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LA VINCOLATA LIBERTA' DEL VOLONTARIO
di Lorenzo Sartini
Relazione presentata al seminario su "Volontariato e comunità sociale" svoltosi nel 2011 presso CUBO Bologna ed organizzato dall'Associazione "Famiglia Aperta" ed il Comune di Bologna.
1. Quali necessità nell’azione del volontario?
Ciò che contraddistingue le associazioni di volontariato fra le altre organizzazioni che agiscono per scopi di utilità sociale è, naturalmente, la dimensione dell’agire per fini di solidarietà: un’azione intrapresa gratuitamente in sostegno e aiuto a persone, gruppi o collettività che si trovano in una qualche condizione di sofferenza o disagio (nella maggior parte dei casi si tratta di disagio di tipo sociale).
Già questo genere di azione racchiude in sé una grande complessità in quanto si possono riscontrare in essa tutta una serie di implicazioni che, in effetti, è molto difficile districare ed analizzare.
Più o meno costante è la domanda relativa alle motivazioni del volontario, di chi fa volontariato: perché lo si fa? A quali necessità va incontro l’azione intrapresa volontariamente? Detta in altro modo, potrebbe essere: a quali necessità risponde l’azione intrapresa volontariamente? L’azione intrapresa volontariamente è veramente un "dono”, così come spesso si dice, di una persona verso un’altra?
Già in ambito antropologico, studiosi e ricercatori tanto si sono spesi sull’analisi e sullo studio del concetto di dono, e ci sono diverse diatribe tutt’ora in corso su questo tema: da ciò deriva necessariamente che la domanda è piuttosto spigolosa e complessa.
Per quanto può essere certa la presenza di forti implicazioni personali nell’azione intrapresa volontariamente, ovverosia nell’azione intrapresa per fini esclusivamente solidaristici, in questa sede non ci interessa tanto discutere ed analizzare questo aspetto dell’attività volontaria, bensì ci interessa maggiormente riflettere sul rapporto esistente tra chi fa volontariato e la propria comunità sociale di appartenenza: sulle potenziali risorse che possono derivare alla comunità dall’azione del volontario ma anche sulle difficoltà che questi incontra nel proprio operato; così come sul vantaggio che comporta lo svolgere un’azione volontaria senza altri interessi di origine esterna, ai fini del raggiungimento del proprio obiettivo, e sullo svantaggio derivante proprio dall’essere indipendente (anche se in maniera relativa, naturalmente, postulato che una piena indipendenza non sarebbe possibile) dalle istituzioni del territorio.
E dunque, spostando il tiro rispetto alle domande sulle implicazioni personali del volontario nella propria attività solidaristica, suggerirei di rispondere alla domanda precedente, ossia “a quali necessità risponde l’azione intrapresa volontariamente”, in questo modo: l’azione intrapresa volontariamente risponde alle necessità della comunità.
2. Il volontario e la comunità
Fare volontariato ed agire per il sostegno e dunque il beneficio di una persona non facente direttamente parte del proprio ambiente, del proprio contesto sociale, implica già di per sé varie cose:
- il riconoscimento dell’altro come persona, con la quale si può interagire;
- di più, una persona con la quale, in quanto tale, si condividono degli interessi, o meglio degli stati in comune, e dunque una persona che ha dei bisogni;
- partendo da queste considerazioni si ritiene di poter avere la possibilità di fare qualcosa che possa aiutare questa persona ad affrontare la propria eventuale condizione di disagio o necessità (1).
Ogni esperienza di tipo solidale comporta il porsi delle domande sulla realtà circostante, su ciò che sta accadendo nel mondo attorno a noi, sul tipo di realtà che ci circonda. Dal punto di vista della critica del sistema sociale attuale si può sostenere che è proprio l’azione volontaria, più di ogni altro tipo di attività, a mettere in discussione la deriva utilitaristica che caratterizza la realtà odierna.
Il volontariato sociale, implicando il contatto tra chi offre aiuto e sostegno, in forma gratuita, e chi se ne avvale, partendo, come si diceva innanzi, dalla considerazione che evidentemente chi se ne avvale è portatore di un bisogno significativo che richiede di essere soddisfatto, struttura una relazione che potremmo definire inusuale in una società, come quella odierna, comunemente riconosciuta come individualista, dove sembra si persegua l’interesse personale, sempre e comunque, a tutto discapito dell’interesse più generale, quello della comunità.
È importante a questo proposito pensare che l’attività di volontariato dovrebbe mirare a favorire la capacità, sì di divenire autosufficienti (ciò che in linea di massima sarebbe un risultato certamente condivisibile ma forse non così di facile attuabilità), ma forse ancora di più, di riuscire a dare il via ad una sorta di interdipendenza solidaristica con gli altri (2), con la comunità appunto: si chiede aiuto al bisogno e lo si dà quando qualcun altro ne ha necessità.
È questo pensarsi vincolati agli altri all’interno della comunità di appartenenza che, a mio modo di vedere, costituisce l’aspetto più interessante e rilevante dell’attività di volontariato. È questa disposizione nei confronti dell’altro che permette di dar vita e costruire quelle reti sociali (e anche professionali) di cui oggi così tanto si parla e che costituiscono le fondamenta di ogni comunità sociale.
Si tratta dell’opportunità di sviluppare quel senso di responsabilità nei confronti della propria comunità derivante dal percepire, come si accennava all’inizio, l’altro come portatore di un bisogno con il quale ci si riesce ad identificare, permettendo ciò di considerare il disagio dell’altro non come prettamente individuale ma, rifacendoci all’epistemologia della complessità, come un disagio/sintomo che emerge dalla comunità sociale nella quale si vive: la responsabilità del proprio atteggiamento non entra tanto in gioco nei confronti del disagio o del bisogno dell’altro, singolo, quanto della comunità più in generale, e dunque della realtà sociale nel suo complesso.
Il volontario mediante il suo impegno si fa portatore di una visione diversa dell’uomo, un uomo che non viene più visto, come unico responsabile colpevole della propria situazione di difficoltà, ma come un essere umano, con il proprio bisogno ed i propri conflitti, inserito in una complessa rete di altri uomini, anch’essi soggetti alle proprie necessità: e con il bisogno del primo, e l’eventuale conseguente disagio, da leggersi come strettamente collegato alle vicissitudini ed ai conflitti espressi in maniera latente, diciamo così, dalla rete sociale nella quale è inserito.
Un modo di vedere il disagio, questo, che si pone in netto contrasto con la cultura predominante che, al contrario, tende a considerare il problema in termini riduzionistici, ossia come esclusivamente circoscritto all’individuo che manifesta il disagio, se si vuole la malattia, e dunque considerandolo come malato, completamente slegato dal gruppo sociale o dalla collettività di appartenenza, che invece vengono costantemente deresponsabilizzate per ciò che concerne l’emergenza di quella situazione problematica.
Il disagiato, chi sta male, è sempre qualcun altro, che essendo malato appunto o sofferente, deve per forza stare al di fuori del gruppo e della comunità. È solamente attraverso questo tipo di pensiero, e questa supposta differenziazione, che ci si può permettere di mantenere l’intima convinzione di far parte della parte “buona” della società, quella ritenuta “normale”; o che permette di “far finta di essere sani”, come cantava Gaber.
Una diversa concezione del disagio sociale che comporta, di conseguenza, anche differenti strategie di risposta: la prima delle quali è l’esigenza di fare rete con le altre realtà sociali all’interno della propria comunità, non tanto per ridurre il peso del “caso” sulle singole realtà che se ne occupano (come invece spesso avviene, soprattutto quando si ha a che fare con le istituzioni che si occupano del sociale), quanto per creare concretamente quei contesti di accoglienza e di reinserimento sociale necessari per il superamento delle situazioni di disagio.
È attraverso l’espressione di tali esigenze, che per forza di cose incontrano le titubanze e le resistenze dei membri della comunità stessa che si deve far carico di chi si trova in condizioni di difficoltà, che si può creare un confronto dialettico che possa stimolare, all’interno della comunità, lo sviluppo di nuovi schemi di riferimento nella concezione del disagio.
3. Difficoltà ed opportunità dell’azione del volontario
Se l’attività volontaria ha dei punti di forza non manca certo di doversi confrontare con condizioni di problematicità: la prima, e forse più importante, è proprio quella che deriva dal rapporto che si crea tra l’azione del volontario ed il beneficiario. Se si aiuta l’altro lo si aiuta anche, e forse soprattutto, cercando di evitare di sviluppare forme di dipendenza assistenzialistica in chi ne beneficia, ciò che comporta il dover sempre riuscire a comprendere dove ci si trova in rapporto con l’altro, in che posizione, e avere sempre bene in mente qual è il compito che, soprattutto in relazione alla comunità di appartenenza, come si diceva poc’anzi, si intende portare avanti.
Ma, così come si sa bene all’interno delle istituzioni professionali impegnate nell’ambito del sociale, non è così scontato il riuscire a porsi alla giusta distanza da chi deve beneficiare del servizio medesimo: sempre c’è il rischio di cadere in quella forma subdola di dipendenza da chi dà aiuto che è, appunto, l’assistenzialismo. Allora il volontario, forse più che l’operatore delle istituzioni, deve riuscire a capire con una certa chiarezza in che posizione si trova e che cosa sta facendo; sempre deve chiedersi in mezzo a che tipo di dinamiche si sta immergendo. È questo un compito assolutamente complesso e che merita invero molta attenzione; il paradosso è che, in qualsiasi realtà impegnata nell’attività sociale (istituzionale o volontaria che sia), sembra non se ne parli mai abbastanza.
In effetti il volontario, essendo coinvolto spesso in situazioni che hanno raggiunto livelli di emergenza, rischia continuamente di essere assorbito dalla complessità delle circostanze, perdendo di vista l’obiettivo della propria azione e vanificando così gli sforzi compiuti fino ad un dato momento per favorire la “ripresa” delle funzioni e delle possibilità evolutive di chi si trova in difficoltà. D’altra parte è proprio questo coinvolgimento gratuito ma “appassionato” del volontario che gli permette di porsi, in rapporto a chi si trova in difficoltà, come una persona degna di fiducia cui potersi, entro certi limiti naturalmente, affidare.
Questo credo sia un punto di criticità dell’azione del volontario da non perdere mai di vista e sul quale invece bisognerebbe investire sia da parte delle associazioni di volontariato ma anche da parte delle istituzioni, per le quali le realtà del volontariato possono di fatto costituire una collaborazione di notevole importanza per sviluppare un’adeguata azione sociale sul territorio.
Realtà che, quindi, dal mondo istituzionale dovrebbero essere favorite e sostenute, anche e soprattutto nel mantenimento della loro indipendenza, attraverso il riconoscimento delle competenze e delle azioni messe in campo e, di conseguenza, attraverso un più stretto coinvolgimento sia in fase di analisi dei bisogni espressi dai diversi territori e sia di elaborazione delle politiche sociali da intraprendere, e non solamente utilizzandolo in fase operativa in quei momenti di difficoltà (leggasi crisi economiche) che coinvolgono, sempre più spesso, le stesse realtà istituzionali.
4. Il volontario e la sua autonomia
Continuando con questa ottica possiamo ritenere che quella del volontario sia una posizione privilegiata poiché, attuando, a favore della persona o collettività che vive una certa situazione di disagio/bisogno, un intervento caratterizzato più che altro dalla gratuità, e dunque potenzialmente scevro da interessi immediati (ovvero di norma non dipendendo dalle risorse di un finanziatore o da legami forzati di reciprocità), si pone in maniera fortemente dis-implicata dai vincoli istituzionali esterni, e dunque ritrovandosi in una posizione agevolata rispetto alle possibilità di dialogo e scambio con il territorio e le istituzioni.
Una condizione di libertà di movimento e di autonomia di pensiero che non è riscontrabile nelle istituzioni territoriali, solitamente organizzate con una gestione di tipo piramidale e caratterizzate da un alto livello di burocrazia al proprio interno, e che permette al volontario, e alle associazioni di appartenenza, anche di poter assumere una posizione di critica non condizionata, e dunque perciò stesso di notevole valore, rispetto agli altri attori del territorio.
Tale posizione di autonomia, a conti fatti, può essere considerata il maggiore dei punti di forza della realtà del volontariato poiché gli permette di poter organizzare le proprie iniziative con particolare attenzione ai bisogni sociali del territorio a seconda delle necessità del momento e di creare attività solidali di sostegno che possano inserirsi nei punti critici delle reti sociali (3) andandole a rafforzare, anche in appoggio agli altri servizi già operanti sul territorio.
E credo sia proprio a partire da questa sua caratterizzazione, ossia per la possibilità di critica dell’esistente e di messa in atto della propria progettualità rispetto ai contesti socio-culturali ed istituzionali che si trovano comunque alla base delle contraddizioni insite nel sistema sociale esistente, che l’attività del volontario possa essere considerata anche come uno strumento di considerevole efficacia per far fronte a quelle stesse contraddizioni.
È proprio il suo toccare con mano le situazioni anche estreme di disagio partendo da una condizione di dis-implicazione rispetto ad interessi esterni, ciò che gli permette di sviluppare una riflessione di rilievo sulle iniquità della società permettendogli di fungere da amplificatore della flebile voce di quelle persone che versano in situazioni di difficoltà e di far contemporaneamente emergere le contraddizioni presenti in un sistema sociale il quale, almeno stando alle parole che provengono dagli ambienti “alti” della politica istituzionale, sarebbe organizzato con il fine di permettere a tutti coloro che ne partecipano di avere la possibilità di vivere in condizioni dignitose e di sollevarsi dalle situazioni di difficoltà, quando poi ci si rende conto, rimanendo alla concretezza dei fatti, che una vita dignitosa non a tutti è permessa e che chi si trova in una situazione di disagio nella maggior parte dei casi lì rimane.
È da qui che si muove, soprattutto, la necessità della presenza delle realtà del volontariato sociale sul territorio; o, detto in altri termini, la necessità dell’azione del volontario.
1 “Riflessioni su caratteristiche e valori portanti del volontariato che incontra le istituzioni sociali”, Consulta Ecclesiale degli Organismi Socio-Assitenziali (2006).
2 Ibidem.
3 Ibidem
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