SCRITTI
LA SCUOLA DEI CAPRI ESPIATORI
di Lorenzo Sartini
Questo lavoro di ricerca, su cui sto continuando ad interrogarmi, parte dall’esperienza che ho avuto modo di fare all’interno di una scuola secondaria di primo grado nella quale ho lavorato per circa 10 anni. Lavoravo in quella scuola da appena un anno quando l’insegnante che ricopriva anche il ruolo di coordinatrice per l’integrazione ed il disagio mi parla dell’esistenza di una situazione complicata in una 2° classe, in cui un ragazzino, preso come capro espiatorio, veniva trattato male dai suoi compagniche lo ricoprivano di offese ed insulti. Mi descrive la situazione in questi termini: parla di capro espiatorio.
Decidiamo di attivare un laboratorio con il compito di lavorare sulle modalità di socializzazione all’interno di quella classe. Il laboratorio consisteva in quattro incontri, senza alcuno schema preordinato, con l’idea di lavorare sui temi emergenti dal gruppo: l’intento era di lavorare sulle dinamiche relazionali interne alla classe per provare a cambiare la situazione che vedeva incastrato Matteo, quel ragazzino, nel ruolo di capro espiatorio.
Negli incontri si è parlato molto, essendo quello un gruppo-classe cui piaceva proporsi sul piano della parola. Durante il protrarsi degli incontri si è osservato un processo nel gruppo-classe che è passato da una prima fase, nel primo incontro,nella quale pareva essere tutto unito, ad una seconda fase, nel secondo incontro,nella quale è iniziata ad emergere una spaccatura, con la successiva divisione in due del gruppo e con i due sottogruppi conseguenti,indicati con il nome di “popolari” e di “non popolari”, che si attaccavano, accusandosi vicendevolmente. Fino ad una terza fase, nel terzo incontro,in cui il sottogruppo dei “popolari” è stato messo in discussione dall’interno da uno dei suoi integranti e, dopo un rapido ma intenso momento di silenzio, in tutta risposta, un altro integrante di quel gruppo ha tirato in ballo il capro espiatorio (implicitamente considerato parte del sottogruppo dei “non popolari”) come causa dei mali del gruppo-classe. A quel punto tutto il gruppo-classe, “popolari” e “non popolari”, ha iniziato ad esprimere, con sempre maggiore veemenza e con grande sconcerto dei conduttori, il proprio disappunto ed il proprio malcontento nei confronti del capro espiatorio.
Nell’ultimo incontro si è deciso di dividere il gruppo-classe in 4 sottogruppi con il compito di inventare delle storie partendo dallo stimolo “Il mio gruppo ideale”. I gruppi dovevano poi dare un titolo al loro lavoro e drammatizzare le storie inventate. In sintesi, riporto che i gruppi, formati in modo casuale, si sono succeduti nel racconto in maniera volontaria e che il primo gruppo ha raccontato una storia dal titolo “Il gruppo dei fantastici 4”, nel quale veniva narratala monotonia della quotidianità vissuta nel paese, con l’impennata di eccitazione che si viveva il sabato. Proprio come era avvenuto nel primo incontro in classe. Il lavoro del secondo gruppo, “La nostra storia”, raccontava di una vacanza in Alaska fatta da quattro amici (il secchione assassino, la bambina barbona, il maniacoe la ballerina) che, inizialmente, per fare il viaggio in aereo si sono divisi in due coppie (due sottogruppi), e poi, giunti alla meta, si sono uccisi vicendevolmente, fino all’ultimo sopravvissuto che si è suicidato. Il terzo gruppo ha presentato una storia dal titolo “Matteo boh”, nella quale si parlava dell’avvento di Matteo, il capro espiatorio, in un ristorante gestito da una signora marocchina: qui, non riuscendo lui a capire che cosa gli venisse chiesto dalla proprietaria, la uccise con una capocciata. Gli altri avventori al locale provarono a fermarlo ma procurandosi non pochi danni fino a che Pietro, colui che nella realtà aveva spostato su Matteo la colpa della frustrazione vissuta dal gruppo-classe, riuscì a fargli scoppiare la testa con un gioco di parole. Il quarto gruppo titolò il proprio lavoro “Finché morte non ci separi” e raccontava la storia di un ragazzo che era stato visto drogarsi da una ragazza, che allora lo denunciò al commissariato. Il poliziotto prima arrestò il ragazzo, e poi assoldò due killers per ucciderlo. Venne poi organizzato il funerale del ragazzo e si venne a sapere che la ragazza che lo aveva visto drogarsi, siccome “era strabica ed aveva visto male”, si era sbagliata. La notizia si diffuse rapidamente ed il nome del ragazzo venne immediatamente riabilitato: arrivò una famosa cantante al funerale che cantò una canzone in suo onore. Al poliziotto che lo aveva arrestato e fatto uccidere, per il senso di colpa, “venne un collasso”. Tutti gli altrifesteggiarono.
Alla fine degli incontri si è avuto questo spostamento della responsabilità da Matteo al poliziotto, colui che aveva il compito ed il potere di gestire quella situazione particolare, così, nel qui ed ora degli incontri, potremmo pensare che il poliziotto fosse rappresentativo del conduttore. Il gruppo-classe ha scaricato la responsabilità per aver estromesso Matteo dalla classe,eperil senso di colpa successivo,sulla figura del conduttore: egli, con la sua presenza, ha fatto venir fuori i dueloschi figuri (i due sottogruppi?) che hanno di fatto operato la morte di Matteo, ossia le sofferenze che ha dovuto subire e sopportare. Senza di lui si sarebbe continuato a portare avanti il gioco dei falsi ruoli “buono-cattivo” in maniera implicita, sotterranea: si sarebbe protratta una situazione ambigua che non permetteva una chiara definizione delle parti in causa, bensì tendente ad evitare il conflitto. Nella festa, il gruppo, quello rappresentato nella drammatizzazione ma anche quello reale della classe scolastica, sembra di nuovo unito: tutti sorridono contenti per la ritrovata unità, come a negare gli accadimenti e le turbolenze emotive derivatene che si sono svelate nel mentre del percorso: “come un eterno ritorno, un destino immodificabile, dove sono inclusi nella sua struttura atteggiamenti di sfida e di ritorno all’onnipotenza che si erano perduti transitoriamente nei giorni del dolore” (Pichon-Rivière, 1985, p. 30) [1].
Se si considera il processo da un punto di vista analitico, è possibile ritenere che durante questi incontri, nei quali si è cercato di prendere in esame quella conflittualità gruppale che si è vista andare a canalizzarsi pressoché esclusivamente su Matteo, al gruppo si sia aperta un’altra opportunità. La presenza di una figura, il poliziotto/conduttore, che si è mostrata disponibile nell’affrontare le difficoltà presenti nella creazione di legami sociali soddisfacenti all’interno della classe, sembra aver fatto sì che il gruppo abbia potuto spostare l’obiettivo e depositare le proprie angosce e le proprie frustrazioni su quella, riuscendo infine a liberare Matteo dal ruolo angusto che aveva rivestito fino a quel momento. Ritengo che questo si sia verificato perché il poliziotto/conduttore, la figura adulta in aula, è diventato il capro espiatorio della classe.
Apro una breve parentesi per dire solo che dopo questo laboratorio Matteo chiese di accedere allo Sportello d’ascolto della scuola, gestito sempre da me. E poi venne anche la madre di Matteo per cercare di riflettere su ciò che stava vivendo il figlio; e lei con lui. La situazione di Matteo nel periodo immediatamente successivo migliorò: divennero più conflittuali i rapporti con la madre ma aumentarono e migliorarono le sue relazioni con i compagni dentro e fuori dalla scuola.
Qui si apre un’altra partita interessante all’interno dell’istituzione scolastica, perché se è vero che l’apprendimento delle discipline da parte degli alunni è il compito cui viene dato maggior rilevanza, compito degli insegnanti è anche quello di occuparsi della “piena formazione della personalità degli alunni”2. Ora, rispetto a questa funzione, come si pongono gli insegnanti? Si fanno carico delle incombenze connesse a quella funzione? È un compito che, si ritiene, spetti loro e per cui hanno adeguata formazione? E qual è la posizione dell’istituzione scolastica a tale proposito?
L’anno susseguentestavo conducendo un laboratorio in un’altra 2° classe, quando accadde un evento inaspettato: un ragazzino di origine extra-comunitaria, con alle spalle una situazione familiare e sociale estremamente complessa, verso la fine dell’ultimo intervento era esploso in un delirio paranoico, prendendosela, ma solo verbalmente, con un suo compagno con il quale per qualche motivo già non correva buon sangue. Da rilevare che, tra le altre cose, in quelcaso si era avuta una situazione di ambigua confusione visto che gli insegnanti non avevano comunicato alla classe che in quella giornata il laboratorio con lo psicologo avrebbe sostituito una disciplina da loro molto apprezzata e attesa; ciò che aveva creato da subito dei malumori in tutto il gruppo. Tralasciando le variegate letture che è possibile fare a proposito della dimenticanza dell’istituzione, annotiamo solamente che, in quel caso, al termine dell’incontro svolto, lo psicologo si è intrattenuto con il ragazzino cercando di contenerne le ansie e di aiutarlo a tranquillizzarsi. Ciò che è avvenuto. Questa situazione, però, è stata presa dall’istituzione scolastica a motivo per ridurre gli interventi laboratoriali.
L’anno ancorasuccessivo, senza laboratori in classe, quello stesso ragazzino, in due occasioni, espresse la propria aggressività alzando le mani su un compagno che era da poco arrivato in quella classe. Questo accadimento è interessante perché se l’anno precedente si era data la responsabilità dell’accaduto, un’aggressività solamente minacciata in quel caso, all’intervento che era stato fatto in classe dallo psicologo, come è possibile spiegarsi l’accaduto, ben più grave, dell’anno seguente? Che tipo di motivazione riesce a darsene l’istituzione? Che tipo di domande ci si è posti all’interno della scuola rispetto all’accaduto?La sensazione è che l’istituzione di domande non se ne sia poste e, se anche se le fosse poste, che le abbia lasciate cadere senza provare realmente ad interrogarsi sull’accaduto. Come se potesse considerarsi una situazione normale, non frequente però nella norma, e dunque accettabile; qualcosa che può anche capitare. Non si è avuta diretta comunicazione dell’accaduto da parte dell’istituzione e si è venuti a conoscenza degli agiti aggressivi solamente perché sono stati raccontati dai ragazzini coinvolti che, una settimana dopo il secondo episodio, hanno chiesto di accedere allo Sportello d’ascolto. Così vien da pensare che l’unico modo che l’istituzione è riuscita a trovare per provare a parlare di una situazione che un certo livello di ansietà doveva averlo prodotto (mi riferisco a quella del ragazzino con il delirio paranoico che ha visto coinvolto lo psicologo) pare essere stato quello che prevede lo spostamento della responsabilità su un agente esterno. Nel caso specifico, era lo psicologo con i suoi interventi in classe ad essere ritenuto la causa dell’atteggiamento aggressivo espresso da uno dei membri della stessa. A lui si chiede ragione delle difficoltà che si esperiscono nella quotidianità scolastica. Una volta però eliminati gli incontri laboratoriali e dunque “scomparso” lo psicologo, ecco che quella domanda non viene più posta.
Tutti conosciamo l’annotazione di Bleger sul fatto che “le istituzioni tendono ad adottare la stessa struttura dei problemi che devono affrontare”; questa annotazione sembradescrivere perfettamente lecircostanze che sto considerando: se nel gruppo-classe le difficoltà relazionali che, verosimilmente,tutti i membri,in modi diversi,sperimentavano,sono diventate il problema costituito da Matteo, dando origine all’equazione il problema del gruppo è Matteo, nell’istituzione, allo stesso modo, le difficoltà che accomunavano gli operatori coinvolti, e che riguardavano la complessa gestione di situazioni aggressive come quelle verificatesi in classe, è come se si fossero condensate divenendo il problema costituito dallo psicologo, per cui il problema dell’istituzione è lo psicologo. Là il capro espiatorio era Matteo, qua, lo psicologo.
Questaricorsività della dinamica espiatoria che il gruppo-classe e l’istituzione scolastica hanno espresso mi ha stimolato, chiaramente, alcune domande: a che cosa si riferisce l’istituzione scuola quando parla di capro espiatorio? Che tipo di lettura riescono a fare gli operatori della scuola, aggressori essi stessiall’occasione,della dinamica del capro espiatorio? E che tipo di conseguenze pensano possano darsi a chiviene relegato in quel ruolo? È un qualcosa che li riguarda oppure no? E ancora: l’istituzione può pensare di trasmettere razionalmente un messaggio diverso quando è essa stessa che sembra proporre una modalità di risoluzione delle difficoltà fondata su quella strategia? Ma allora che tipo di messaggio arriva agli alunni?E checosa viene, di fatto, appreso dagli alunni?
Ora, aggiungo un ultimo elemento al puzzle facendo un passo indietro, al primo anno di lavoro in quella scuola, allorché rimasi subito colpito dallo stato di preoccupazione di un’insegnante. Un’insegnante molto brava, a mio modo di vedere. La stessa insegnante che poi mi parlò di Matteo come capro espiatorio, proponendomi di attivare il laboratorio, ma anche la stessa insegnanteche successivamente mi comunicò, insieme al Dirigente Scolastico, che avevano deciso di ridurre gli interventi laboratoriali a cagione di ciò che era accaduto. In una prima occasione mi raccontò che uno degli alunni usciti l’anno precedente dalla scuola, appena quattordicenne e dunque poco tempo dopo aver potuto iniziare a guidare ilmotorino, aveva avuto ungrave incidente e si trovava in coma. Non era stato un alunno di una sua classe, ma l’insegnante appariva profondamente angosciata e sentiva di essere, in qualche modo, responsabile dell’accaduto. Amareggiata e in preda al senso di colpa poiché, così disse, pensava che la scuola avrebbe potuto fare qualcosa per evitare ciò che era successo. Quell’incidente, occorso ad un ragazzo che moltissimi conoscevano nel paese, aveva colpito profondamente tutta la collettività. L’insegnante mi stava comunicando che ladisperazione vissuta dalla comunità veniva provata anche a causa sua: lei, così come gli altri insegnanti, sentiva che avrebbero potuto fare qualcosa per evitare l’accaduto ma che non lo avevano fatto. Nessun abitante del paese, almeno in maniera manifesta, aveva dato alcuna responsabilità alla scuola dell’accaduto, però gli insegnanti si sentivano colpevoli.
Dello stesso tenore è il secondo caso che, sempre quell’insegnante, con la quale si instaurò subito un rapporto proficuo e rispettoso, mi raccontò qualche mese più tardi. Era accaduto che durante una festa di Halloween, organizzata in una casa di una ragazza residente in una cittadina vicina, alla quale erano stati invitati alcuni degli alunni della scuola, erano presenti bevande alcoliche, mentre non lo erano i genitori dell’organizzatrice: facile immaginare l’effervescente ambiente in cui il partysi svolse. Non si è mai saputo con certezza che cosa sia accaduto, fatto sta che, nei giorni seguenti, si sparse la voce che in una delle stanze di quella grande casa si fosse perpetrato il quasi-stupro di una ragazza completamente ubriaca ad opera di più ragazzi. Non si diceva chiaramente ciò che fosse successo, era sufficiente il modo utilizzato per raccontare lo scabroso episodio, con tutta una serie di sguardi preoccupati e di angosciati silenzi, a lasciare immaginare ciò che non si poteva dire. In realtà, ciò che non si poteva dire non lo si poteva comunicare semplicemente perché, di fatto, non si sapeva ciò che fosse accaduto; però questa situazione creò, effettivamente, un certo scompiglio all’interno della scuola e, sebbene non se ne parlasse, in quell’ambiente si percepiva una forte agitazione. Nei mesi successivi il racconto venne stemperato e perse un po’ di colore e, se qualche ragazzo aveva avuto modo di dare sfogo alla propria libido in qualche modo, non lo si era fatto nei termini brutali e violenti che in principio erano stati abbozzati.
Comunque sia, al di là della supposta gravità del fatto, ciò che mi colpì, ancora una volta, fu il ritenere lascuola in qualche misura responsabile di ciò che era avvenuto in quanto, per qualche motivo difficilmente identificabile, inadempiente ai propri compiti. La notizia era velocemente circolata all’interno della comunità cittadina e, a quanto riportava l’insegnante, sembrava che qualcunonel paeseavesse accennato all’insufficiente azione della scuola nell’educazione degli alunni coinvolti. Di fronte a queste voci accusatorie che si levavano dal territorio, all’interno della scuola ci si sentiva effettivamente colpevoli per non avere potuto prevedere ed evitare ciò che era avvenuto e che aveva suscitato così tanto clamore nel paese. Non ho idea di che cosa si rimproverasse quell’insegnante, solo si faceva carico di una responsabilità che, a rigor di logica, non le spettava. Sentiva forte una disperazione ed un senso di impotenza cui, probabilmente, non riusciva a dare un significato. Come se non riuscisse a mettere a fuoco l’accaduto e capire che la scuola non può arrivare a chiudere ogni buco che si apre nellaquotidiana esistenza dei bambini e dei ragazzi al di fuori delle mura scolastiche.
Ma penso che, a livello generale, ascoltando tutte le critiche che vengono rivolte agli istituti scolastici di ogni ordine e grado, sembra che questa sia la richiesta che alla scuola viene rivolta dalla società civile: farsi carico, in tutto e per tutto, dell’educazione e della crescita dei suoi figli. Sembra essere entrata a far parte del senso comune l’idea che la scuola debba essere considerata responsabile per ogni comportamento ritenuto socialmente anomaloche viene individuato nei propri figli. È la scuola che deve preparare alla vita mentre gli adulti di riferimento, i genitori, sono impegnati nelle proprie impellenze quotidiane, reali o presunte. Ne consegue che, rispetto a ciò che di spiacevole e negativo accade ai bambini o ai ragazzi, è la scuola ad essere ritenuta colpevole. Gli aspetti piacevoli e positivamente riconosciuti dei pargoli costituendo, invece, l’orgoglio degli adultifamiliari.
Questo pare essere il ruolo aggiudicato alla scuola dalla comunità, ossia il ruolo di responsabile delle problematicità comportamentali e delle difficoltà sociali, e di apprendimento naturalmente, che i bambini ed i ragazzi esprimono. Dall’altra parte, l’istituzione scolastica, per interagire con il territorio sociale di cui è parte, parrebbe non aver trovato alcuna risposta più adeguata che quella di assumere il ruolo che gli è stato assegnato, ossia quello di capro espiatorio.
Note
1. “... como un eterno retorno, un destino immodificabile, donde hay includa en su estructura actitudes de desafìo y vuelta a la omnipotencia que habìa perdidotransitoriamente en los dìas de duelo”
2. Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione (Decreto Legislativo 16 aprile 1994, n. 297); l’articolo 1 della ‘Parte I –Norme generali’ tratta della ‘Formazione della personalità degli alunni e libertà di insegnamento’
(Lavoro presentato alla II "Assemblea sulla ricerca sulla Concezione Operativa di Gruppo", Madrid, 26-28 aprile 2018. Pubblicato in "ÁREA 3. CUADERNOS DE TEMAS GRUPALES E INSTITUCIONALES", Extra nº 3, verano 2018, www.area3.org.es)
Questo lavoro di ricerca, su cui sto continuando ad interrogarmi, parte dall’esperienza che ho avuto modo di fare all’interno di una scuola secondaria di primo grado nella quale ho lavorato per circa 10 anni. Lavoravo in quella scuola da appena un anno quando l’insegnante che ricopriva anche il ruolo di coordinatrice per l’integrazione ed il disagio mi parla dell’esistenza di una situazione complicata in una 2° classe, in cui un ragazzino, preso come capro espiatorio, veniva trattato male dai suoi compagniche lo ricoprivano di offese ed insulti. Mi descrive la situazione in questi termini: parla di capro espiatorio.
Decidiamo di attivare un laboratorio con il compito di lavorare sulle modalità di socializzazione all’interno di quella classe. Il laboratorio consisteva in quattro incontri, senza alcuno schema preordinato, con l’idea di lavorare sui temi emergenti dal gruppo: l’intento era di lavorare sulle dinamiche relazionali interne alla classe per provare a cambiare la situazione che vedeva incastrato Matteo, quel ragazzino, nel ruolo di capro espiatorio.
Negli incontri si è parlato molto, essendo quello un gruppo-classe cui piaceva proporsi sul piano della parola. Durante il protrarsi degli incontri si è osservato un processo nel gruppo-classe che è passato da una prima fase, nel primo incontro,nella quale pareva essere tutto unito, ad una seconda fase, nel secondo incontro,nella quale è iniziata ad emergere una spaccatura, con la successiva divisione in due del gruppo e con i due sottogruppi conseguenti,indicati con il nome di “popolari” e di “non popolari”, che si attaccavano, accusandosi vicendevolmente. Fino ad una terza fase, nel terzo incontro,in cui il sottogruppo dei “popolari” è stato messo in discussione dall’interno da uno dei suoi integranti e, dopo un rapido ma intenso momento di silenzio, in tutta risposta, un altro integrante di quel gruppo ha tirato in ballo il capro espiatorio (implicitamente considerato parte del sottogruppo dei “non popolari”) come causa dei mali del gruppo-classe. A quel punto tutto il gruppo-classe, “popolari” e “non popolari”, ha iniziato ad esprimere, con sempre maggiore veemenza e con grande sconcerto dei conduttori, il proprio disappunto ed il proprio malcontento nei confronti del capro espiatorio.
Nell’ultimo incontro si è deciso di dividere il gruppo-classe in 4 sottogruppi con il compito di inventare delle storie partendo dallo stimolo “Il mio gruppo ideale”. I gruppi dovevano poi dare un titolo al loro lavoro e drammatizzare le storie inventate. In sintesi, riporto che i gruppi, formati in modo casuale, si sono succeduti nel racconto in maniera volontaria e che il primo gruppo ha raccontato una storia dal titolo “Il gruppo dei fantastici 4”, nel quale veniva narratala monotonia della quotidianità vissuta nel paese, con l’impennata di eccitazione che si viveva il sabato. Proprio come era avvenuto nel primo incontro in classe. Il lavoro del secondo gruppo, “La nostra storia”, raccontava di una vacanza in Alaska fatta da quattro amici (il secchione assassino, la bambina barbona, il maniacoe la ballerina) che, inizialmente, per fare il viaggio in aereo si sono divisi in due coppie (due sottogruppi), e poi, giunti alla meta, si sono uccisi vicendevolmente, fino all’ultimo sopravvissuto che si è suicidato. Il terzo gruppo ha presentato una storia dal titolo “Matteo boh”, nella quale si parlava dell’avvento di Matteo, il capro espiatorio, in un ristorante gestito da una signora marocchina: qui, non riuscendo lui a capire che cosa gli venisse chiesto dalla proprietaria, la uccise con una capocciata. Gli altri avventori al locale provarono a fermarlo ma procurandosi non pochi danni fino a che Pietro, colui che nella realtà aveva spostato su Matteo la colpa della frustrazione vissuta dal gruppo-classe, riuscì a fargli scoppiare la testa con un gioco di parole. Il quarto gruppo titolò il proprio lavoro “Finché morte non ci separi” e raccontava la storia di un ragazzo che era stato visto drogarsi da una ragazza, che allora lo denunciò al commissariato. Il poliziotto prima arrestò il ragazzo, e poi assoldò due killers per ucciderlo. Venne poi organizzato il funerale del ragazzo e si venne a sapere che la ragazza che lo aveva visto drogarsi, siccome “era strabica ed aveva visto male”, si era sbagliata. La notizia si diffuse rapidamente ed il nome del ragazzo venne immediatamente riabilitato: arrivò una famosa cantante al funerale che cantò una canzone in suo onore. Al poliziotto che lo aveva arrestato e fatto uccidere, per il senso di colpa, “venne un collasso”. Tutti gli altrifesteggiarono.
Alla fine degli incontri si è avuto questo spostamento della responsabilità da Matteo al poliziotto, colui che aveva il compito ed il potere di gestire quella situazione particolare, così, nel qui ed ora degli incontri, potremmo pensare che il poliziotto fosse rappresentativo del conduttore. Il gruppo-classe ha scaricato la responsabilità per aver estromesso Matteo dalla classe,eperil senso di colpa successivo,sulla figura del conduttore: egli, con la sua presenza, ha fatto venir fuori i dueloschi figuri (i due sottogruppi?) che hanno di fatto operato la morte di Matteo, ossia le sofferenze che ha dovuto subire e sopportare. Senza di lui si sarebbe continuato a portare avanti il gioco dei falsi ruoli “buono-cattivo” in maniera implicita, sotterranea: si sarebbe protratta una situazione ambigua che non permetteva una chiara definizione delle parti in causa, bensì tendente ad evitare il conflitto. Nella festa, il gruppo, quello rappresentato nella drammatizzazione ma anche quello reale della classe scolastica, sembra di nuovo unito: tutti sorridono contenti per la ritrovata unità, come a negare gli accadimenti e le turbolenze emotive derivatene che si sono svelate nel mentre del percorso: “come un eterno ritorno, un destino immodificabile, dove sono inclusi nella sua struttura atteggiamenti di sfida e di ritorno all’onnipotenza che si erano perduti transitoriamente nei giorni del dolore” (Pichon-Rivière, 1985, p. 30) [1].
Se si considera il processo da un punto di vista analitico, è possibile ritenere che durante questi incontri, nei quali si è cercato di prendere in esame quella conflittualità gruppale che si è vista andare a canalizzarsi pressoché esclusivamente su Matteo, al gruppo si sia aperta un’altra opportunità. La presenza di una figura, il poliziotto/conduttore, che si è mostrata disponibile nell’affrontare le difficoltà presenti nella creazione di legami sociali soddisfacenti all’interno della classe, sembra aver fatto sì che il gruppo abbia potuto spostare l’obiettivo e depositare le proprie angosce e le proprie frustrazioni su quella, riuscendo infine a liberare Matteo dal ruolo angusto che aveva rivestito fino a quel momento. Ritengo che questo si sia verificato perché il poliziotto/conduttore, la figura adulta in aula, è diventato il capro espiatorio della classe.
Apro una breve parentesi per dire solo che dopo questo laboratorio Matteo chiese di accedere allo Sportello d’ascolto della scuola, gestito sempre da me. E poi venne anche la madre di Matteo per cercare di riflettere su ciò che stava vivendo il figlio; e lei con lui. La situazione di Matteo nel periodo immediatamente successivo migliorò: divennero più conflittuali i rapporti con la madre ma aumentarono e migliorarono le sue relazioni con i compagni dentro e fuori dalla scuola.
Qui si apre un’altra partita interessante all’interno dell’istituzione scolastica, perché se è vero che l’apprendimento delle discipline da parte degli alunni è il compito cui viene dato maggior rilevanza, compito degli insegnanti è anche quello di occuparsi della “piena formazione della personalità degli alunni”2. Ora, rispetto a questa funzione, come si pongono gli insegnanti? Si fanno carico delle incombenze connesse a quella funzione? È un compito che, si ritiene, spetti loro e per cui hanno adeguata formazione? E qual è la posizione dell’istituzione scolastica a tale proposito?
L’anno susseguentestavo conducendo un laboratorio in un’altra 2° classe, quando accadde un evento inaspettato: un ragazzino di origine extra-comunitaria, con alle spalle una situazione familiare e sociale estremamente complessa, verso la fine dell’ultimo intervento era esploso in un delirio paranoico, prendendosela, ma solo verbalmente, con un suo compagno con il quale per qualche motivo già non correva buon sangue. Da rilevare che, tra le altre cose, in quelcaso si era avuta una situazione di ambigua confusione visto che gli insegnanti non avevano comunicato alla classe che in quella giornata il laboratorio con lo psicologo avrebbe sostituito una disciplina da loro molto apprezzata e attesa; ciò che aveva creato da subito dei malumori in tutto il gruppo. Tralasciando le variegate letture che è possibile fare a proposito della dimenticanza dell’istituzione, annotiamo solamente che, in quel caso, al termine dell’incontro svolto, lo psicologo si è intrattenuto con il ragazzino cercando di contenerne le ansie e di aiutarlo a tranquillizzarsi. Ciò che è avvenuto. Questa situazione, però, è stata presa dall’istituzione scolastica a motivo per ridurre gli interventi laboratoriali.
L’anno ancorasuccessivo, senza laboratori in classe, quello stesso ragazzino, in due occasioni, espresse la propria aggressività alzando le mani su un compagno che era da poco arrivato in quella classe. Questo accadimento è interessante perché se l’anno precedente si era data la responsabilità dell’accaduto, un’aggressività solamente minacciata in quel caso, all’intervento che era stato fatto in classe dallo psicologo, come è possibile spiegarsi l’accaduto, ben più grave, dell’anno seguente? Che tipo di motivazione riesce a darsene l’istituzione? Che tipo di domande ci si è posti all’interno della scuola rispetto all’accaduto?La sensazione è che l’istituzione di domande non se ne sia poste e, se anche se le fosse poste, che le abbia lasciate cadere senza provare realmente ad interrogarsi sull’accaduto. Come se potesse considerarsi una situazione normale, non frequente però nella norma, e dunque accettabile; qualcosa che può anche capitare. Non si è avuta diretta comunicazione dell’accaduto da parte dell’istituzione e si è venuti a conoscenza degli agiti aggressivi solamente perché sono stati raccontati dai ragazzini coinvolti che, una settimana dopo il secondo episodio, hanno chiesto di accedere allo Sportello d’ascolto. Così vien da pensare che l’unico modo che l’istituzione è riuscita a trovare per provare a parlare di una situazione che un certo livello di ansietà doveva averlo prodotto (mi riferisco a quella del ragazzino con il delirio paranoico che ha visto coinvolto lo psicologo) pare essere stato quello che prevede lo spostamento della responsabilità su un agente esterno. Nel caso specifico, era lo psicologo con i suoi interventi in classe ad essere ritenuto la causa dell’atteggiamento aggressivo espresso da uno dei membri della stessa. A lui si chiede ragione delle difficoltà che si esperiscono nella quotidianità scolastica. Una volta però eliminati gli incontri laboratoriali e dunque “scomparso” lo psicologo, ecco che quella domanda non viene più posta.
Tutti conosciamo l’annotazione di Bleger sul fatto che “le istituzioni tendono ad adottare la stessa struttura dei problemi che devono affrontare”; questa annotazione sembradescrivere perfettamente lecircostanze che sto considerando: se nel gruppo-classe le difficoltà relazionali che, verosimilmente,tutti i membri,in modi diversi,sperimentavano,sono diventate il problema costituito da Matteo, dando origine all’equazione il problema del gruppo è Matteo, nell’istituzione, allo stesso modo, le difficoltà che accomunavano gli operatori coinvolti, e che riguardavano la complessa gestione di situazioni aggressive come quelle verificatesi in classe, è come se si fossero condensate divenendo il problema costituito dallo psicologo, per cui il problema dell’istituzione è lo psicologo. Là il capro espiatorio era Matteo, qua, lo psicologo.
Questaricorsività della dinamica espiatoria che il gruppo-classe e l’istituzione scolastica hanno espresso mi ha stimolato, chiaramente, alcune domande: a che cosa si riferisce l’istituzione scuola quando parla di capro espiatorio? Che tipo di lettura riescono a fare gli operatori della scuola, aggressori essi stessiall’occasione,della dinamica del capro espiatorio? E che tipo di conseguenze pensano possano darsi a chiviene relegato in quel ruolo? È un qualcosa che li riguarda oppure no? E ancora: l’istituzione può pensare di trasmettere razionalmente un messaggio diverso quando è essa stessa che sembra proporre una modalità di risoluzione delle difficoltà fondata su quella strategia? Ma allora che tipo di messaggio arriva agli alunni?E checosa viene, di fatto, appreso dagli alunni?
Ora, aggiungo un ultimo elemento al puzzle facendo un passo indietro, al primo anno di lavoro in quella scuola, allorché rimasi subito colpito dallo stato di preoccupazione di un’insegnante. Un’insegnante molto brava, a mio modo di vedere. La stessa insegnante che poi mi parlò di Matteo come capro espiatorio, proponendomi di attivare il laboratorio, ma anche la stessa insegnanteche successivamente mi comunicò, insieme al Dirigente Scolastico, che avevano deciso di ridurre gli interventi laboratoriali a cagione di ciò che era accaduto. In una prima occasione mi raccontò che uno degli alunni usciti l’anno precedente dalla scuola, appena quattordicenne e dunque poco tempo dopo aver potuto iniziare a guidare ilmotorino, aveva avuto ungrave incidente e si trovava in coma. Non era stato un alunno di una sua classe, ma l’insegnante appariva profondamente angosciata e sentiva di essere, in qualche modo, responsabile dell’accaduto. Amareggiata e in preda al senso di colpa poiché, così disse, pensava che la scuola avrebbe potuto fare qualcosa per evitare ciò che era successo. Quell’incidente, occorso ad un ragazzo che moltissimi conoscevano nel paese, aveva colpito profondamente tutta la collettività. L’insegnante mi stava comunicando che ladisperazione vissuta dalla comunità veniva provata anche a causa sua: lei, così come gli altri insegnanti, sentiva che avrebbero potuto fare qualcosa per evitare l’accaduto ma che non lo avevano fatto. Nessun abitante del paese, almeno in maniera manifesta, aveva dato alcuna responsabilità alla scuola dell’accaduto, però gli insegnanti si sentivano colpevoli.
Dello stesso tenore è il secondo caso che, sempre quell’insegnante, con la quale si instaurò subito un rapporto proficuo e rispettoso, mi raccontò qualche mese più tardi. Era accaduto che durante una festa di Halloween, organizzata in una casa di una ragazza residente in una cittadina vicina, alla quale erano stati invitati alcuni degli alunni della scuola, erano presenti bevande alcoliche, mentre non lo erano i genitori dell’organizzatrice: facile immaginare l’effervescente ambiente in cui il partysi svolse. Non si è mai saputo con certezza che cosa sia accaduto, fatto sta che, nei giorni seguenti, si sparse la voce che in una delle stanze di quella grande casa si fosse perpetrato il quasi-stupro di una ragazza completamente ubriaca ad opera di più ragazzi. Non si diceva chiaramente ciò che fosse successo, era sufficiente il modo utilizzato per raccontare lo scabroso episodio, con tutta una serie di sguardi preoccupati e di angosciati silenzi, a lasciare immaginare ciò che non si poteva dire. In realtà, ciò che non si poteva dire non lo si poteva comunicare semplicemente perché, di fatto, non si sapeva ciò che fosse accaduto; però questa situazione creò, effettivamente, un certo scompiglio all’interno della scuola e, sebbene non se ne parlasse, in quell’ambiente si percepiva una forte agitazione. Nei mesi successivi il racconto venne stemperato e perse un po’ di colore e, se qualche ragazzo aveva avuto modo di dare sfogo alla propria libido in qualche modo, non lo si era fatto nei termini brutali e violenti che in principio erano stati abbozzati.
Comunque sia, al di là della supposta gravità del fatto, ciò che mi colpì, ancora una volta, fu il ritenere lascuola in qualche misura responsabile di ciò che era avvenuto in quanto, per qualche motivo difficilmente identificabile, inadempiente ai propri compiti. La notizia era velocemente circolata all’interno della comunità cittadina e, a quanto riportava l’insegnante, sembrava che qualcunonel paeseavesse accennato all’insufficiente azione della scuola nell’educazione degli alunni coinvolti. Di fronte a queste voci accusatorie che si levavano dal territorio, all’interno della scuola ci si sentiva effettivamente colpevoli per non avere potuto prevedere ed evitare ciò che era avvenuto e che aveva suscitato così tanto clamore nel paese. Non ho idea di che cosa si rimproverasse quell’insegnante, solo si faceva carico di una responsabilità che, a rigor di logica, non le spettava. Sentiva forte una disperazione ed un senso di impotenza cui, probabilmente, non riusciva a dare un significato. Come se non riuscisse a mettere a fuoco l’accaduto e capire che la scuola non può arrivare a chiudere ogni buco che si apre nellaquotidiana esistenza dei bambini e dei ragazzi al di fuori delle mura scolastiche.
Ma penso che, a livello generale, ascoltando tutte le critiche che vengono rivolte agli istituti scolastici di ogni ordine e grado, sembra che questa sia la richiesta che alla scuola viene rivolta dalla società civile: farsi carico, in tutto e per tutto, dell’educazione e della crescita dei suoi figli. Sembra essere entrata a far parte del senso comune l’idea che la scuola debba essere considerata responsabile per ogni comportamento ritenuto socialmente anomaloche viene individuato nei propri figli. È la scuola che deve preparare alla vita mentre gli adulti di riferimento, i genitori, sono impegnati nelle proprie impellenze quotidiane, reali o presunte. Ne consegue che, rispetto a ciò che di spiacevole e negativo accade ai bambini o ai ragazzi, è la scuola ad essere ritenuta colpevole. Gli aspetti piacevoli e positivamente riconosciuti dei pargoli costituendo, invece, l’orgoglio degli adultifamiliari.
Questo pare essere il ruolo aggiudicato alla scuola dalla comunità, ossia il ruolo di responsabile delle problematicità comportamentali e delle difficoltà sociali, e di apprendimento naturalmente, che i bambini ed i ragazzi esprimono. Dall’altra parte, l’istituzione scolastica, per interagire con il territorio sociale di cui è parte, parrebbe non aver trovato alcuna risposta più adeguata che quella di assumere il ruolo che gli è stato assegnato, ossia quello di capro espiatorio.
Note
1. “... como un eterno retorno, un destino immodificabile, donde hay includa en su estructura actitudes de desafìo y vuelta a la omnipotencia que habìa perdidotransitoriamente en los dìas de duelo”
2. Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione (Decreto Legislativo 16 aprile 1994, n. 297); l’articolo 1 della ‘Parte I –Norme generali’ tratta della ‘Formazione della personalità degli alunni e libertà di insegnamento’
(Lavoro presentato alla II "Assemblea sulla ricerca sulla Concezione Operativa di Gruppo", Madrid, 26-28 aprile 2018. Pubblicato in "ÁREA 3. CUADERNOS DE TEMAS GRUPALES E INSTITUCIONALES", Extra nº 3, verano 2018, www.area3.org.es)
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