SCRITTI
RECENSIONE DEL LIBRO
"IN CLASSE CON LA TESTA. TEORIA E PRATICA DELL'APPRENDERE IN GRUPPO"
DI FRANCESCO BERTO E PAOLA SCALARI (LA MERIDIANA, 2016)
di Lorenzo Sartini
“In classe con la testa. Teoria e pratica dell’apprendere in gruppo” è l’ultima fatica dell’oramai rodatissima coppia Berto-Scalari, insegnante per lunga parte della sua vita, il primo, e psicoterapeuta e psicosocioanalista, la seconda. Leggendo il libro uno dei primi pensieri che mi è venuto in mente è che lo sfondo su cui si impernia fosse costituito dal concetto di istituzione proposto dallo psicoanalista argentino José Bleger, non a caso a più riprese citato nel testo, che intende l’istituzione come gruppo di gruppi. In effetti, nelle tre parti che costituiscono il libro (“Gruppi operativi nell’apprendimento: dal conflitto alla conoscenza”, “A scuola per pensare la classe al lavoro”, “Dal gruppo familiare al gruppo sociale: narrare e narrarsi per costruire l’identità”), gli autori si occupano del mondo della scuola a tutto tondo, ovvero dei vari gruppi che contribuiscono a formare la scuola intesa come istituzione: considerano le dinamiche relazionali e di apprendimento che avvengono in classe, come si può intuire dal titolo, ma estendono il loro sguardo al di là dei confini della classe fino a esaminare i movimenti ed i processi che investono le altre parti implicate nel mondo della scuola, ossia gli insegnanti, le famiglie ed i servizi territoriali.
Una scuola alla quale, in contrapposizione alla tendenza attuale della ‘polis’, che pare impegnata a dividere ed erigere muri, viene assegnato un compito di grande portata e complessità: “La scuola è il luogo deputato a far apprendere alle nuove generazioni come avviare e sostenere relazioni con l’altro da sé godendo dei rapporti con i docenti, i compagni e persino con gli ‘autori’ che, giorno dopo giorno, potranno scoprire e amare”. Dunque, incontro e conoscenza; o forse, ancora meglio, incontro è conoscenza.
Uno dei fili conduttori del libro è certamente costituito dal pensare il gruppo come ‘luogo’, ineludibile, di origine e di continua costruzione della soggettività; un’idea di gruppo che si radica decisamente nella corrente psicoanalitica argentina dalla concezione operativa che prende le mosse dagli psicoanalisti e psicologi sociali Enrique Pichon-Riviére, il già citato José Bleger e Armando Bauleo, e che in Italia è stata ripresa anche dalla psicoscioanalisi di Luigi Pagliarani.
Scrivono gli autori, infatti, che il gruppo “rappresenta il contesto dove nasciamo non solo fisicamente, visto che ogni figlio è generato da due esseri umani, ma anche psichicamente, dato che ognuno deve differenziarsi e ascoltare le diverse istanze che lo animano e scegliere tra le sue confuse voci interiori”. E se si nasce in un gruppo, quello familiare, è frequentando gli altri gruppi che si incontrano nel corso della propria vita, primi tra tutti quelli dei quali si è parte nelle scuole che si attraversano, che si possono mettere in discussione e modificare gli apprendimenti iniziali. Il gruppo-classe, così, viene considerato un’opportunità fondamentale per aiutare gli studenti a sviluppare le proprie capacità e ad evolvere non solo dal punto di vista dell’apprendimento didattico ma anche, e soprattutto, da quello delle competenze relazionali e della conoscenza di se stessi. Un gruppo, quindi, che può permettere di separarsi dalle appartenenze gruppali e dalle identità precedenti, di lavorare sulle parti del Sé atrofizzate per trasformarle in virtù delle richieste contestuali cui si è sottoposti e di trovare nuove modalità per stabilire nuove relazioni e produrre nuovi apprendimenti.
Fondamentale, per raggiungere questo scopo, è la figura del maestro/insegnante che, armato della necessaria passione richiesta dal ruolo per stimolare l’attenzione e la curiosità degli allievi e mettere in moto il loro pensiero, costituisce un altro filo conduttore del libro. Anzi, forse quello di maggior importanza, visto che il libro termina con la testimonianza dello stesso Francesco Berto a proposito della sua lunga esperienza nel mondo della scuola e del metodo di insegnamento da lui sviluppato. Viene da pensare quasi un testamento della sua opera.
Il ruolo dell’insegnante, comunque, nella sua capacità di stare in relazione con le espressioni del gruppo che si viene formando, giorno dopo giorno, in aula, viene ritenuto di fondamentale importanza al fine di favorire le dinamiche di apprendimento nel gruppo-classe. Per lo stesso motivo, non gli viene richiesto solamente una preparazione rispetto alle materie disciplinari di sua competenza ma anche uno schema concettuale di riferimento, per dirla con Pichon-Riviére, che gli consenta la capacità di gestire il processo gruppale che si sviluppa in aula e delle dinamiche socio-affettive ad esso sottese.
L’insegnante viene inteso come un coordinatore della classe che cerca di facilitare la costituzione del gruppo favorendo la comunicazione ‘orizzontale’ e gestendo le proiezioni che vengono fatte sulla sua figura dagli alunni al fine di trasformarle in esperienza vissuta nel qui ed ora della lezione: “C’è chi idealizza la sua figura, chi si sente intimorito, chi desidera annullare ogni differenza di status nel dare un confidenziale tu e chi si adopera per ignorarlo. Il maestro non teme queste posizioni mentali collettive o espresse anche da un singolo alunno a nome del gruppo, ma se ne fa carico leggendole come materiale emotivo su cui far lavorare la classe”.
Il lavoro sulla sfera emotiva del gruppo è molto importante. Uno dei compiti fondamentali dell’insegnante è quello di riuscire a fungere da ‘contenitore’ delle espressioni emotive che possono avvenire in classe: rispettare i tempi della classe, sostenerla nei momenti di impasse, fornire informazioni laddove possono essere necessarie per produrre conoscenza, aiutarla a dare senso alle difficoltà ed ai blocchi emotivi e cognitivi che vengono espressi. È considerando questa complessità che l’insegnante, cui viene richiesta una sicura preparazione sulla sua materia disciplinare, può inserire gli argomenti più idonei al momento che vive la classe, suscitandone l’interesse e stimolandone il pensiero. Come notano gli autori, infatti, è la stretta correlazione tra i saperi disciplinari ed i saperi affettivi che può permettere agli alunni di “vivere la scuola come un’esperienza interessante, utile, evolutiva”, di fare concretamente esperienza dell’informazione che si riceve, ossia di apprendere.
Perché per Berto e Scalari l’apprendimento non è mera ripetizione, fredda stereotipia, semplice nozionismo, ma capacità di pensiero, creazione di collegamenti, possibilità di movimento, libertà creativa (e, dunque, anche trasgressività): in una parola, ciò che ci introduce al terzo filo conduttore del libro, Ricerca.
Quello della Ricerca è il metodo di insegnamento che ha messo a punto Francesco Berto, una lunga e movimentata carriera di insegnante alle spalle, prima, e apprezzato consulente e formatore, poi. Il suo metodo didattico è fondato sul considerare la classe come un gruppo di lavoro cui viene riconosciuta piena dignità, ovvero la capacità di pensare e ragionare (può sembrare banale dirlo ma così non è affatto), e con la quale è possibile mettersi in relazione ponendo attenzione ai vissuti emotivi che vengono espressi in aula. Compito quanto mai ostico ma anche potenzialmente foriero di grandi soddisfazioni. Nella visione degli autori l’insegnamento deve fungere da metodo di ricerca per poter arrivare alla scoperta e alla conoscenza di se stessi e dell’altro. Scoperta che però non può avvenire senza attraversare prima momenti di crisi e instabilità interiore poiché, sempre, si ha a che fare con lo sconosciuto, l’ignoto, ciò che non si sa. Allora, non si ripropongono programmi, non si presentano lezioni già preparate o prodotti già preconfezionati, ma si lavora sullo scambio relazionale che avviene tra l’insegnante e gli allievi; si parte da ciò che emerge in classe in termini emotivi ed intellettivi. Si parte dalla mancanza, da ciò che manca e che, per ciò stesso, è necessario ricercare.
Ho scelto questo passo, estrapolato da uno dei tre capitoli conclusivi nei quali ci viene data l’opportunità di ascoltare il Maestro Berto raccontare il suo percorso professionale e la sua esperienza di insegnante/ricercatore, per dare un’idea del suo modo di intendere l’insegnamento ed il metodo della Ricerca: “La mia è una scuola basata sulla relazione e perciò fondata sull’incontro umano che diventa creazione di un linguaggio simbolico per la necessità di comunicare. È stato però necessario, nel tempo, affinare la capacità di dare voce al clima affettivo della classe. L’emozione che sta circolando va catturata e resa esplicita sotto forma di interrogativo. Quando l’avverto quindi è il saper porre domande il motore della Ricerca. Io sono per una scuola che insegni a porsi dubbi più che per una scuola che saturi la mente con risposte codificate. Dunque la capacità del docente sta nel capire quale quesito è più vicino al sentire della classe e perciò meglio risponda alla prossimità della conoscenza che è necessario andare sviluppando. Questa capacità ovviamente l’ho affinata negli anni.”
Nel corso del libro, partendo da esempi di situazioni spinose facilmente riscontrabili all’interno di ogni tipo di scuola, gli autori sottolineano a più riprese il fatto che, al fine di affrontare situazioni di una certa complessità, è fondamentale lasciare da parte il proprio desiderio di onnipotenza e ricercare l’apporto e la collaborazione di tutti gli attori (scuola, famiglia, servizi territoriali) presenti in una specifica comunità sociale. Ma non per diagnosticare ed etichettare, sgravandosi così dalla fatica dell’eventuale necessaria presa in carico, bensì per ascoltare, cercare di comprendere ed aiutare. La collaborazione con i servizi territoriali viene ritenuta di fondamentale importanza non solo per affrontare le situazioni di più serio disagio sociale riguardanti singoli alunni, ma anche per scopi formativi rispetto a temi complessi e di difficile trattazione all’interno della scuola come lo sono alcuni di quelli menzionati nella seconda parte del libro: quelli della sessualità e delle sostanze stupefacenti, ad esempio.
“In classe con la testa” è un libro che risulta molto scorrevole alla lettura e, nonostante questa parvenza di semplicità, riesce ad essere molto denso di spunti e ricco di stimoli di riflessione. Un libro che si propone di affrontare il mondo della scuola a 360 gradi analizzandone i vari livelli di complessità e che, considerando le differenti particolarità dei gruppi che interagiscono con quel mondo, si propone anche come vero e proprio strumento ‘operativo’, ovvero come strumento guida per agire concretamente sul campo.
“In classe con la testa. Teoria e pratica dell’apprendere in gruppo” è l’ultima fatica dell’oramai rodatissima coppia Berto-Scalari, insegnante per lunga parte della sua vita, il primo, e psicoterapeuta e psicosocioanalista, la seconda. Leggendo il libro uno dei primi pensieri che mi è venuto in mente è che lo sfondo su cui si impernia fosse costituito dal concetto di istituzione proposto dallo psicoanalista argentino José Bleger, non a caso a più riprese citato nel testo, che intende l’istituzione come gruppo di gruppi. In effetti, nelle tre parti che costituiscono il libro (“Gruppi operativi nell’apprendimento: dal conflitto alla conoscenza”, “A scuola per pensare la classe al lavoro”, “Dal gruppo familiare al gruppo sociale: narrare e narrarsi per costruire l’identità”), gli autori si occupano del mondo della scuola a tutto tondo, ovvero dei vari gruppi che contribuiscono a formare la scuola intesa come istituzione: considerano le dinamiche relazionali e di apprendimento che avvengono in classe, come si può intuire dal titolo, ma estendono il loro sguardo al di là dei confini della classe fino a esaminare i movimenti ed i processi che investono le altre parti implicate nel mondo della scuola, ossia gli insegnanti, le famiglie ed i servizi territoriali.
Una scuola alla quale, in contrapposizione alla tendenza attuale della ‘polis’, che pare impegnata a dividere ed erigere muri, viene assegnato un compito di grande portata e complessità: “La scuola è il luogo deputato a far apprendere alle nuove generazioni come avviare e sostenere relazioni con l’altro da sé godendo dei rapporti con i docenti, i compagni e persino con gli ‘autori’ che, giorno dopo giorno, potranno scoprire e amare”. Dunque, incontro e conoscenza; o forse, ancora meglio, incontro è conoscenza.
Uno dei fili conduttori del libro è certamente costituito dal pensare il gruppo come ‘luogo’, ineludibile, di origine e di continua costruzione della soggettività; un’idea di gruppo che si radica decisamente nella corrente psicoanalitica argentina dalla concezione operativa che prende le mosse dagli psicoanalisti e psicologi sociali Enrique Pichon-Riviére, il già citato José Bleger e Armando Bauleo, e che in Italia è stata ripresa anche dalla psicoscioanalisi di Luigi Pagliarani.
Scrivono gli autori, infatti, che il gruppo “rappresenta il contesto dove nasciamo non solo fisicamente, visto che ogni figlio è generato da due esseri umani, ma anche psichicamente, dato che ognuno deve differenziarsi e ascoltare le diverse istanze che lo animano e scegliere tra le sue confuse voci interiori”. E se si nasce in un gruppo, quello familiare, è frequentando gli altri gruppi che si incontrano nel corso della propria vita, primi tra tutti quelli dei quali si è parte nelle scuole che si attraversano, che si possono mettere in discussione e modificare gli apprendimenti iniziali. Il gruppo-classe, così, viene considerato un’opportunità fondamentale per aiutare gli studenti a sviluppare le proprie capacità e ad evolvere non solo dal punto di vista dell’apprendimento didattico ma anche, e soprattutto, da quello delle competenze relazionali e della conoscenza di se stessi. Un gruppo, quindi, che può permettere di separarsi dalle appartenenze gruppali e dalle identità precedenti, di lavorare sulle parti del Sé atrofizzate per trasformarle in virtù delle richieste contestuali cui si è sottoposti e di trovare nuove modalità per stabilire nuove relazioni e produrre nuovi apprendimenti.
Fondamentale, per raggiungere questo scopo, è la figura del maestro/insegnante che, armato della necessaria passione richiesta dal ruolo per stimolare l’attenzione e la curiosità degli allievi e mettere in moto il loro pensiero, costituisce un altro filo conduttore del libro. Anzi, forse quello di maggior importanza, visto che il libro termina con la testimonianza dello stesso Francesco Berto a proposito della sua lunga esperienza nel mondo della scuola e del metodo di insegnamento da lui sviluppato. Viene da pensare quasi un testamento della sua opera.
Il ruolo dell’insegnante, comunque, nella sua capacità di stare in relazione con le espressioni del gruppo che si viene formando, giorno dopo giorno, in aula, viene ritenuto di fondamentale importanza al fine di favorire le dinamiche di apprendimento nel gruppo-classe. Per lo stesso motivo, non gli viene richiesto solamente una preparazione rispetto alle materie disciplinari di sua competenza ma anche uno schema concettuale di riferimento, per dirla con Pichon-Riviére, che gli consenta la capacità di gestire il processo gruppale che si sviluppa in aula e delle dinamiche socio-affettive ad esso sottese.
L’insegnante viene inteso come un coordinatore della classe che cerca di facilitare la costituzione del gruppo favorendo la comunicazione ‘orizzontale’ e gestendo le proiezioni che vengono fatte sulla sua figura dagli alunni al fine di trasformarle in esperienza vissuta nel qui ed ora della lezione: “C’è chi idealizza la sua figura, chi si sente intimorito, chi desidera annullare ogni differenza di status nel dare un confidenziale tu e chi si adopera per ignorarlo. Il maestro non teme queste posizioni mentali collettive o espresse anche da un singolo alunno a nome del gruppo, ma se ne fa carico leggendole come materiale emotivo su cui far lavorare la classe”.
Il lavoro sulla sfera emotiva del gruppo è molto importante. Uno dei compiti fondamentali dell’insegnante è quello di riuscire a fungere da ‘contenitore’ delle espressioni emotive che possono avvenire in classe: rispettare i tempi della classe, sostenerla nei momenti di impasse, fornire informazioni laddove possono essere necessarie per produrre conoscenza, aiutarla a dare senso alle difficoltà ed ai blocchi emotivi e cognitivi che vengono espressi. È considerando questa complessità che l’insegnante, cui viene richiesta una sicura preparazione sulla sua materia disciplinare, può inserire gli argomenti più idonei al momento che vive la classe, suscitandone l’interesse e stimolandone il pensiero. Come notano gli autori, infatti, è la stretta correlazione tra i saperi disciplinari ed i saperi affettivi che può permettere agli alunni di “vivere la scuola come un’esperienza interessante, utile, evolutiva”, di fare concretamente esperienza dell’informazione che si riceve, ossia di apprendere.
Perché per Berto e Scalari l’apprendimento non è mera ripetizione, fredda stereotipia, semplice nozionismo, ma capacità di pensiero, creazione di collegamenti, possibilità di movimento, libertà creativa (e, dunque, anche trasgressività): in una parola, ciò che ci introduce al terzo filo conduttore del libro, Ricerca.
Quello della Ricerca è il metodo di insegnamento che ha messo a punto Francesco Berto, una lunga e movimentata carriera di insegnante alle spalle, prima, e apprezzato consulente e formatore, poi. Il suo metodo didattico è fondato sul considerare la classe come un gruppo di lavoro cui viene riconosciuta piena dignità, ovvero la capacità di pensare e ragionare (può sembrare banale dirlo ma così non è affatto), e con la quale è possibile mettersi in relazione ponendo attenzione ai vissuti emotivi che vengono espressi in aula. Compito quanto mai ostico ma anche potenzialmente foriero di grandi soddisfazioni. Nella visione degli autori l’insegnamento deve fungere da metodo di ricerca per poter arrivare alla scoperta e alla conoscenza di se stessi e dell’altro. Scoperta che però non può avvenire senza attraversare prima momenti di crisi e instabilità interiore poiché, sempre, si ha a che fare con lo sconosciuto, l’ignoto, ciò che non si sa. Allora, non si ripropongono programmi, non si presentano lezioni già preparate o prodotti già preconfezionati, ma si lavora sullo scambio relazionale che avviene tra l’insegnante e gli allievi; si parte da ciò che emerge in classe in termini emotivi ed intellettivi. Si parte dalla mancanza, da ciò che manca e che, per ciò stesso, è necessario ricercare.
Ho scelto questo passo, estrapolato da uno dei tre capitoli conclusivi nei quali ci viene data l’opportunità di ascoltare il Maestro Berto raccontare il suo percorso professionale e la sua esperienza di insegnante/ricercatore, per dare un’idea del suo modo di intendere l’insegnamento ed il metodo della Ricerca: “La mia è una scuola basata sulla relazione e perciò fondata sull’incontro umano che diventa creazione di un linguaggio simbolico per la necessità di comunicare. È stato però necessario, nel tempo, affinare la capacità di dare voce al clima affettivo della classe. L’emozione che sta circolando va catturata e resa esplicita sotto forma di interrogativo. Quando l’avverto quindi è il saper porre domande il motore della Ricerca. Io sono per una scuola che insegni a porsi dubbi più che per una scuola che saturi la mente con risposte codificate. Dunque la capacità del docente sta nel capire quale quesito è più vicino al sentire della classe e perciò meglio risponda alla prossimità della conoscenza che è necessario andare sviluppando. Questa capacità ovviamente l’ho affinata negli anni.”
Nel corso del libro, partendo da esempi di situazioni spinose facilmente riscontrabili all’interno di ogni tipo di scuola, gli autori sottolineano a più riprese il fatto che, al fine di affrontare situazioni di una certa complessità, è fondamentale lasciare da parte il proprio desiderio di onnipotenza e ricercare l’apporto e la collaborazione di tutti gli attori (scuola, famiglia, servizi territoriali) presenti in una specifica comunità sociale. Ma non per diagnosticare ed etichettare, sgravandosi così dalla fatica dell’eventuale necessaria presa in carico, bensì per ascoltare, cercare di comprendere ed aiutare. La collaborazione con i servizi territoriali viene ritenuta di fondamentale importanza non solo per affrontare le situazioni di più serio disagio sociale riguardanti singoli alunni, ma anche per scopi formativi rispetto a temi complessi e di difficile trattazione all’interno della scuola come lo sono alcuni di quelli menzionati nella seconda parte del libro: quelli della sessualità e delle sostanze stupefacenti, ad esempio.
“In classe con la testa” è un libro che risulta molto scorrevole alla lettura e, nonostante questa parvenza di semplicità, riesce ad essere molto denso di spunti e ricco di stimoli di riflessione. Un libro che si propone di affrontare il mondo della scuola a 360 gradi analizzandone i vari livelli di complessità e che, considerando le differenti particolarità dei gruppi che interagiscono con quel mondo, si propone anche come vero e proprio strumento ‘operativo’, ovvero come strumento guida per agire concretamente sul campo.
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