe un valore di rafforzamento per lo sviluppo del suo Io permettendogli di superare la posizione depressiva.
Bleger parte, dunque, anche da qui, dal riferimento alle due posizioni, quella schizoparanoide e quella depressiva, postulate dalla Klein, e, con l’ipotesi del nucleo agglutinato, sostiene l’esistenza di una posizione precedente a queste; una posizione “caratterizzata da una relazione con l’oggetto agglutinato, da ansie catastrofiche, da difese come la scissione, la proiezione e l’immobilizzazione, che funzionano massivamente, con intensità e violenza estreme” (id., p. 88). La posizione glischro-carica, appunto.
L’evoluzione del soggetto, e quindi il passaggio dalla posizione glischro-carica a quella schizoparanoide e, di seguito, a quella depressiva, si ha attraverso la frammentazione e la successiva discriminazione tra gli elementi che costituiscono il nucleo agglutinato (2). Questo processo di scissione (Bion parlerebbe di splitting) tra gli elementi del nucleo agglutinato avviene sin dall’inizio della vita del soggetto mediante due vie possibili: la diversificazione delle relazioni oggettuali, quindi lo stabilire contatti ed i relativi e specifici affetti con differenti persone, che condurrebbe alla frammentazione della relazione massiva con un unico oggetto; la diversificazione delle modalità di relazione con uno stesso oggetto. È così che la parte psicotica della personalità si trasforma in parte nevrotica, ossia che i livelli psicotici di cui è formato il nucleo agglutinato, vengono frammentati e separati per poter, successivamente, essere elaborati e re-integrati al fine di venire convertiti in parti nevrotiche costitutive della personalità cosciente.
Bleger afferma che proprio questo è il risultato che la tecnica psicoanalitica si deve proporre di raggiungere. E lo può fare attraverso due obiettivi sommari: “rendendo conscio l’inconscio”, cioè re-introiettando ciò che è stato proiettato su altre persone, divenendo consapevoli delle parti psicotiche della personalità, e stabilendo, quindi, la divisione schizoide; e “integrando le dissociazioni”, ovvero trasformando lo stato fusionale dei livelli psicotici (del nucleo agglutinato) in contraddizione, facendo sì che l’ambiguità divenga un conflitto tra parti discriminate, nevrotiche, e che possano dunque essere elaborate, risolte ed integrate con l’Io più maturo del soggetto. In sintesi, l’obiettivo fondamentale è la mobilizzazione del nucleo agglutinato, ovvero la ripresa del processo di proiezione-introiezione: ciò che viene proiettato sugli altri, la parte psicotica deve essere re-introiettata per essere re-integrata con la parte nevrotica della personalità, determinando un’evoluzione della parte psicotica medesima e, in conclusione, un arricchimento della personalità stessa.
Di converso però, è anche possibile che avvenga una regressione della parte nevrotica del soggetto dalla posizione schizoparanoide verso quella glischro-carica. Questo arretramento che potrebbe avvenire (in situazioni particolari quali l’innamoramento o durante l’adolescenza, per esempio...) a causa della perdita di discriminazione tra oggetto buono e oggetto cattivo, tra Io e non-Io, e quindi per il concentrarsi su un unico depositario delle proprie parti indifferenziate, comporterebbe allora un’espansione del nucleo agglutinato.
Bleger nota che questo primitivo impianto indifferenziato, sebbene costituito da parti così diverse e difformi tra di esse (Io e non-Io, mondo interno e mondo esterno), non è contraddistinto da uno stato di confusione, dato che non c’è ancora stata una discriminazione tra le varie parti e, quindi, non si è ancora avuta la possibilità di uno stato conflittuale tra di esse. Lo stato di confusione potrebbe insorgere qualora, in seguito ad una rottura del legame simbiotico con un depositario, avvenisse la mobilizzazione del nucleo agglutinato e il conseguente riversamento nell’Io, con l’effetto (almeno tale percepito dall’Io del soggetto) del totale annientamento della coscienza e dell’Io medesimo. A questo proposito potrebbe essere utile riprendere il riferimento alla Klein. Se essa parlava di ansia paranoide e di ansia depressiva riferendosi agli stati emotivi del soggetto che si trovasse a fronteggiare situazioni di difficoltà nelle due diverse fasi da essa presupposte, Bleger, riferendosi alla posizione gliscrho-carica, parla di angoscia confusionale: “l’ansia confusionale è un segnale d’allarme di fronte al pericolo di re-introiezione massiccia del nucleo agglutinato e al rischio di disintegrazione psicotica dell’io che ne consegue” (id., p. 136). Anche se il ricorso al termine “confusionale” potrebbe essere considerato inesatto (e fonte di confusione esso stesso) visto che la confusione, come si diceva poc’anzi, potrebbe insorgere laddove fosse avvenuta una discriminazione tra elementi diversi, mentre la posizione glischro-carica è precedente ad ogni discriminazione tra l’Io e l’oggetto e contemporanea alla fusione primitiva.
La Simbiosi, la Dipendenza e il Transfert Psicotico
La persistenza del nucleo agglutinato deriva dal legame che questa formazione ha con le esperienze vissute da ciascun soggetto: esperienze non adeguatamente discriminate e causa, perciò, di una costante situazione di ambiguità: “una parte non discriminata della personalità geneticamente legata a tutte le esperienze ambigue che non hanno dato luogo a modelli definiti nell’organizzazione della personalità, dal momento che non è avvenuta la fondamentale discriminazione ai livelli più profondi della situazione edipica (fra gli oggetti padre-madre e lo stesso Io del paziente)” (id., p. 157). Una struttura mentale particolare ed arcaica dove non ci sono confini, non ci sono limiti tra il mondo interno ed il mondo esterno e dove persiste una primitiva organizzazione fusionale; l’Io e la realtà esterna sembrano un tutt’uno, un unico pensiero ed un’unica realtà ed è questa mancanza di discriminazione, o clivaggio, che permette a Bleger di utilizzare il termine “psicotico” per definire una delle due parti in cui divide, almeno concettualmente, la personalità umana.
Il nucleo agglutinato, dunque, è una formazione primitiva indiscriminata che il soggetto tende a mantenere in una situazione di immobilizzazione; una sua mobilizzazione, infatti, che, seppure in maniera episodica, coinvolgerebbe massicciamente la struttura agglutinata, procurerebbe ansie così forti ed intense che il soggetto vivrebbe come catastrofiche; e per evitare il verificarsi di questa situazione utilizza difese molto primitive quali la dissociazione, la proiezione e l’immobilizzazione.
“Questo nucleo agglutinato, che costituisce nell’adulto la parte psicotica della personalità, altro non sarebbe che un residuo dell’organizzazione più primitiva della personalità, geneticamente anteriore alla posizione schizoparanoide, che ho denominato posizione glischro-carica” (id., p. 128).
Si rende necessario, arrivati a questo punto, fare un salto indietro, un salto nel passato, la cui forza si fa sentire nello psicoanalista argentino attraverso il riferimento al pensiero ed alla teoria di Melanie Klein. La psicoanalista inglese, attraverso i suoi studi, allargò la nozione di oggetto interno, superando il limitato riferimento al Super-Io che ne faceva la teoria classica freudiana, ossia l’interiorizzazione delle figure genitoriali con la risoluzione della crisi edipica. Se è vero che nel soggetto coesistono, sin dalle fasi più precoci dell’esistenza, le pulsioni di vita e di morte che vengono proiettate su uno stesso oggetto, questa situazione di ambivalenza crea ansia nel bambino che, per proteggersi, attraverso il meccanismo della scissione, divide l’oggetto in due parti: l’oggetto “buono”, quello gratificante e rassicurante, e l’oggetto “cattivo”, quello frustrante e persecutorio. Il primo oggetto che viene scisso è il seno, considerato “buono” quando nutre e “cattivo” quando si allontana e non soddisfa il desiderio dell’infante. In questa fase, che corrisponde all’incirca ai primi tre o quattro mesi del primo anno di vita e che la Klein denomina posizione schizoparanoide, il bambino tenta di fuggire gli oggetti cattivi cercando di tenerli quanto più possibile separati dal sé e dai propri oggetti buoni (schizo), provando angoscia per il timore di poter essere distrutto dall’oggetto esterno cattivo (paranoide): la Klein si riferisce ai sentimenti sperimentati dal bambino che si trova a vivere questa fase della vita parlando di angoscia paranoide. Il bambino, oltre al meccanismo della scissione dell’oggetto, usa il diniego (rispetto alla realtà frustrante dell’oggetto) ed il controllo onnipotente (dell’oggetto stesso) per difendersi da questa realtà angosciante. Nella seconda parte del primo anno di vita, all’incirca dal quarto mese in poi, il bambino comincia ad essere in grado di integrare le percezioni relative agli oggetti precedentemente scissi in buoni e cattivi; comprende che la madre buona, quella che lo gratifica accudendolo e dandogli il seno quando lui ha fame, e quella cattiva, che può anche allontanarsi e non rendergli il seno sempre disponibile, sono uno stesso oggetto. Non si parla più ora soltanto di oggetto “parziale” (il seno, il pene, le feci,... ), ma c’è anche la costituzione dell’oggetto “totale” (la madre, il padre,... ). Il bambino prova paura ed angoscia per il destino dell’oggetto intero, totale, che se da una parte è il destinatario dei suoi sentimenti buoni, dall’altro è odiato e “fantasticamente” distrutto perché ansiogeno e frustrante. Questa fase è chiamata posizione depressiva ed il bambino prova un’ ansia depressiva, ovvero ha timore che gli altri, gli oggetti esterni amati, che in questa fase percepisce come più vicini ai propri oggetti interni, possano venire distrutti dalle sue fantasie malvagie, nate sull’onda dell’aggressività provata verso l’oggetto frustrante. In questo periodo il bambino cerca di far fronte alle sue fantasie distruttrici e sadiche mediante il meccanismo della riparazione: provando angoscia e colpevolezza per aver fantasticato di distruggere l’oggetto amato, il bambino tenta di ripristinare l’integrità del corpo materno annullando, nello stesso momento, tutto il male che gli è stato procurato. Questo processo permetterebbe al bambino di aver a che fare con un oggetto pienamente buono, la cui introiezione avrebbe un valore di rafforzamento per lo sviluppo del suo Io permettendogli di superare la posizione depressiva.
Bleger parte, dunque, anche da qui, dal riferimento alle due posizioni, quella schizoparanoide e quella depressiva, postulate dalla Klein, e, con l’ipotesi del nucleo agglutinato, sostiene l’esistenza di una posizione precedente a queste; una posizione “caratterizzata da una relazione con l’oggetto agglutinato, da ansie catastrofiche, da difese come la scissione, la proiezione e l’immobilizzazione, che funzionano massivamente, con intensità e violenza estreme” (id., p. 88). La posizione glischro-carica, appunto.
L’evoluzione del soggetto, e quindi il passaggio dalla posizione glischro-carica a quella schizoparanoide e, di seguito, a quella depressiva, si ha attraverso la frammentazione e la successiva discriminazione tra gli elementi che costituiscono il nucleo agglutinato (2). Questo processo di scissione (Bion parlerebbe di splitting) tra gli elementi del nucleo agglutinato avviene sin dall’inizio della vita del soggetto mediante due vie possibili: la diversificazione delle relazioni oggettuali, quindi lo stabilire contatti ed i relativi e specifici affetti con differenti persone, che condurrebbe alla frammentazione della relazione massiva con un unico oggetto; la diversificazione delle modalità di relazione con uno stesso oggetto. È così che la parte psicotica della personalità si trasforma in parte nevrotica, ossia che i livelli psicotici di cui è formato il nucleo agglutinato, vengono frammentati e separati per poter, successivamente, essere elaborati e re-integrati al fine di venire convertiti in parti nevrotiche costitutive della personalità cosciente.
Bleger afferma che proprio questo è il risultato che la tecnica psicoanalitica si deve proporre di raggiungere. E lo può fare attraverso due obiettivi sommari: “rendendo conscio l’inconscio”, cioè re-introiettando ciò che è stato proiettato su altre persone, divenendo consapevoli delle parti psicotiche della personalità, e stabilendo, quindi, la divisione schizoide; e “integrando le dissociazioni”, ovvero trasformando lo stato fusionale dei livelli psicotici (del nucleo agglutinato) in contraddizione, facendo sì che l’ambiguità divenga un conflitto tra parti discriminate, nevrotiche, e che possano dunque essere elaborate, risolte ed integrate con l’Io più maturo del soggetto. In sintesi, l’obiettivo fondamentale è la mobilizzazione del nucleo agglutinato, ovvero la ripresa del processo di proiezione-introiezione: ciò che viene proiettato sugli altri, la parte psicotica deve essere re-introiettata per essere re-integrata con la parte nevrotica della personalità, determinando un’evoluzione della parte psicotica medesima e, in conclusione, un arricchimento della personalità stessa.
Di converso però, è anche possibile che avvenga una regressione della parte nevrotica del soggetto dalla posizione schizoparanoide verso quella glischro-carica. Questo arretramento che potrebbe avvenire (in situazioni particolari quali l’innamoramento o durante l’adolescenza, per esempio...) a causa della perdita di discriminazione tra oggetto buono e oggetto cattivo, tra Io e non-Io, e quindi per il concentrarsi su un unico depositario delle proprie parti indifferenziate, comporterebbe allora un’espansione del nucleo agglutinato.
Bleger nota che questo primitivo impianto indifferenziato, sebbene costituito da parti così diverse e difformi tra di esse (Io e non-Io, mondo interno e mondo esterno), non è contraddistinto da uno stato di confusione, dato che non c’è ancora stata una discriminazione tra le varie parti e, quindi, non si è ancora avuta la possibilità di uno stato conflittuale tra di esse. Lo stato di confusione potrebbe insorgere qualora, in seguito ad una rottura del legame simbiotico con un depositario, avvenisse la mobilizzazione del nucleo agglutinato e il conseguente riversamento nell’Io, con l’effetto (almeno tale percepito dall’Io del soggetto) del totale annientamento della coscienza e dell’Io medesimo. A questo proposito potrebbe essere utile riprendere il riferimento alla Klein. Se essa parlava di ansia paranoide e di ansia depressiva riferendosi agli stati emotivi del soggetto che si trovasse a fronteggiare situazioni di difficoltà nelle due diverse fasi da essa presupposte, Bleger, riferendosi alla posizione gliscrho-carica, parla di angoscia confusionale: “l’ansia confusionale è un segnale d’allarme di fronte al pericolo di re-introiezione massiccia del nucleo agglutinato e al rischio di disintegrazione psicotica dell’io che ne consegue” (id., p. 136). Anche se il ricorso al termine “confusionale” potrebbe essere considerato inesatto (e fonte di confusione esso stesso) visto che la confusione, come si diceva poc’anzi, potrebbe insorgere laddove fosse avvenuta una discriminazione tra elementi diversi, mentre la posizione glischro-carica è precedente ad ogni discriminazione tra l’Io e l’oggetto e contemporanea alla fusione primitiva.
La Simbiosi, la Dipendenza e il Transfert Psicotico
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“Ciononostante, grazie allo Svedese, il quartiere cominciò a fantasticare su se stesso e sul resto del mondo, così come fantastica il tifoso di ogni paese: quasi come i gentili (come esse immaginavano i gentili), le nostre famiglie poterono dimenticare come andavano realmente le cose e fare di una prestazione atletica il depositario di tutte le loro speranze. In primo luogo, poterono dimenticare la guerra”.
(Pastorale americana, Philip Roth) |
Bleger fa risalire la relazione tra Io e non-Io (che denomina anche parte psicotica della personalità o nucleo agglutinato) al primitivo rapporto simbiotico che legava madre e figlio; quella madre che aveva la funzione di dare significazione, cioè di rendere pensabili (funzione Alpha) gli oggetti indistinti, psicotici (elementi Beta) prodotti dal figlio (3): per dirla con Bion.
Il legame simbiotico tra madre e figlio, grazie al quale il figlio potrà, a poco a poco, riuscire a pensare gli oggetti del suo mondo, non viene completamente risolto ed una parte dell’oggetto-madre continuerà ad essere usato dal soggetto-figlio, anche una volta cresciuto, per appagare e tenere sotto controllo i bisogni delle parti più immature della sua personalità. “Per questo le rimane legata in un rapporto di dipendenza simbiotica. Separarsi da lei significherebbe dover introiettare e dominare dentro di sé tensioni che superano la capacità del suo Io di affrontare ed elaborare tali ansie” (id., p. 67).
Per riferirsi alla formazione del legame simbiotico, che si stabilisce mediante identificazione proiettiva massiva e la conseguente fusione tra depositato e depositario, Bleger si rifà al Teoria del Deposito (o sistema di depositazione) di Enrique Pichon-Rivière, nella quale viene postulata la funzione di una persona, il depositario, sulla quale viene scaricato il deposito (ansie, angosce, problemi, tensioni...) da parte di un’altra persona, il depositante. Questa teoria prende le mosse dalla considerazione che è la famiglia, cioè quella struttura sociale di base all’interno della quale avviene uno scambio relazionale tra soggetti che assumono ruoli diversi (padre, madre, figlio o figlia... ), che può essere intesa come modello naturale della situazione gruppale. Quando si ha a che fare con una situazione patogena all’interno della struttura familiare, continua Pichon-Rivière, non si deve considerare malato un unico soggetto ma l’intera struttura sociale, ovvero il gruppo familiare. Il malato, portavoce della malattia della struttura all’interno della quale è inserito, assume un ruolo, cioè quello di depositario delle ansie e delle tensioni del gruppo familiare. “Il paziente è il depositario che si fa carico di distinti aspetti patologici depositati da ciascuno degli altri membri o depositanti” (Pichon-Rivière, 1985, p.94). Quindi il paziente, membro di quel gruppo, si ammala perché si fa carico della malattia e del disagio del gruppo stesso, preservandolo dalla disgregazione e dall’annientamento. Si tratta di un processo bidirezionale: da una parte c’è il gruppo che delega un suo integrante ad assumere il ruolo di malato, cercando poi di segregarlo, sino ad espellerlo, con la fantasia di eliminare così la malattia della, e dalla, struttura gruppale; e dall’altra c’è il membro che si ammalerà, “decidendo” di assumere quel ruolo, con le rispettive ansie, che gli altri hanno depositato in lui. In questa teoria c’è un ribaltamento del ruolo del paziente (e del luogo comune ad esso connesso) che viene indicato, per le ragioni appena esposte, come il soggetto con una struttura personale più forte rispetto agli altri membri del gruppo, e non come quello più debole. Infatti, è grazie a quest’assunzione del ruolo di malato da parte del paziente (depositario) che il gruppo familiare può preservare un suo equilibrio e continuare ad esistere. Il problema, e quindi lo stereotipo, emerge quando la proiezione degli aspetti patologici degli integranti sul membro designato è eccessiva, e quest’ultimo si viene a trovare nella situazione di non riuscire più ad elaborare il massiccio carico di ansie su di lui depositate dagli altri. A questo punto si ammala.
Bleger si basa su questa teoria, altro portato del suo passato, per riferire della simbiosi e del legame che vincola i vari oggetti in una situazione che si può definire di dipendenza. Nell’inquadramento, così come nell’istituzione o in altri oggetti che fungono da depositari, ciò che viene proiettato sono le ansie psicotiche del soggetto, ossia il vincolo simbiotico. Quando Bleger parla di simbiosi intende una relazione (nello specifico parla di stretta interdipendenza tra due o più persone), vischiosa e indifferenziata, che consente al soggetto di tenere immobilizzato e controllato il nucleo agglutinato. Ciò che viene proiettato nel depositario, non è la parte più matura del soggetto, quella con maggior senso della realtà, che egli utilizzerà per mettersi in relazione con gli altri oggetti con i quali avrà occasione di entrare in contatto nella sua vita quotidiana, bensì, come si diceva innanzi, quella costituita dalle sue parti più arcaiche e psicotiche. Ed anzi, la condotta del soggetto potrà variare molto a seconda se entrerà in relazione con i depositari della sua parte psicotica, con risultati certamente più problematici, o se invece si dovrà confrontare con altri oggetti esterni, rispetto ai quali potrà utilizzare la parte più sana della sua personalità.
Così come avviene rispetto a tutte le istituzioni, anche in quella della famiglia avviene lo stesso processo ed anche qui, ed anzi soprattutto qui, si depositano i propri nuclei psicotici. Di modo che, se non si dovesse riuscire a discriminarsene sufficientemente, non assumendosi la responsabilità della propria condotta e della risoluzione del proprio disagio, si rimarrebbe invischiati in essa, in una situazione di dipendenza. Bleger ci fa notare come non si sia legati alla propria famiglia da un vincolo oggettivo (4), bensì come il legame sia dovuto al fatto di proiettare sui membri della stessa i propri oggetti interni, rendendoli i depositari delle nostre ansie e delle nostre tensioni. È riferendosi a questo processo, che prende avvio attraverso la simbiosi e che attraverso il transfert psicotico si protrae, facendosi scudo e vincolandosi ai depositari, che si arriva a parlare di dipendenza. “Fra la dipendenza totale, che costituisce il punto di partenza, e l’indipendenza o dipendenza matura vi è un periodo molto lungo che può durare tutta la vita, [...], nel quale tratti di dipendenza infantile si mescolano, coesistono e si alternano con tratti di indipendenza matura e di formazione reattiva di fronte alla dipendenza” (Bleger, 1967 [1992], p. 59).
Il vincolo simbiotico viene stabilito da una rigida distribuzione di ruoli; gli oggetti cattivi, folli, moribondi e distruttivi del depositante vengono proiettati sul depositario e questo processo non comporta una condivisione dei ruoli, visto che parlare di condivisione, quindi di scelta consapevole, implica una differenziazione propria di una fase posteriore, quella schizoparanoide. Nella fase precedente non è possibile parlare di consapevolezza e di creatività, ma solamente di rigida e necessaria immobilizzazione. La distribuzione dei ruoli avviene attraverso il linguaggio, ma un linguaggio particolare, che non procede attraverso la sua funzione simbolica, ma che opera “ad un livello regressivo, come fosse un agito e al tempo stesso un fattore che stimola l’agito nell’altro” (id., p. 99). Quindi i ruoli all’interno del vincolo simbiotico sono fissi, però è possibile che gli individui che assumono e danno vita a questi ruoli possano cambiare ed alternarsi.
E se è vero, da un lato, che il rapporto simbiotico con l’oggetto è fonte di sicurezza per l’individuo che riesce così a continuare a vivere, è pur vero che, d’altra parte, è proprio la persistenza di questo tipo di rapporto, mediante la sua immobilizzazione e quindi la disattivazione del processo di proiezione-introiezione, che è fonte della precarietà sia del processo di personificazione e sia del senso di identità del soggetto. Quest’ultimo, anche a costo di forti limitazioni continua a vivere in una realtà esterna che si è modellato “ad hoc”, rinunciando ad esperire nuove possibilità relazionali e nuove, e perciò sconosciute, pratiche di vita. Si parla, dunque, di modalità simbiotica in senso patologico quando questo legame di dipendenza dal depositario non si risolve ed anzi viene rinforzato e reiterato, non permettendo l’evoluzione e l’arricchimento della personalità attraverso il graduale distacco tra le parti in causa.
Il soggetto deve allora, per uscire da questa situazione, cercare di differenziare le esperienze che definiscono la sua relazione simbiotica, ovvero la proiezione su un depositario dei ruoli non discriminati della situazione edipica. Nella fase del complesso edipico il soggetto vede la madre ed il padre uniti, fusi, nel corpo di lei; però il suo rapporto preferenziale è con la sola figura materna. Se il padre non dovesse riuscire concretamente ad inserirsi in questa relazione madre-bambino, il soggetto non sarà capace di differenziare le figure genitoriali e di discriminare esse da se stesso, continuando a viversi come unito al corpo materno. In questo modo non potrà raggiungere la posizione schizoparanoide, non potendo contrapporre i due genitori l’uno all’altro, e non avendo la possibilità di stabilire i due termini antinomici propizi al conflitto. Nonpervenendo a questa posizione conflittuale rispetto alla madre, il bambino si ritroverà a pensarsi quasi come un corpo non discriminato da quello materno: persisterà la fusione madre-bambino.
Bleger utilizza il termine relazione simbiotica proprio per indicare un tale tipo di rapporto, cheinfluenzerà silenziosamente il modo del soggetto di vedere e di affrontare il mondo. Il soggetto si costruisce, aiutato dall’ambiente che lo circonda, una sua realtà, che in seguito, crescendo, diventa abitudine e dà per scontata, per “naturale”, se così si può dire. Questo suo modo di vedere le cose, questa sua ”verità”, verrà automaticamente usata per relazionarsi con il mondo circostante, condizionando il suo sguardo e facendogli perdere, a gradi diversi, il contatto con la realtà che si staglia nel qui ed ora di qualunque relazione.
È a questo proposito che viene usato, come sinonimo di relazione simbiotica, il termine transfert psicotico (o transfert della parte psicotica della personalità), intendendo non una proiezione dei propri oggetti interni su oggetti della realtà esterna, come nel transfert comunemente inteso, bensì un processo caratterizzato dalla mancanza di differenziazione tra il mondo interno ed il mondo esterno, tra il dentro ed il fuori, tra l’Io e l’altro, e dove non ha avuto luogo né la proiezione e né l’introiezione. L’individuo proietta le sue parti psicotiche su depositari esterni in un legame continuo tra sé ed il mondo esterno, che viene visto non per quello che è (se si vuole partire dal presupposto, assolutamente non dato, di poter anelare ad una pura oggettività... ), ma per come il soggetto ha imparato a vederlo: per come lo ha sempre visto e vissuto. Una propria realtà stereotipata, con i propri punti di riferimento fissi e certi; quella con cui ha, da sempre, imparato a con-vivere e che costituisce, in ultimo, la sua Realtà. Questo è ciò che si intende per transfert psicotico: il vedere non ciò che sta fuori, nel mondo esterno, ma ciò che si è sempre veduto intorno a sé; il vedere ciò che è sempre stato presente, anche quando presente non era. Il vincolo simbiotico (e poi, in un secondo momento, mediante lo spostamento di questa relazione vincolare su altri oggetti esterni, il transfert psicotico), non si sente e non si vede, tanto che Bleger definisce “muta”, la simbiosi.
Per provare a definire tale fenomeno viene anche usato il termine sincretismo (5); e quando si indica questo stato riferendosi alle prime fasi della vita si parla di struttura sinciziale. Questa organizzazione, inizialmente totalmente indifferenziata, che consisterebbe nella parte psicotica della personalità, a poco a poco, con la diversificazione dei vincoli con altri oggetti e con la diversificazione delle modalità relazionali rispetto ad uno stesso oggetto, viene frammentata e discriminata (anche se una parte di essa rimarrà sempre così strutturata). Ma affinché ciò possa avvenire, conducendo alla differenziazione della parte nevrotica della personalità, è fondamentale che possa trovare un depositario esterno sicuro e affidabile, all’inizio della vita, dove possa rimanere immobilizzata. Un depositario che possa garantirgli l’instaurazione della relazione simbiotica iniziale dalla quale partire per cominciare a differenziarsi, crescere ed arrivare a costruire una propria identità (6). E quando si parla di depositario ci si può riferire sia all’ambiente esterno circostante e sia alle persone affettivamente significative per il soggetto depositante (7).
Bleger, nel Prologo del libro “Simbiosi e Ambiguità” sostiene, riflettendo sullo stato di indifferenziazione primitiva dell’individuo, che si dovrebbe abbandonare l’idea per cui il fenomeno psicologico sia originariamente mentale, affermando invece che “il fenomeno mentale è una modalità di comportamento, che si manifesta addirittura posteriormente alle altre, e le prime strutture indifferenziate, sincretiche, sono relazioni fondamentalmente corporee” (id., p. 55). Ciò perché considera il vincolo simbiotico essenzialmente come legame tra il corpo del soggetto ed il mondo esterno, cui la funzione mentale, almeno inizialmente, assiste inerme. Per Bleger il bambino non nasce come entità isolata, ma sin dal principio si viene a trovare in questo stato fusionale indifferenziato con il corpo materno attraverso cui esperirà i primi contatti con il mondo esterno: è a partire da questi che egli riuscirà a stabilire le relazioni oggettuali, a differenziarsi dal corpo materno e dal mondo esterno e ad organizzare una propria individualità.
La relazione simbiotica può anche essere intesa come transfert narcisistico, e ciò spinge l’analista argentino a chiamare in causa due fenomeni apparentemente molto diversi ma che si ritrovano strettamente legati tra loro: quello dell’autismo e quello della simbiosi. Il mondo rigido ed impenetrabile dell’autismo e quello ambiguo e mellifluo della simbiosi.
Bleger ha una concezione abbastanza originale del termine autismo; egli si distanzia dagli altri autori, e tende a non considerarlo come un fenomeno caratterizzato da isolamento, introversione e perdita del senso della realtà (almeno non necessariamente), bensì come un fenomeno psichico che non discrimina tra mondo interno e mondo esterno, tra Io e non-Io e che produce, quindi, un’altra organizzazione della realtà, un modo diverso di vedere e vivere la realtà (8).
Egli inizialmente contrappone la simbiosi e l’autismo, però afferma che si debba parlare in entrambi i casi di relazioni oggettuali narcisistiche in cui il soggetto cerca di proteggersi dall’intromissione del mondo esterno con il fine di preservare il principio di piacere. E se nel caso dell’autismo il depositario della propria parte psicotica si trova nel proprio corpo o nella propria mente, nel secondo caso, quello della simbiosi, il depositario si trova nel mondo esterno. Successivamente rettifica questa ipotesi, inserendo nel confronto un nuovo concetto, quello di “schizoidia”. La schizoidia sarebbe un distacco, un distanziamento (clivaggio) che il soggetto, isolandosi nel proprio mondo interiore, produce rispetto al suo rapporto con il mondo esterno e si tratterebbe, in altri termini, di una difesa nei confronti del vincolo simbiotico che lo lega proprio al mondo esterno. Quindi si parla ora di simbiosi contrapposta alla schizoidia, dove l’autismo, ossia la mancanza di discriminazione tra mondo interno e mondo esterno, sarebbe parte comune ad entrambe e sinonimo di relazione narcisistica. E siccome spesso non si riesce a penetrare nel mondo narcisistico dell’autismo e invece il depositario (nella fattispecie della situazione analitica, il terapeuta) viene invaso dal narcisismo del soggetto, Bleger postula che il lavoro analitico che andrebbe fatto sia quello di far uscire il paziente dalla simbiosi e non di cercare di entrare nel suo autismo: “Quello che dobbiamo passare al vaglio di una corretta interpretazione non è soltanto il modo in cui il paziente ci tiene lontano da lui, ma essenzialmente come ci trattiene dentro di sé, mantenendo una parte di sé dentro di noi, e come siamo per lui quello che proietta e non quello che realmente siamo” (id., p. 139).
Il deposito psicotico nel gruppo, nell’istituzione e nella comunità
Il legame simbiotico tra madre e figlio, grazie al quale il figlio potrà, a poco a poco, riuscire a pensare gli oggetti del suo mondo, non viene completamente risolto ed una parte dell’oggetto-madre continuerà ad essere usato dal soggetto-figlio, anche una volta cresciuto, per appagare e tenere sotto controllo i bisogni delle parti più immature della sua personalità. “Per questo le rimane legata in un rapporto di dipendenza simbiotica. Separarsi da lei significherebbe dover introiettare e dominare dentro di sé tensioni che superano la capacità del suo Io di affrontare ed elaborare tali ansie” (id., p. 67).
Per riferirsi alla formazione del legame simbiotico, che si stabilisce mediante identificazione proiettiva massiva e la conseguente fusione tra depositato e depositario, Bleger si rifà al Teoria del Deposito (o sistema di depositazione) di Enrique Pichon-Rivière, nella quale viene postulata la funzione di una persona, il depositario, sulla quale viene scaricato il deposito (ansie, angosce, problemi, tensioni...) da parte di un’altra persona, il depositante. Questa teoria prende le mosse dalla considerazione che è la famiglia, cioè quella struttura sociale di base all’interno della quale avviene uno scambio relazionale tra soggetti che assumono ruoli diversi (padre, madre, figlio o figlia... ), che può essere intesa come modello naturale della situazione gruppale. Quando si ha a che fare con una situazione patogena all’interno della struttura familiare, continua Pichon-Rivière, non si deve considerare malato un unico soggetto ma l’intera struttura sociale, ovvero il gruppo familiare. Il malato, portavoce della malattia della struttura all’interno della quale è inserito, assume un ruolo, cioè quello di depositario delle ansie e delle tensioni del gruppo familiare. “Il paziente è il depositario che si fa carico di distinti aspetti patologici depositati da ciascuno degli altri membri o depositanti” (Pichon-Rivière, 1985, p.94). Quindi il paziente, membro di quel gruppo, si ammala perché si fa carico della malattia e del disagio del gruppo stesso, preservandolo dalla disgregazione e dall’annientamento. Si tratta di un processo bidirezionale: da una parte c’è il gruppo che delega un suo integrante ad assumere il ruolo di malato, cercando poi di segregarlo, sino ad espellerlo, con la fantasia di eliminare così la malattia della, e dalla, struttura gruppale; e dall’altra c’è il membro che si ammalerà, “decidendo” di assumere quel ruolo, con le rispettive ansie, che gli altri hanno depositato in lui. In questa teoria c’è un ribaltamento del ruolo del paziente (e del luogo comune ad esso connesso) che viene indicato, per le ragioni appena esposte, come il soggetto con una struttura personale più forte rispetto agli altri membri del gruppo, e non come quello più debole. Infatti, è grazie a quest’assunzione del ruolo di malato da parte del paziente (depositario) che il gruppo familiare può preservare un suo equilibrio e continuare ad esistere. Il problema, e quindi lo stereotipo, emerge quando la proiezione degli aspetti patologici degli integranti sul membro designato è eccessiva, e quest’ultimo si viene a trovare nella situazione di non riuscire più ad elaborare il massiccio carico di ansie su di lui depositate dagli altri. A questo punto si ammala.
Bleger si basa su questa teoria, altro portato del suo passato, per riferire della simbiosi e del legame che vincola i vari oggetti in una situazione che si può definire di dipendenza. Nell’inquadramento, così come nell’istituzione o in altri oggetti che fungono da depositari, ciò che viene proiettato sono le ansie psicotiche del soggetto, ossia il vincolo simbiotico. Quando Bleger parla di simbiosi intende una relazione (nello specifico parla di stretta interdipendenza tra due o più persone), vischiosa e indifferenziata, che consente al soggetto di tenere immobilizzato e controllato il nucleo agglutinato. Ciò che viene proiettato nel depositario, non è la parte più matura del soggetto, quella con maggior senso della realtà, che egli utilizzerà per mettersi in relazione con gli altri oggetti con i quali avrà occasione di entrare in contatto nella sua vita quotidiana, bensì, come si diceva innanzi, quella costituita dalle sue parti più arcaiche e psicotiche. Ed anzi, la condotta del soggetto potrà variare molto a seconda se entrerà in relazione con i depositari della sua parte psicotica, con risultati certamente più problematici, o se invece si dovrà confrontare con altri oggetti esterni, rispetto ai quali potrà utilizzare la parte più sana della sua personalità.
Così come avviene rispetto a tutte le istituzioni, anche in quella della famiglia avviene lo stesso processo ed anche qui, ed anzi soprattutto qui, si depositano i propri nuclei psicotici. Di modo che, se non si dovesse riuscire a discriminarsene sufficientemente, non assumendosi la responsabilità della propria condotta e della risoluzione del proprio disagio, si rimarrebbe invischiati in essa, in una situazione di dipendenza. Bleger ci fa notare come non si sia legati alla propria famiglia da un vincolo oggettivo (4), bensì come il legame sia dovuto al fatto di proiettare sui membri della stessa i propri oggetti interni, rendendoli i depositari delle nostre ansie e delle nostre tensioni. È riferendosi a questo processo, che prende avvio attraverso la simbiosi e che attraverso il transfert psicotico si protrae, facendosi scudo e vincolandosi ai depositari, che si arriva a parlare di dipendenza. “Fra la dipendenza totale, che costituisce il punto di partenza, e l’indipendenza o dipendenza matura vi è un periodo molto lungo che può durare tutta la vita, [...], nel quale tratti di dipendenza infantile si mescolano, coesistono e si alternano con tratti di indipendenza matura e di formazione reattiva di fronte alla dipendenza” (Bleger, 1967 [1992], p. 59).
Il vincolo simbiotico viene stabilito da una rigida distribuzione di ruoli; gli oggetti cattivi, folli, moribondi e distruttivi del depositante vengono proiettati sul depositario e questo processo non comporta una condivisione dei ruoli, visto che parlare di condivisione, quindi di scelta consapevole, implica una differenziazione propria di una fase posteriore, quella schizoparanoide. Nella fase precedente non è possibile parlare di consapevolezza e di creatività, ma solamente di rigida e necessaria immobilizzazione. La distribuzione dei ruoli avviene attraverso il linguaggio, ma un linguaggio particolare, che non procede attraverso la sua funzione simbolica, ma che opera “ad un livello regressivo, come fosse un agito e al tempo stesso un fattore che stimola l’agito nell’altro” (id., p. 99). Quindi i ruoli all’interno del vincolo simbiotico sono fissi, però è possibile che gli individui che assumono e danno vita a questi ruoli possano cambiare ed alternarsi.
E se è vero, da un lato, che il rapporto simbiotico con l’oggetto è fonte di sicurezza per l’individuo che riesce così a continuare a vivere, è pur vero che, d’altra parte, è proprio la persistenza di questo tipo di rapporto, mediante la sua immobilizzazione e quindi la disattivazione del processo di proiezione-introiezione, che è fonte della precarietà sia del processo di personificazione e sia del senso di identità del soggetto. Quest’ultimo, anche a costo di forti limitazioni continua a vivere in una realtà esterna che si è modellato “ad hoc”, rinunciando ad esperire nuove possibilità relazionali e nuove, e perciò sconosciute, pratiche di vita. Si parla, dunque, di modalità simbiotica in senso patologico quando questo legame di dipendenza dal depositario non si risolve ed anzi viene rinforzato e reiterato, non permettendo l’evoluzione e l’arricchimento della personalità attraverso il graduale distacco tra le parti in causa.
Il soggetto deve allora, per uscire da questa situazione, cercare di differenziare le esperienze che definiscono la sua relazione simbiotica, ovvero la proiezione su un depositario dei ruoli non discriminati della situazione edipica. Nella fase del complesso edipico il soggetto vede la madre ed il padre uniti, fusi, nel corpo di lei; però il suo rapporto preferenziale è con la sola figura materna. Se il padre non dovesse riuscire concretamente ad inserirsi in questa relazione madre-bambino, il soggetto non sarà capace di differenziare le figure genitoriali e di discriminare esse da se stesso, continuando a viversi come unito al corpo materno. In questo modo non potrà raggiungere la posizione schizoparanoide, non potendo contrapporre i due genitori l’uno all’altro, e non avendo la possibilità di stabilire i due termini antinomici propizi al conflitto. Nonpervenendo a questa posizione conflittuale rispetto alla madre, il bambino si ritroverà a pensarsi quasi come un corpo non discriminato da quello materno: persisterà la fusione madre-bambino.
Bleger utilizza il termine relazione simbiotica proprio per indicare un tale tipo di rapporto, cheinfluenzerà silenziosamente il modo del soggetto di vedere e di affrontare il mondo. Il soggetto si costruisce, aiutato dall’ambiente che lo circonda, una sua realtà, che in seguito, crescendo, diventa abitudine e dà per scontata, per “naturale”, se così si può dire. Questo suo modo di vedere le cose, questa sua ”verità”, verrà automaticamente usata per relazionarsi con il mondo circostante, condizionando il suo sguardo e facendogli perdere, a gradi diversi, il contatto con la realtà che si staglia nel qui ed ora di qualunque relazione.
È a questo proposito che viene usato, come sinonimo di relazione simbiotica, il termine transfert psicotico (o transfert della parte psicotica della personalità), intendendo non una proiezione dei propri oggetti interni su oggetti della realtà esterna, come nel transfert comunemente inteso, bensì un processo caratterizzato dalla mancanza di differenziazione tra il mondo interno ed il mondo esterno, tra il dentro ed il fuori, tra l’Io e l’altro, e dove non ha avuto luogo né la proiezione e né l’introiezione. L’individuo proietta le sue parti psicotiche su depositari esterni in un legame continuo tra sé ed il mondo esterno, che viene visto non per quello che è (se si vuole partire dal presupposto, assolutamente non dato, di poter anelare ad una pura oggettività... ), ma per come il soggetto ha imparato a vederlo: per come lo ha sempre visto e vissuto. Una propria realtà stereotipata, con i propri punti di riferimento fissi e certi; quella con cui ha, da sempre, imparato a con-vivere e che costituisce, in ultimo, la sua Realtà. Questo è ciò che si intende per transfert psicotico: il vedere non ciò che sta fuori, nel mondo esterno, ma ciò che si è sempre veduto intorno a sé; il vedere ciò che è sempre stato presente, anche quando presente non era. Il vincolo simbiotico (e poi, in un secondo momento, mediante lo spostamento di questa relazione vincolare su altri oggetti esterni, il transfert psicotico), non si sente e non si vede, tanto che Bleger definisce “muta”, la simbiosi.
Per provare a definire tale fenomeno viene anche usato il termine sincretismo (5); e quando si indica questo stato riferendosi alle prime fasi della vita si parla di struttura sinciziale. Questa organizzazione, inizialmente totalmente indifferenziata, che consisterebbe nella parte psicotica della personalità, a poco a poco, con la diversificazione dei vincoli con altri oggetti e con la diversificazione delle modalità relazionali rispetto ad uno stesso oggetto, viene frammentata e discriminata (anche se una parte di essa rimarrà sempre così strutturata). Ma affinché ciò possa avvenire, conducendo alla differenziazione della parte nevrotica della personalità, è fondamentale che possa trovare un depositario esterno sicuro e affidabile, all’inizio della vita, dove possa rimanere immobilizzata. Un depositario che possa garantirgli l’instaurazione della relazione simbiotica iniziale dalla quale partire per cominciare a differenziarsi, crescere ed arrivare a costruire una propria identità (6). E quando si parla di depositario ci si può riferire sia all’ambiente esterno circostante e sia alle persone affettivamente significative per il soggetto depositante (7).
Bleger, nel Prologo del libro “Simbiosi e Ambiguità” sostiene, riflettendo sullo stato di indifferenziazione primitiva dell’individuo, che si dovrebbe abbandonare l’idea per cui il fenomeno psicologico sia originariamente mentale, affermando invece che “il fenomeno mentale è una modalità di comportamento, che si manifesta addirittura posteriormente alle altre, e le prime strutture indifferenziate, sincretiche, sono relazioni fondamentalmente corporee” (id., p. 55). Ciò perché considera il vincolo simbiotico essenzialmente come legame tra il corpo del soggetto ed il mondo esterno, cui la funzione mentale, almeno inizialmente, assiste inerme. Per Bleger il bambino non nasce come entità isolata, ma sin dal principio si viene a trovare in questo stato fusionale indifferenziato con il corpo materno attraverso cui esperirà i primi contatti con il mondo esterno: è a partire da questi che egli riuscirà a stabilire le relazioni oggettuali, a differenziarsi dal corpo materno e dal mondo esterno e ad organizzare una propria individualità.
La relazione simbiotica può anche essere intesa come transfert narcisistico, e ciò spinge l’analista argentino a chiamare in causa due fenomeni apparentemente molto diversi ma che si ritrovano strettamente legati tra loro: quello dell’autismo e quello della simbiosi. Il mondo rigido ed impenetrabile dell’autismo e quello ambiguo e mellifluo della simbiosi.
Bleger ha una concezione abbastanza originale del termine autismo; egli si distanzia dagli altri autori, e tende a non considerarlo come un fenomeno caratterizzato da isolamento, introversione e perdita del senso della realtà (almeno non necessariamente), bensì come un fenomeno psichico che non discrimina tra mondo interno e mondo esterno, tra Io e non-Io e che produce, quindi, un’altra organizzazione della realtà, un modo diverso di vedere e vivere la realtà (8).
Egli inizialmente contrappone la simbiosi e l’autismo, però afferma che si debba parlare in entrambi i casi di relazioni oggettuali narcisistiche in cui il soggetto cerca di proteggersi dall’intromissione del mondo esterno con il fine di preservare il principio di piacere. E se nel caso dell’autismo il depositario della propria parte psicotica si trova nel proprio corpo o nella propria mente, nel secondo caso, quello della simbiosi, il depositario si trova nel mondo esterno. Successivamente rettifica questa ipotesi, inserendo nel confronto un nuovo concetto, quello di “schizoidia”. La schizoidia sarebbe un distacco, un distanziamento (clivaggio) che il soggetto, isolandosi nel proprio mondo interiore, produce rispetto al suo rapporto con il mondo esterno e si tratterebbe, in altri termini, di una difesa nei confronti del vincolo simbiotico che lo lega proprio al mondo esterno. Quindi si parla ora di simbiosi contrapposta alla schizoidia, dove l’autismo, ossia la mancanza di discriminazione tra mondo interno e mondo esterno, sarebbe parte comune ad entrambe e sinonimo di relazione narcisistica. E siccome spesso non si riesce a penetrare nel mondo narcisistico dell’autismo e invece il depositario (nella fattispecie della situazione analitica, il terapeuta) viene invaso dal narcisismo del soggetto, Bleger postula che il lavoro analitico che andrebbe fatto sia quello di far uscire il paziente dalla simbiosi e non di cercare di entrare nel suo autismo: “Quello che dobbiamo passare al vaglio di una corretta interpretazione non è soltanto il modo in cui il paziente ci tiene lontano da lui, ma essenzialmente come ci trattiene dentro di sé, mantenendo una parte di sé dentro di noi, e come siamo per lui quello che proietta e non quello che realmente siamo” (id., p. 139).
Il deposito psicotico nel gruppo, nell’istituzione e nella comunità
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“Quando l’uomo nuovo avrà regolato il suo conto con la magia, e interrato il cadavere decomposto dei miti, quando sarà sul cammino di un’unità e d’una coscienza coerente, e comincerà a conquistare la sua vita, a ritrovare o a creare la grandezza nella vita quotidiana, quando infine comincerà a saperlo e a dirlo, allora soltanto avremo cambiato epoca”.
(Critica della vita quotidiana, Henri Lefebvre) |
Bleger usa il termine sincretismo per definire, come si diceva poc’anzi, quella parte della personalità non discriminata in cui coesistono la parte nevrotica e la parte psicotica, il dentro ed il fuori, l’Io ed il non-Io. Si riferisce anche a questo concetto, indicante una particolare conformazione della struttura identitaria, denominandolo Io sincretico; e, precisa, questo Io sincretico non è una modalità difensiva utilizzata per eludere la realtà ed il mondo esterno, quanto una modalità diversa di organizzare il proprio rapporto con la stessa e con la finalità, in ogni caso, di entrarci in contatto.
In un altro articolo, “Il gruppo come istituzione e il gruppo nelle istituzioni”, Bleger sostiene che il fenomeno del sincretismo è rintracciabile non solamente nella sfera individuale, ma anche nell’incontro dell’individuo con altre formazioni relazionali quali il gruppo, l’istituzione e la comunità.
Si può far riferimento, cercando di chiarire quanto più possibile il pensiero dell’analista ebreo ed argentino, alla sua Teoria degli ambiti: concezione che vede l’individuo inscritto in una serie di situazioni concrete, ciascuna delle quali implicanti dei vincoli interpersonali. In una relazione interpersonale ogni persona è portatrice dei suoi piani, dei suoi ambiti, e dei propri gruppi interni (9). Dunque i vari livelli che dovrebbero essere studiati per comprendere al meglio le dinamiche relazionali che coinvolgono l’individuo sono: ambito psicosociale (individui); ambito sociodinamico (gruppo); ambito istituzionale (istituzione); ambito comunitario (comunità).
Questo schema di lettura e di studio delle dinamiche interrelazionali prevede una influenza bilaterale: se la comunità influenza, con le sue norme e le sue regole, le sfere, rispettivamente, dell’istituzione, del gruppo e dell’individuo; l’individuo influisce, con i suoi desideri e le sue decisioni, sulla realtà del gruppo, dell’istituzione e della comunità. Il soggetto è, per Bleger, inserito in un profondo aggrovigliamento simbiotico (psicotico), che vede il soggetto medesimo aprioristicamente legato alle formazioni relazionali organizzate (gruppo, istituzione e comunità) esistenti nel mondo esterno: “L’essere umano prima che una persona è sempre un gruppo, ma non nel senso che appartiene a un gruppo, bensì in quanto la sua personalità è il gruppo” (1989, p. 198). È a partire da questa rete di vincoli pre-esistente che il soggetto potrà, attraverso la diversificazione delle relazioni, strutturare una propria identità ed individuarsi.
Il fenomeno sincretico è rintracciabile, stando così le cose, anche nella formazione gruppale, cui Bleger si riferisce intendendola come “un insieme di individui che interagiscono attenendosi a determinate norme nello svolgimento di un compito” (id., p. 187). Egli sostiene che ogni gruppo si fonda su una relazione che è una non-relazione, dato che la costituzione del gruppo si basa su una socialità inconsapevole e sotterranea che prende spunto dai modelli identificativi esistenti in una certa società e dai principi e dalle regole che quella disciplinano. Tale tipo di relazione, fondante ciascun gruppo e che per tutta l’esistenza dello stesso permane, è detta socialità sincretica: “una socialità stabilita su uno sfondo di indifferenziazione o di sincretismo, in cui gli individui non esistono in quanto tali e fra di essi opera un transitivismo permanente” (id., pag. 189). Una socialità contraddistinta da una non-relazione, dove gli individui componenti il gruppo si ritrovano in uno stato indiscriminato in cui non vi è differenziazione tra l’Io e l’altro, tra il corpo e lo spazio, tra l’interno e l’esterno. La relazione (o non-relazione) caratterizzante la socialità sincretica è una relazione muta, tacita e però presente. Bleger, per spiegare meglio questo concetto, fa l’esempio di una madre e del suo bambino che si trovano in una stessa stanza: la mamma guarda la TV ed il bambino gioca. Se la madre smette di fare quello che stava facendo per andare in un’altra stanza, allora anche il bambino smetterà la propria attività e si precipiterà nell’altra stanza insieme alla madre. Non comunicano, ma c’è comunque un legame profondo, pre-verbale, che li unisce: la socialità sincretica, appunto, che è presente anche in quei gruppi che sono caratterizzati da un altro tipo di socialità, quella caratterizzata dall’interazione, quindi più evoluta e matura. Bleger riprende Sartre e la sua concezione di serialità, che definirebbe quell’insieme di persone tra le quali non si è ancora stabilita un’interazione. Sartre, come paradigmatico del concetto di serialità, fa l’esempio di una fila di persone in attesa di un autobus: queste costituirebbero degli individui perfettamente discriminati ed isolati, sono una “serie” di persone. Ma, continua l’analista argentino, “anche in una situazione di questo tipo è presente la socialità sincretica depositata nei modelli e nelle norme che vigono per tutti gli individui. E ognuna delle persone in coda ha questa sicurezza, a un punto tale che non arriva neppure ad esserne cosciente” (id., pp. 191-192). È fondamentale, affinché ciascuno possa interagire liberamente con gli altri, che si abbiano delle regole e dei riferimenti comuni che costituiranno quella base condivisa, sebbene in maniera inconsapevole, dalla quale partire per assumere altri modelli di comportamento interazionale. Sono questi principi, culturalmente acquisiti, che permettono la costituzione della socialità sincretica (10).
Ma, tornando alla nozione di sincretismo rapportata al gruppo, Bleger sostiene che, fondamentalmente, si possono osservare due generi di dinamiche (con tutte le varianti che possono esserci nel mezzo...) all’interno dei gruppi: nei gruppi formati da persone che hanno raggiunto un certo grado di individuazione, ci potrà essere la paura di regredire ai livelli di un’identità gruppale caratterizzata dalla socialità sincretica, e quindi di vedere dissolta la propria identità all’interno del gruppo; nei gruppi, invece, costituiti da persone con scarso senso di identità si cercherà quanto prima di vincolarsi simbioticamente al gruppo, per farsi forti dell’identità gruppale ed in questa riconoscersi. Si cerca, in questo secondo caso, un legame di dipendenza che, attraverso l’appartenenza al gruppo, possa dare valore e significato all’individuo.
Il gruppo, ci viene detto, è sempre un’istituzione, dove questa viene definita come “un insieme di norme, modelli e attività imperniate su valori e funzioni sociali” (id., p. 195). Un concetto diverso, anche se spesso sovrapposto, da quello di organizzazione, ovvero “una disposizione gerarchica di funzioni che si svolgono generalmente all’interno di un edificio, di un area o di uno spazio delimitato” (id., p. 195). Se si è affermato che tutti i gruppi si fondano su quel tipo di relazione che è, paradossalmente, una non-relazione, ossia la socialità sincretica, viene ora aggiunto che, quando i gruppi tendono a consolidarsi come organizzazioni con propri fini e propri modelli, ciò avviene per due ragioni fondamentali: per stabilizzare i livelli di interazione che in essa avvengono, abbassando la quantità di ansia che una relazione libera da schemi preordinati, con la sua imprevedibilità, comporta; e per tenere immobilizzata, e questa è la motivazione più importante, la parte psicotica del gruppo, ossia la socialità sincretica, quella parte che, poiché in sé non ri-conosciuta e quindi ignota, provoca ansie paranoidi (11). Più nello specifico si afferma che “Le istituzioni e le organizzazioni sono depositarie della socialità sincretica o della parte psicotica e che ciò spiegherebbe in gran parte la tendenza alla burocrazia e la resistenza al cambiamento” (id., pag. 198). Quando si arriva a questa situazione si parla di gruppo (istituzione od organizzazione) burocratizzato, cioè automatizzato. Nella burocratizzazione si perde di vista il fine, il compito, lasciandosi dominare dai mezzi: i mezzi che giustificano se stessi e si auto-mantengono.
Se si parla di istituzione, non si può non ritornare al principio di questo lavoro, laddove viene evocata, nell’articolo già citato, “Psicoanalisi dell’inquadramento psicoanalitico”, la distinzione tra il processo (la relazione tra analista e paziente) ed il non-processo (il setting con le sue costanti) e viene affermato che il processo possa essere compreso solamente qualora si sviluppi all’interno di determinate costanti. Si sostiene, poi, che l’inquadramento psicoanalitico, vedendo il dispiegarsi per un certo lasso di tempo della relazione tra analista e paziente al proprio interno, possa definirsi come un’istituzione. Premesso che, come abbiamo già avuto modo di ricordare, l’identità dell’individuo si organizza, sempre, a partire dall’appartenenza ad un gruppo o ad un’istituzione, e che l’inquadramento viene mantenuto immutato quanto più possibile (è “muto” come la simbiosi, ci viene fatto notare...), tanto che il paziente arriva a non prenderlo in considerazione, Bleger suggerisce che l’inquadramento, così come una qualsiasi istituzione, viene ad essere il depositario della relazione simbiotica che il paziente ha avuto con la madre: relazione che consentiva l’immobilizzazione della sua parte psicotica (il non-Io), dandogli l’opportunità di sviluppare la propria parte nevrotica (l’Io).
Il problema, da questo punto di vista, sorgerebbe se l’inquadramento (il setting) non venisse mai rotto (12), non venisse mai disatteso (da parte dell’analista), poiché questa situazione non darebbe modo di far emergere la relazione simbiotica del paziente lì depositata, ossia la sua coazione a ripetere, il suo transfert psicotico. Questa riflessione porta a considerare l’esistenza di due inquadramenti: quello dell’analista, il setting comunemente inteso, e quello che il paziente fa proprio, depositandoci “la parte più primitiva della personalità,..., la fusione io-corpo-mondo, dalla cui immobilizzazione dipende la formazione, l’esistenza e la discriminazione (dell’io, dell’oggetto, dello schema corporeo, del corpo, della mente, ecc.)” (1967[1992], pp. 277-278). Dunque l’istituzione, e quindi l’inquadramento, viene inconsapevolmente utilizzata dal soggetto per fissare i limiti del proprio schema corporeo (13): il soggetto si definisce mediante l’ausilio ed ilriferimento dell’istituzione. Se al paziente venisse a mancare, attraverso una variazione dell’inquadramento da parte dell’analista, la possibilità di questa depositazione, allora si troverebbe in una situazione fortemente critica ed annichilente poiché si aprirebbe “una fessura attraverso la quale filtra la realtà, che è catastrofica per il paziente” (id., pag. 278). Per questo motivo è di assoluta importanza analizzare costantemente l’inquadramento, poiché è da qui che si può pervenire alla rottura di quel legame simbiotico che caratterizza qualsiasi relazione analista-paziente. Quindi, nella situazione psicoanalitica il terapeuta deve accogliere l’inquadramento portato dal paziente, rappresentativo del suo legame simbiotico originario con la madre, ma con la precisa intenzione di analizzarlo e modificarlo: ciò che è possibile fare soltanto attraverso il proprio inquadramento.
L’ambito più esterno considerato e che, quando viene preso in esame, come ci ricorda Bauleo in “Clinica gruppale, clinica istituzionale”, lo si deve fare parallelamente all’ambito istituzionale, è quello comunitario. Anche la società tende ad ignorare, sino a voler estromettere, delle parti che la costituiscono ma che non riconosce come proprie. La società “sana” si propone di espellere da essa tutte quelle persone considerate devianti e malate, per non considerarle come parti di sé. Si è in presenza di una scissione: da una parte il sano, il normale, e dall’altra il malato, la cui organizzazione psichica è ritenuta, almeno da parte della comunità sociale sana, non aver niente a che fare con la società in cui si trova immersa. Questo obiettivo, osserva Bleger, lo si cerca di raggiungere attraverso l’istituzione di strutture specifiche che abbiano il compito di confinare la parte malata (o, perlomeno, così considerata perché ignota e incompresa) e di renderla razionale e comprensibile (14). Ciò che è importante sottolineare, è che si è qui in presenza del rischio concreto che questa modalità di interpretare la salute e la malattia si possa riflettere nell’istituzione degli organi deputati alla cura: cura che allora viene intesa come segregazione, la segregazione della sua parte psicotica.
La forza del passato
In un altro articolo, “Il gruppo come istituzione e il gruppo nelle istituzioni”, Bleger sostiene che il fenomeno del sincretismo è rintracciabile non solamente nella sfera individuale, ma anche nell’incontro dell’individuo con altre formazioni relazionali quali il gruppo, l’istituzione e la comunità.
Si può far riferimento, cercando di chiarire quanto più possibile il pensiero dell’analista ebreo ed argentino, alla sua Teoria degli ambiti: concezione che vede l’individuo inscritto in una serie di situazioni concrete, ciascuna delle quali implicanti dei vincoli interpersonali. In una relazione interpersonale ogni persona è portatrice dei suoi piani, dei suoi ambiti, e dei propri gruppi interni (9). Dunque i vari livelli che dovrebbero essere studiati per comprendere al meglio le dinamiche relazionali che coinvolgono l’individuo sono: ambito psicosociale (individui); ambito sociodinamico (gruppo); ambito istituzionale (istituzione); ambito comunitario (comunità).
Questo schema di lettura e di studio delle dinamiche interrelazionali prevede una influenza bilaterale: se la comunità influenza, con le sue norme e le sue regole, le sfere, rispettivamente, dell’istituzione, del gruppo e dell’individuo; l’individuo influisce, con i suoi desideri e le sue decisioni, sulla realtà del gruppo, dell’istituzione e della comunità. Il soggetto è, per Bleger, inserito in un profondo aggrovigliamento simbiotico (psicotico), che vede il soggetto medesimo aprioristicamente legato alle formazioni relazionali organizzate (gruppo, istituzione e comunità) esistenti nel mondo esterno: “L’essere umano prima che una persona è sempre un gruppo, ma non nel senso che appartiene a un gruppo, bensì in quanto la sua personalità è il gruppo” (1989, p. 198). È a partire da questa rete di vincoli pre-esistente che il soggetto potrà, attraverso la diversificazione delle relazioni, strutturare una propria identità ed individuarsi.
Il fenomeno sincretico è rintracciabile, stando così le cose, anche nella formazione gruppale, cui Bleger si riferisce intendendola come “un insieme di individui che interagiscono attenendosi a determinate norme nello svolgimento di un compito” (id., p. 187). Egli sostiene che ogni gruppo si fonda su una relazione che è una non-relazione, dato che la costituzione del gruppo si basa su una socialità inconsapevole e sotterranea che prende spunto dai modelli identificativi esistenti in una certa società e dai principi e dalle regole che quella disciplinano. Tale tipo di relazione, fondante ciascun gruppo e che per tutta l’esistenza dello stesso permane, è detta socialità sincretica: “una socialità stabilita su uno sfondo di indifferenziazione o di sincretismo, in cui gli individui non esistono in quanto tali e fra di essi opera un transitivismo permanente” (id., pag. 189). Una socialità contraddistinta da una non-relazione, dove gli individui componenti il gruppo si ritrovano in uno stato indiscriminato in cui non vi è differenziazione tra l’Io e l’altro, tra il corpo e lo spazio, tra l’interno e l’esterno. La relazione (o non-relazione) caratterizzante la socialità sincretica è una relazione muta, tacita e però presente. Bleger, per spiegare meglio questo concetto, fa l’esempio di una madre e del suo bambino che si trovano in una stessa stanza: la mamma guarda la TV ed il bambino gioca. Se la madre smette di fare quello che stava facendo per andare in un’altra stanza, allora anche il bambino smetterà la propria attività e si precipiterà nell’altra stanza insieme alla madre. Non comunicano, ma c’è comunque un legame profondo, pre-verbale, che li unisce: la socialità sincretica, appunto, che è presente anche in quei gruppi che sono caratterizzati da un altro tipo di socialità, quella caratterizzata dall’interazione, quindi più evoluta e matura. Bleger riprende Sartre e la sua concezione di serialità, che definirebbe quell’insieme di persone tra le quali non si è ancora stabilita un’interazione. Sartre, come paradigmatico del concetto di serialità, fa l’esempio di una fila di persone in attesa di un autobus: queste costituirebbero degli individui perfettamente discriminati ed isolati, sono una “serie” di persone. Ma, continua l’analista argentino, “anche in una situazione di questo tipo è presente la socialità sincretica depositata nei modelli e nelle norme che vigono per tutti gli individui. E ognuna delle persone in coda ha questa sicurezza, a un punto tale che non arriva neppure ad esserne cosciente” (id., pp. 191-192). È fondamentale, affinché ciascuno possa interagire liberamente con gli altri, che si abbiano delle regole e dei riferimenti comuni che costituiranno quella base condivisa, sebbene in maniera inconsapevole, dalla quale partire per assumere altri modelli di comportamento interazionale. Sono questi principi, culturalmente acquisiti, che permettono la costituzione della socialità sincretica (10).
Ma, tornando alla nozione di sincretismo rapportata al gruppo, Bleger sostiene che, fondamentalmente, si possono osservare due generi di dinamiche (con tutte le varianti che possono esserci nel mezzo...) all’interno dei gruppi: nei gruppi formati da persone che hanno raggiunto un certo grado di individuazione, ci potrà essere la paura di regredire ai livelli di un’identità gruppale caratterizzata dalla socialità sincretica, e quindi di vedere dissolta la propria identità all’interno del gruppo; nei gruppi, invece, costituiti da persone con scarso senso di identità si cercherà quanto prima di vincolarsi simbioticamente al gruppo, per farsi forti dell’identità gruppale ed in questa riconoscersi. Si cerca, in questo secondo caso, un legame di dipendenza che, attraverso l’appartenenza al gruppo, possa dare valore e significato all’individuo.
Il gruppo, ci viene detto, è sempre un’istituzione, dove questa viene definita come “un insieme di norme, modelli e attività imperniate su valori e funzioni sociali” (id., p. 195). Un concetto diverso, anche se spesso sovrapposto, da quello di organizzazione, ovvero “una disposizione gerarchica di funzioni che si svolgono generalmente all’interno di un edificio, di un area o di uno spazio delimitato” (id., p. 195). Se si è affermato che tutti i gruppi si fondano su quel tipo di relazione che è, paradossalmente, una non-relazione, ossia la socialità sincretica, viene ora aggiunto che, quando i gruppi tendono a consolidarsi come organizzazioni con propri fini e propri modelli, ciò avviene per due ragioni fondamentali: per stabilizzare i livelli di interazione che in essa avvengono, abbassando la quantità di ansia che una relazione libera da schemi preordinati, con la sua imprevedibilità, comporta; e per tenere immobilizzata, e questa è la motivazione più importante, la parte psicotica del gruppo, ossia la socialità sincretica, quella parte che, poiché in sé non ri-conosciuta e quindi ignota, provoca ansie paranoidi (11). Più nello specifico si afferma che “Le istituzioni e le organizzazioni sono depositarie della socialità sincretica o della parte psicotica e che ciò spiegherebbe in gran parte la tendenza alla burocrazia e la resistenza al cambiamento” (id., pag. 198). Quando si arriva a questa situazione si parla di gruppo (istituzione od organizzazione) burocratizzato, cioè automatizzato. Nella burocratizzazione si perde di vista il fine, il compito, lasciandosi dominare dai mezzi: i mezzi che giustificano se stessi e si auto-mantengono.
Se si parla di istituzione, non si può non ritornare al principio di questo lavoro, laddove viene evocata, nell’articolo già citato, “Psicoanalisi dell’inquadramento psicoanalitico”, la distinzione tra il processo (la relazione tra analista e paziente) ed il non-processo (il setting con le sue costanti) e viene affermato che il processo possa essere compreso solamente qualora si sviluppi all’interno di determinate costanti. Si sostiene, poi, che l’inquadramento psicoanalitico, vedendo il dispiegarsi per un certo lasso di tempo della relazione tra analista e paziente al proprio interno, possa definirsi come un’istituzione. Premesso che, come abbiamo già avuto modo di ricordare, l’identità dell’individuo si organizza, sempre, a partire dall’appartenenza ad un gruppo o ad un’istituzione, e che l’inquadramento viene mantenuto immutato quanto più possibile (è “muto” come la simbiosi, ci viene fatto notare...), tanto che il paziente arriva a non prenderlo in considerazione, Bleger suggerisce che l’inquadramento, così come una qualsiasi istituzione, viene ad essere il depositario della relazione simbiotica che il paziente ha avuto con la madre: relazione che consentiva l’immobilizzazione della sua parte psicotica (il non-Io), dandogli l’opportunità di sviluppare la propria parte nevrotica (l’Io).
Il problema, da questo punto di vista, sorgerebbe se l’inquadramento (il setting) non venisse mai rotto (12), non venisse mai disatteso (da parte dell’analista), poiché questa situazione non darebbe modo di far emergere la relazione simbiotica del paziente lì depositata, ossia la sua coazione a ripetere, il suo transfert psicotico. Questa riflessione porta a considerare l’esistenza di due inquadramenti: quello dell’analista, il setting comunemente inteso, e quello che il paziente fa proprio, depositandoci “la parte più primitiva della personalità,..., la fusione io-corpo-mondo, dalla cui immobilizzazione dipende la formazione, l’esistenza e la discriminazione (dell’io, dell’oggetto, dello schema corporeo, del corpo, della mente, ecc.)” (1967[1992], pp. 277-278). Dunque l’istituzione, e quindi l’inquadramento, viene inconsapevolmente utilizzata dal soggetto per fissare i limiti del proprio schema corporeo (13): il soggetto si definisce mediante l’ausilio ed ilriferimento dell’istituzione. Se al paziente venisse a mancare, attraverso una variazione dell’inquadramento da parte dell’analista, la possibilità di questa depositazione, allora si troverebbe in una situazione fortemente critica ed annichilente poiché si aprirebbe “una fessura attraverso la quale filtra la realtà, che è catastrofica per il paziente” (id., pag. 278). Per questo motivo è di assoluta importanza analizzare costantemente l’inquadramento, poiché è da qui che si può pervenire alla rottura di quel legame simbiotico che caratterizza qualsiasi relazione analista-paziente. Quindi, nella situazione psicoanalitica il terapeuta deve accogliere l’inquadramento portato dal paziente, rappresentativo del suo legame simbiotico originario con la madre, ma con la precisa intenzione di analizzarlo e modificarlo: ciò che è possibile fare soltanto attraverso il proprio inquadramento.
L’ambito più esterno considerato e che, quando viene preso in esame, come ci ricorda Bauleo in “Clinica gruppale, clinica istituzionale”, lo si deve fare parallelamente all’ambito istituzionale, è quello comunitario. Anche la società tende ad ignorare, sino a voler estromettere, delle parti che la costituiscono ma che non riconosce come proprie. La società “sana” si propone di espellere da essa tutte quelle persone considerate devianti e malate, per non considerarle come parti di sé. Si è in presenza di una scissione: da una parte il sano, il normale, e dall’altra il malato, la cui organizzazione psichica è ritenuta, almeno da parte della comunità sociale sana, non aver niente a che fare con la società in cui si trova immersa. Questo obiettivo, osserva Bleger, lo si cerca di raggiungere attraverso l’istituzione di strutture specifiche che abbiano il compito di confinare la parte malata (o, perlomeno, così considerata perché ignota e incompresa) e di renderla razionale e comprensibile (14). Ciò che è importante sottolineare, è che si è qui in presenza del rischio concreto che questa modalità di interpretare la salute e la malattia si possa riflettere nell’istituzione degli organi deputati alla cura: cura che allora viene intesa come segregazione, la segregazione della sua parte psicotica.
La forza del passato
L’illusione del mondo, o meglio, l’illusione che non consente, realmente, di vivere il mondo. Questo sembra essere il pericolo derivante dal persistere della parte psicotica della personalitàdi cui Bleger ci parla. Però è anche da qui, da questa formazione mentale, che si sviluppa l’Io, la parte nevrotica dell’individuo, capace di relazioni con il mondo esterno e capace di trarre, da queste, gratificazioni e frustrazioni. Capace, in sintesi, di godere e di reggere, anche nei momenti di maggior delusione, il confronto con la realtà.
Bleger asserisce che la parte psicotica della personalità ha origine all’inizio della vita, attraversoil legame simbiotico con la madre, e che, mediante il meccanismo dello spostamento, la si possa ritrovare depositata in qualsiasi oggetto facente parte del mondo (ivi compreso lo stesso soggetto). È il deposito di questa parte di sé nel mondo che provoca la creazione di una realtà illusoria, dato che sembrerebbe costituita non tanto a partire dallo stimolo suscitato dall’oggetto esterno, quanto dalla sovrapposizione sullo stesso di una modalità di rapportarsi con la realtà già consolidata nel soggetto. Un tipo di relazione dalla quale non può che scaturire una falsa percezione di sé e della realtà circostante; una percezione di qualcosa che non esiste, se non nella fantasia. Ma una fantasia vissuta solamente nella sfera mentale, cui non si dà mai la possibilità di un confronto con la realtà, è ciò che Bleger definisce mondo fantasma. È una questione di confini, tra il mondo interno del soggetto ed il mondo esterno, tra ciò che il soggetto considera come facente parte della realtà esterna (il soggetto stesso con la sua onnipotenza) e ciò che, in realtà, ne fa parte (il soggetto con le proprie qualità ed i propri difetti o limiti). È la questione del limite, o meglio, della mancanza del limite, che chiama in causa il concetto di transfert psicotico.
“Accade spesso che, nel corso di questo processo [il processo analitico in cui si cerca di mobilizzare e quindi reintroiettare il nucleo agglutinato del paziente], si renda necessario indagare sugli altri depositari che utilizza il paziente, per poter analizzare non soltanto la proiezione, ma anche gli spostamenti; altri depositari possono essere, ad esempio, lo studio, il lavoro, delle persone, un luogo, ecc. Ci sono casi, molto frequenti, in cui la parte psicotica della personalità si concentra in un lutto” (1967, [1992], p. 138). Dunque Bleger afferma chel’analista viene usato, nel corso del processo analitico, come depositario delle proiezioni psicotiche del paziente e che, attraverso lo spostamento, queste vengono dirette verso altri oggetti esterni utilizzati dal paziente come depositari (e che quindi dovrebbero essere portati in analisi). Non credo ci sia un limite alla possibilità di fare di un oggetto esterno il deposito delle proprie parti psicotiche; credo, piuttosto, che la questione dipenda dal significato che ciascuno assegna (anche se, e bene ricordarlo, si sta parlando di un processo inconsapevole) a quelle cose del mondo con cui è in rapporto.
Quello tra depositante e depositario è un legame autistico ove non c’è differenziazione tra l’uno e l’altro e dove ci si muove entro coordinate strettamente definite dalle proprie abitudini di vita. Il concetto di transfert psicotico favorisce l’edificazione dell’ipotesi che persone diverse non vivano la stessa, e si potrebbe forse dire nella stessa, realtà. C’è chi si trova nella realtà esterna e con essa, e la sua molteplicità, si confronta; e chi, invece, vive questa realtà in assoluta continuità con il proprio mondo interno, con ciò che ha già vissuto e, inconsapevolmente, interiorizzato.
Una ripetizione dei propri modelli comportamentali per arrivare, sempre, ad un identico risultato: il cimentarsi in una realtà scontata che, non ponendo dinanzi al confronto con la diversità e con l’altro, evita il pericolo e la sofferenza insite nella riflessione e nel cambiamento.
Piuttosto che pensare ed affrontare i problemi che toccano il soggetto nella realtà della propria quotidianità, rimanere fermi, e immersi, nelle dinamiche relazionali stereotipate che della sua quotidianità hanno sempre fatto parte, incanalando (depositando) in questa modalità di essere al mondo le proprie ansie e le proprie tensioni; così come le proprie gioie. Così facendo si dà la possibilità di non pensare a ciò che, più concretamente, preoccupa e disturba. Si tiene immobilizzata quella parte della personalità (la parte psicotica di cui parla Bleger) che è più problematico e più difficile affrontare. Affrontarla vorrebbe dire metterla in discussione e, presumibilmente, dato che se provoca pensieri disturbanti non ritenuta soddisfacente, cercare di cambiarla.
Ma il cambiamento, e soprattutto questo cambiamento, viene sentito come un compito troppo pesante e gravoso; un compito schiacciante ed annichilente, poiché con la parte psicotica della personalità viene messo in discussione tutto il modo di vivere della persona. Dunque il soggetto, per provare a non affrontare il compito troppo pericoloso del cambiamento, non può che tentare di ridurre quanto più possibile le esperienze e le relazioni con gli oggetti della realtà esterna. Ciò è possibile facendosi scudo della propria parte psicotica la quale, vincolandosi simbioticamente agli oggetti del mondo esterno e ponendoci di fronte sempre una stessa realtà già conosciuta, non permette il confronto con esperienze altre. Non si da l’opportunità di far entrare nel proprio spazio mentale il nuovo e l’insolito, precludendo la possibilità di diversificare il proprio essere al mondo. Un esistenza che sarà sempre uguale a se stessa poiché, non producendo una diversità tra gli eventi, non darà luogo a quella frammentazione e quella discontinuità di vissuti che sono alla base della formazione del ricordo. Ciò che non lascia tracce mnestiche non si può considerare fonte di esperienza, e quindi di crescita: se non c’è il ricordo, è facile che, la seconda volta di fronte alla stessa realtà, ci si comporterà come la prima volta che la si è incontrata. Nulla sarà cambiato.
In conclusione, si può sostenere che il vivere affrontando la realtà depositando in essa la propria formazione psicotica equivalga ad un non-vivere. Infatti con l’irruzione della parte psicotica nella sfera dell’Io, quindi con l’irruzione del “già stato” nel presente, viene reso estremamente difficoltoso il rimanere centrati sul compito da svolgere, ovvero sulla realtà del “qui ed ora”. Quella stessa parte psicotica della personalità che ha origine con il soggetto e che con esso, attraverso le relazioni ed i legami con l’ambiente esterno, costituitosi prima dell’arrivo del soggetto medesimo e nel quale quest’ultimo è vissuto e cresciuto, si sviluppa e si trasforma. La parte psicotica della personalità è, dunque, un portato della storia passata del soggetto; un portato che, se da un lato rende difficoltosa ed impervia la maturazione e la conseguente costituzione del senso di identità del soggetto, dall’altro, essendone il fondamento, ne rappresenta la possibilità evolutiva, potendo quindi essere intesa come una forza creatrice: la forza del passato, appunto.
Bleger asserisce che la parte psicotica della personalità ha origine all’inizio della vita, attraversoil legame simbiotico con la madre, e che, mediante il meccanismo dello spostamento, la si possa ritrovare depositata in qualsiasi oggetto facente parte del mondo (ivi compreso lo stesso soggetto). È il deposito di questa parte di sé nel mondo che provoca la creazione di una realtà illusoria, dato che sembrerebbe costituita non tanto a partire dallo stimolo suscitato dall’oggetto esterno, quanto dalla sovrapposizione sullo stesso di una modalità di rapportarsi con la realtà già consolidata nel soggetto. Un tipo di relazione dalla quale non può che scaturire una falsa percezione di sé e della realtà circostante; una percezione di qualcosa che non esiste, se non nella fantasia. Ma una fantasia vissuta solamente nella sfera mentale, cui non si dà mai la possibilità di un confronto con la realtà, è ciò che Bleger definisce mondo fantasma. È una questione di confini, tra il mondo interno del soggetto ed il mondo esterno, tra ciò che il soggetto considera come facente parte della realtà esterna (il soggetto stesso con la sua onnipotenza) e ciò che, in realtà, ne fa parte (il soggetto con le proprie qualità ed i propri difetti o limiti). È la questione del limite, o meglio, della mancanza del limite, che chiama in causa il concetto di transfert psicotico.
“Accade spesso che, nel corso di questo processo [il processo analitico in cui si cerca di mobilizzare e quindi reintroiettare il nucleo agglutinato del paziente], si renda necessario indagare sugli altri depositari che utilizza il paziente, per poter analizzare non soltanto la proiezione, ma anche gli spostamenti; altri depositari possono essere, ad esempio, lo studio, il lavoro, delle persone, un luogo, ecc. Ci sono casi, molto frequenti, in cui la parte psicotica della personalità si concentra in un lutto” (1967, [1992], p. 138). Dunque Bleger afferma chel’analista viene usato, nel corso del processo analitico, come depositario delle proiezioni psicotiche del paziente e che, attraverso lo spostamento, queste vengono dirette verso altri oggetti esterni utilizzati dal paziente come depositari (e che quindi dovrebbero essere portati in analisi). Non credo ci sia un limite alla possibilità di fare di un oggetto esterno il deposito delle proprie parti psicotiche; credo, piuttosto, che la questione dipenda dal significato che ciascuno assegna (anche se, e bene ricordarlo, si sta parlando di un processo inconsapevole) a quelle cose del mondo con cui è in rapporto.
Quello tra depositante e depositario è un legame autistico ove non c’è differenziazione tra l’uno e l’altro e dove ci si muove entro coordinate strettamente definite dalle proprie abitudini di vita. Il concetto di transfert psicotico favorisce l’edificazione dell’ipotesi che persone diverse non vivano la stessa, e si potrebbe forse dire nella stessa, realtà. C’è chi si trova nella realtà esterna e con essa, e la sua molteplicità, si confronta; e chi, invece, vive questa realtà in assoluta continuità con il proprio mondo interno, con ciò che ha già vissuto e, inconsapevolmente, interiorizzato.
Una ripetizione dei propri modelli comportamentali per arrivare, sempre, ad un identico risultato: il cimentarsi in una realtà scontata che, non ponendo dinanzi al confronto con la diversità e con l’altro, evita il pericolo e la sofferenza insite nella riflessione e nel cambiamento.
Piuttosto che pensare ed affrontare i problemi che toccano il soggetto nella realtà della propria quotidianità, rimanere fermi, e immersi, nelle dinamiche relazionali stereotipate che della sua quotidianità hanno sempre fatto parte, incanalando (depositando) in questa modalità di essere al mondo le proprie ansie e le proprie tensioni; così come le proprie gioie. Così facendo si dà la possibilità di non pensare a ciò che, più concretamente, preoccupa e disturba. Si tiene immobilizzata quella parte della personalità (la parte psicotica di cui parla Bleger) che è più problematico e più difficile affrontare. Affrontarla vorrebbe dire metterla in discussione e, presumibilmente, dato che se provoca pensieri disturbanti non ritenuta soddisfacente, cercare di cambiarla.
Ma il cambiamento, e soprattutto questo cambiamento, viene sentito come un compito troppo pesante e gravoso; un compito schiacciante ed annichilente, poiché con la parte psicotica della personalità viene messo in discussione tutto il modo di vivere della persona. Dunque il soggetto, per provare a non affrontare il compito troppo pericoloso del cambiamento, non può che tentare di ridurre quanto più possibile le esperienze e le relazioni con gli oggetti della realtà esterna. Ciò è possibile facendosi scudo della propria parte psicotica la quale, vincolandosi simbioticamente agli oggetti del mondo esterno e ponendoci di fronte sempre una stessa realtà già conosciuta, non permette il confronto con esperienze altre. Non si da l’opportunità di far entrare nel proprio spazio mentale il nuovo e l’insolito, precludendo la possibilità di diversificare il proprio essere al mondo. Un esistenza che sarà sempre uguale a se stessa poiché, non producendo una diversità tra gli eventi, non darà luogo a quella frammentazione e quella discontinuità di vissuti che sono alla base della formazione del ricordo. Ciò che non lascia tracce mnestiche non si può considerare fonte di esperienza, e quindi di crescita: se non c’è il ricordo, è facile che, la seconda volta di fronte alla stessa realtà, ci si comporterà come la prima volta che la si è incontrata. Nulla sarà cambiato.
In conclusione, si può sostenere che il vivere affrontando la realtà depositando in essa la propria formazione psicotica equivalga ad un non-vivere. Infatti con l’irruzione della parte psicotica nella sfera dell’Io, quindi con l’irruzione del “già stato” nel presente, viene reso estremamente difficoltoso il rimanere centrati sul compito da svolgere, ovvero sulla realtà del “qui ed ora”. Quella stessa parte psicotica della personalità che ha origine con il soggetto e che con esso, attraverso le relazioni ed i legami con l’ambiente esterno, costituitosi prima dell’arrivo del soggetto medesimo e nel quale quest’ultimo è vissuto e cresciuto, si sviluppa e si trasforma. La parte psicotica della personalità è, dunque, un portato della storia passata del soggetto; un portato che, se da un lato rende difficoltosa ed impervia la maturazione e la conseguente costituzione del senso di identità del soggetto, dall’altro, essendone il fondamento, ne rappresenta la possibilità evolutiva, potendo quindi essere intesa come una forza creatrice: la forza del passato, appunto.
Note:
1. In un primo momento Bleger preferisce parlare, come vedremo più avanti in altre citazioni, di “oggetto agglutinato o glischroide” (il termine glischroide deriva dal greco e significa “vischioso”); ma, poiché non si può affermare l’esistenza, nel vincolo simbiotico che coinvolge l’io ed il non-io, l’oggetto buono e quello cattivo, di una vera relazione oggettuale, affermando invece “uno stato di indifferenziazione primitiva”, Bleger, partendo dalla considerazione che non si possa sostenere l’esistenza di una vera e propria relazione oggettuale, decide di utilizzare il termine “nucleo agglutinato”.
2. È comunque necessario tenere presente che rimarrà sempre, in ciascun soggetto, una parte del nucleo agglutinato dove non si produrrà questa differenziazione, questa separazione tra io e non-io, tra dentro e fuori, tra mondo interno e mondo esterno.
3. Bion afferma che se la madre, nella sua funzione di “contenitore”, non dovesse riuscire ad aiutare il bambino in questa funzione di simbolizzazione degli elementi Beta, questi verrebbero reintroiettati dal bambino dando origine agli “oggetti bizzarri”: oggetti primitivi e confusionali che entreranno in gioco nella caratterizzazione in senso psicotico del soggetto. In seguito questi contenuti potranno seguire due strade: o essere espulsi attraverso gli “agiti” (acting out) del soggetto o rimanere, pur non potendo essere compresi, all’interno dello stesso.
4. La famiglia non è vista come un gruppo “naturale” definito dal legame di sangue tra i suoi membri o dall’appartenenza di questi ad una stesso territorio, bensì come una costruzione sociale e culturale.
5. Nel concetto di “sincretismo” Bleger fa rientrare anche il fenomeno di “autismo”, come vedremo più avanti. Ma un autismo che viene considerato più come una fusionalità, un’organizzazione particolare della realtà individuale dove non si può parlare né di interno e né di esterno, piuttosto che come isolamento e perdita della realtà stessa.
6. Concetto, questo, che potrebbe avere delle affinità con quello di “base sicura” di Bowlby.
7. In questo secondo caso non si dovrebbe parlare di persone esterne poiché il soggetto depositante si troverebbe in uno stato fusionale con queste; sarebbe simbioticamente legato ad esse.
8. Con questa affermazione Bleger sembra voler respingere una visione dell’umanità che si vuole distinta tra le sfere della sanità e della patologia, affermando al contrario che ciascuno, a seconda delle proprie caratteristiche e della propria storia evolutiva, possa riuscire a produrre un proprio senso della realtà e proprie modalità di vivere il mondo. Tra l’altro, partendo dal presupposto che il senso della realtà è suggerito all’uomo da norme e modelli culturalmente condizionati, e quindi per ciò stesso, relativi, egli stabilisce di chiamare “Io convenzionale” quell’Io considerato più maturo e maggiormente dotato di senso della realtà.
9. Il gruppo interno è uno schema relazionale che il soggetto si è strutturato a partire dall’esperienza vissuta. Si parla di gruppo interno primario riferendosi alle modalità relazionali strutturate all’interno della famiglia. Queste modalità, entrando in rapporto con altri gruppi, verranno modificate dando origine al gruppo interno secondario “che verrà poi esteriorizzato attraverso nuovi comportamenti, nuovi ruoli, nuove speranze, nuovi discorsi che la persona stabilirà nel gruppo” (Bauleo, 1974 [1978], p.38).
10. Il concetto di socialità sincretica potrebbe richiamare, anche se con le dovute differenze, altre concettualizzazioni teoriche che sembrano muoversi sullo stesso terreno: lo stato protomentale di Bion e l’incorporato culturale di Rouchy .
11. Bleger, riferendosi all’ansia di tipo paranoide provata di fronte a situazioni nuove e sconosciute, sostiene che ciò che in realtà si teme è il credere di non poter più mettere in atto quelle modalità comportamentali e relazionali che si sono sempre utilizzate. E, ancor peggio, all’interno di un gruppo, di venir assorbiti in questa totalità indifferenziata e omogenea costituita dalla socialità sincretica, nella quale, come si è sostenuto in precedenza, il rischio è quello di perdere la propria identità strutturata sino a quel momento.
12. Bleger premette di essere ben conscio che questa situazione è pressoché irrealizzabile, ma che il suo interesse è rivolto allo studio di un “inquadramento idealmente normale”: quasi una situazione da laboratorio.
13. Questa sorta di indifferenziazione corpo-spazio che si presentifica nella situazione analitica, fa sì che il paziente viva come persecutoria l’interpretazione del suo comportamento non verbale; l’interpretazione di questo livello, infatti, non va a toccare il suo “Io”, bensì il suo “non-Io”, la sua parte psicotica.
14. È un po’ ciò da cui anche Franco Basaglia, nella raccolta delle sue conferenze tenute in Brasile, mette in guardia: “Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società accetta la follia come parte della ragione, e quindi la fa diventare ragione attraverso una scienza che si incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragione d’essere nel fatto che fa diventare razionale l’irrazionale. Quando uno è folle ed entra in un manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come disfare questo nodo, come andare al di là della 'follia istituzionale' e riconoscere la follia là dove essa ha origine, cioè nella vita” (Basaglia, 2000, p. 34). E più avanti, riferendosi al dispositivo dell’istituzione scientifica messo in atto dalla società: “La scienza è un prodotto della classe dominante e quando nella scienza si verifica un mutamento, questo avviene all’interno dei codici della classe dominante” (id., p. 113).
(2005)
1. In un primo momento Bleger preferisce parlare, come vedremo più avanti in altre citazioni, di “oggetto agglutinato o glischroide” (il termine glischroide deriva dal greco e significa “vischioso”); ma, poiché non si può affermare l’esistenza, nel vincolo simbiotico che coinvolge l’io ed il non-io, l’oggetto buono e quello cattivo, di una vera relazione oggettuale, affermando invece “uno stato di indifferenziazione primitiva”, Bleger, partendo dalla considerazione che non si possa sostenere l’esistenza di una vera e propria relazione oggettuale, decide di utilizzare il termine “nucleo agglutinato”.
2. È comunque necessario tenere presente che rimarrà sempre, in ciascun soggetto, una parte del nucleo agglutinato dove non si produrrà questa differenziazione, questa separazione tra io e non-io, tra dentro e fuori, tra mondo interno e mondo esterno.
3. Bion afferma che se la madre, nella sua funzione di “contenitore”, non dovesse riuscire ad aiutare il bambino in questa funzione di simbolizzazione degli elementi Beta, questi verrebbero reintroiettati dal bambino dando origine agli “oggetti bizzarri”: oggetti primitivi e confusionali che entreranno in gioco nella caratterizzazione in senso psicotico del soggetto. In seguito questi contenuti potranno seguire due strade: o essere espulsi attraverso gli “agiti” (acting out) del soggetto o rimanere, pur non potendo essere compresi, all’interno dello stesso.
4. La famiglia non è vista come un gruppo “naturale” definito dal legame di sangue tra i suoi membri o dall’appartenenza di questi ad una stesso territorio, bensì come una costruzione sociale e culturale.
5. Nel concetto di “sincretismo” Bleger fa rientrare anche il fenomeno di “autismo”, come vedremo più avanti. Ma un autismo che viene considerato più come una fusionalità, un’organizzazione particolare della realtà individuale dove non si può parlare né di interno e né di esterno, piuttosto che come isolamento e perdita della realtà stessa.
6. Concetto, questo, che potrebbe avere delle affinità con quello di “base sicura” di Bowlby.
7. In questo secondo caso non si dovrebbe parlare di persone esterne poiché il soggetto depositante si troverebbe in uno stato fusionale con queste; sarebbe simbioticamente legato ad esse.
8. Con questa affermazione Bleger sembra voler respingere una visione dell’umanità che si vuole distinta tra le sfere della sanità e della patologia, affermando al contrario che ciascuno, a seconda delle proprie caratteristiche e della propria storia evolutiva, possa riuscire a produrre un proprio senso della realtà e proprie modalità di vivere il mondo. Tra l’altro, partendo dal presupposto che il senso della realtà è suggerito all’uomo da norme e modelli culturalmente condizionati, e quindi per ciò stesso, relativi, egli stabilisce di chiamare “Io convenzionale” quell’Io considerato più maturo e maggiormente dotato di senso della realtà.
9. Il gruppo interno è uno schema relazionale che il soggetto si è strutturato a partire dall’esperienza vissuta. Si parla di gruppo interno primario riferendosi alle modalità relazionali strutturate all’interno della famiglia. Queste modalità, entrando in rapporto con altri gruppi, verranno modificate dando origine al gruppo interno secondario “che verrà poi esteriorizzato attraverso nuovi comportamenti, nuovi ruoli, nuove speranze, nuovi discorsi che la persona stabilirà nel gruppo” (Bauleo, 1974 [1978], p.38).
10. Il concetto di socialità sincretica potrebbe richiamare, anche se con le dovute differenze, altre concettualizzazioni teoriche che sembrano muoversi sullo stesso terreno: lo stato protomentale di Bion e l’incorporato culturale di Rouchy .
11. Bleger, riferendosi all’ansia di tipo paranoide provata di fronte a situazioni nuove e sconosciute, sostiene che ciò che in realtà si teme è il credere di non poter più mettere in atto quelle modalità comportamentali e relazionali che si sono sempre utilizzate. E, ancor peggio, all’interno di un gruppo, di venir assorbiti in questa totalità indifferenziata e omogenea costituita dalla socialità sincretica, nella quale, come si è sostenuto in precedenza, il rischio è quello di perdere la propria identità strutturata sino a quel momento.
12. Bleger premette di essere ben conscio che questa situazione è pressoché irrealizzabile, ma che il suo interesse è rivolto allo studio di un “inquadramento idealmente normale”: quasi una situazione da laboratorio.
13. Questa sorta di indifferenziazione corpo-spazio che si presentifica nella situazione analitica, fa sì che il paziente viva come persecutoria l’interpretazione del suo comportamento non verbale; l’interpretazione di questo livello, infatti, non va a toccare il suo “Io”, bensì il suo “non-Io”, la sua parte psicotica.
14. È un po’ ciò da cui anche Franco Basaglia, nella raccolta delle sue conferenze tenute in Brasile, mette in guardia: “Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società accetta la follia come parte della ragione, e quindi la fa diventare ragione attraverso una scienza che si incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragione d’essere nel fatto che fa diventare razionale l’irrazionale. Quando uno è folle ed entra in un manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come disfare questo nodo, come andare al di là della 'follia istituzionale' e riconoscere la follia là dove essa ha origine, cioè nella vita” (Basaglia, 2000, p. 34). E più avanti, riferendosi al dispositivo dell’istituzione scientifica messo in atto dalla società: “La scienza è un prodotto della classe dominante e quando nella scienza si verifica un mutamento, questo avviene all’interno dei codici della classe dominante” (id., p. 113).
(2005)
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