SCRITTI
SINTESI DE "IL COLLOQUIO PSICOLOGICO" DI JOSE' BLEGER
(da “Psicoigiene e psicologia istituzionale”, pp. 221 – 249, Libreria Editrice Laureatana, 1989)
a cura di Lorenzo Sartini
Il colloquio è uno strumento fondamentale del metodo clinico e costituisce una tecnica di indagine scientifica della psicologia. Questo strumento fa confluire nello psicologo le funzioni del ricercatore e dell’operatore poiché la tecnica è il punto di interazione fra la scienza e le esigenze di carattere pratico.
Il colloquio può essere di due tipo: aperto o chiuso. Nel colloquio chiuso le domande sono già state predisposte, come anche l’ordine e la modalità della loro formulazione; è in realtà un questionario che ha una stretta relazione con il colloquio in quanto l’utilizzazione di certi principi che stanno alla base di quest’ultimo consente e facilita l’applicazione del questionario stesso. Nel colloquio aperto, invece, l’esaminatore ha ampia libertà per quanto riguarda domande e interventi, ma non è essenzialmente caratterizzato dalla libertà di porre domande poiché il nucleo essenziale risiede altrove. La libertà dell’esaminatore, nel caso del colloquio aperto, consiste in una flessibilità sufficiente a permettere all’esaminando, per quanto possibile, di configurare l’ambito del colloquio secondo la sua particolare struttura psicologica o, in altri termini, a far sì che il campo del colloquio si configuri il più possibile in base alle variabili che dipendono dalla personalità del soggetto esaminato. Considerato in questo modo il colloquio aperto consente di compiere un’indagine più ampia e approfondita sulla personalità dell’esaminando, mentre il colloquio chiuso può consentire una migliore comparazione sistematica dei dati, oltre a presentare altri vantaggi propri di ogni metodo standardizzato.
Si può poi distinguere tra colloquio individuale e di gruppo, anche se, in realtà, il colloquio psicologico è sempre, in ogni caso, un fenomeno di gruppo poiché, anche quando vi partecipa un solo esaminando, la sua relazione con l’esaminatore deve essere considerata in funzione della psicologia e della dinamica di gruppo.
Un’altra distinzione è legata al beneficiario del risultato:
a) il colloquio di consultazione psicologica o psichiatrica è realizzato a beneficio dell’esaminando;
b) il colloquio con obiettivi di ricerca pone attenzione ai risultati scientifici;
c) il colloquio viene effettuato nell’interesse di un terzo (un’istituzione).
Ognuno di essi comprende diverse variabili delle quali si dovrà tener conto, modificando o condizionando l’atteggiamento sia dell’esaminando che dell’esaminatore, nonché il campo globale del colloquio.
Colloqui, consultazione e diagnosi
La consultazione consiste in una richiesta di assistenza tecnica e professionale che può venire soddisfatta in molti modi, uno dei quali è il colloquio: dunque la consultazione non è sinonimo di colloquio poiché quest’ultimo è soltanto uno dei procedimenti con cui il tecnico o l’operatore, psicologo o medico, può rispondere alla consultazione.
Il colloquio non è un’anamnesi, la quale presupporrebbe una raccolta di dati previsti così estesa e dettagliata da permettere una sintesi sia della situazione presente che del vissuto dell’individuo. La preoccupazione ed il fine dell’anamnesi consistono nella raccolta di dati ed il paziente è ridotto al ruolo intermediario fra la sua malattia, la sua vita e i suoi dati da un lato, e il medico dall’altro. Se il paziente non fornisce i dati bisogna “tirarglieli fuori” e qualunque altro apporto del paziente viene considerato un elemento perturbatore dell’anamnesi. Non è infrequente che l’anamnesi venga fatta per ragioni statistiche o per osservare il regolamento di un’istituzione.
A differenza della consultazione e dell’anamnesi, il colloquio psicologico è volto allo studio e all’utilizzazione del comportamento globale del soggetto durante tutto il corso della relazione stabilita con il tecnico.
Il colloquio psicologico è una relazione di natura particolare che si instaura fra due o più persone. La specificità di tale relazione consiste nel fatto che una delle parti che vi intervengono è un tecnico della psicologia che deve agire in questa veste, mentre l’altra ha bisogno del suo intervento tecnico. Uno dei punti fondamentali è che nel colloquio il tecnico non soltanto utilizza le sue conoscenze psicologiche per applicarle all’esaminando, ma le applica precisamente attraverso il comportamento che tiene nel corso di esso. Quindi, si potrebbe dire che il colloquio consiste in un rapporto umano in cui uno di coloro che vi partecipano deve cercare di sapere quello che in esso sta avvenendo e agire sulla base di tale cognizione. Da questa comprensione e dall’azione che ne deriva dipende il conseguimento dei possibili obiettivi del colloquio (indagine, diagnosi, orientamento, ecc.).
La regola fondamentale consiste nell’ottenere dati completi non più sull’intera vita di una persona, ma sul suo comportamento globale nel corso del colloquio. In questo comportamento globale rientrano gli elementi che raccoglieremo non soltanto nel nostro ruolo di ascoltatori, ma anche attraverso l’utilizzazione del nostro vissuto e l’osservazione, in modo che questi dati comprendano le tre aree della condotta dell’esaminando.
La teoria del colloquio ha subito l’influenza della psicoanalisi (dimensione inconscia del comportamento, transfert, controtransfert, resistenza, rimozione, proiezione, introiezione, ecc.), della Gestalt (colloquio come un tutto in cui l’esaminatore è uno dei partecipanti e il suo comportamento è uno degli elementi dell’insieme), della topologia (attenzione al campo psicologico e le sue leggi, prospettiva situazionale) e del comportamentismo (osservazione del comportamento): tutto questo ha consentito di effettuare il colloquio in condizioni metodologiche più rigorose e più valide dal punto di vista scientifico.
Il colloquio come campo
Nel colloquio si configura un campo, ossia fra coloro che vi partecipano si struttura una relazione dalla quale dipende tutto quello che avviene al suo interno. La differenza fondamentale fra il colloquio e qualsiasi altro tipo di relazione interpersonale (come l’anamnesi) consiste in questo: nel primo caso la regola principale è quella di fare in modo che il campo si configuri, per quanto possibile, soprattutto in base alle variabili che dipendono dalla personalità dell’esaminando. Sebbene ogni emergente sia sempre di tipo relazionale, nel colloquio cerchiamo di far sì che tale campo sia determinato per lo più dalle modalità della personalità dell’esaminando: l’esaminatore controlla il colloquio, ma chi lo dirige è l’esaminando. La relazione fra i due delimita e determina il campo del colloquio e tutto quello che in esso avviene, ma l’esaminatore deve permettere che il campo della relazione interpersonale venga stabilito e configurato prevalentemente dall’esaminando.
Ogni essere umano ha sistematizzato la propria personalità in una serie di modelli o in un insieme di possibilità, e sono queste che noi ci aspettiamo vengano messe in gioco o esteriorizzate nel corso del colloquio. Il colloquio, dunque, funziona come una situazione in cui si osserva una parte della vita del paziente che si svolge in rapporto a noi, di fronte a noi.
Il colloquio non può sostituire o escludere altri procedimenti di indagine della personalità, ma questi ultimi a loro volta non possono prescindere dal colloquio (es. il trattamento psicoanalitico che permette una conoscenza più estesa e approfondita).
Per ottenere quel particolare campo del colloquio da noi esaminato, dobbiamo rimanere all’interno di una cornice fissa, risultante dalla trasformazione di un dato insieme di variabili in costanti. Questo inquadramento comprende non soltanto l’atteggiamento tecnico e il ruolo dell’esaminatore ma anche gli obiettivi, il luogo ed il tempo del colloquio.
L’inquadramento funziona come una specie di standardizzazione della situazione di stimolo che offriamo all’esaminando; volgiamo fare in modo che tale situazione smetta non tanto di costituire per lui uno stimolo, quanto di oscillare come variabile per l’esaminatore. Se si modifica l’inquadramento (perché, ad esempio, il colloquio si svolge in un luogo diverso), questo cambiamento deve essere considerato una variabile da sottoporre ad osservazione. Ogni colloquio ha un contesto definito (un insieme di costanti e di variabili) in funzione del quale vengono alla luce gli emergenti, che hanno un senso unicamente in funzione di tale contesto.
Il campo del colloquio non è fisso ma dinamico, il che significa che è soggetto ad una costante modifica, e l’osservazione deve essere estesa dal campo specifico esistente in ogni momento alla continuità e al senso di questi cambiamenti. È l’esame della continuità e della contiguità dei mutamenti a permettere di completare l’osservazione e di dedurre la struttura e il senso di ogni campo. Il campo del colloquio copre il processo nella sua totalità. Per arrivare ad una sistematizzazione che consenta l’esame dettagliato del colloquio come campo, lo studio deve essere incentrato su:
a) l’esaminatore (il suo atteggiamento, la sua dissociazione strumentale, il controtransfert, l’identificazione, ecc.);
b) l’esaminando (il transfert, le strutture di comportamento, i tratti del carattere, le ansie, le difese, ecc.);
c) la relazione interpersonale, nel cui ambito rientrano l’interazione fra i partecipanti, il processo di comunicazione (proiezione, introiezione, identificazione, ecc.), il problema dell’ansia, ecc.
Concordanze e divergenze
Una differenza fondamentale tra il colloquio e l’anamnesi è che nell’anamnesi si ipotizza che colui che richiede la consultazione conosca la propria vita e sia quindi in grado di fornire dati su di essa, mentre nel colloquio si presume che ogni essere umano abbia una storia organizzata della sua vita e uno schema del suo presente, e che da questa storia e da questo schema si debba dedurre ciò che non sa. Secondariamente, tutto quello che non è in grado di fornirci sotto forma di conoscenza esplicita emerge dal suo comportamento non verbale, che può produrre informazioni coincidenti o contrastanti con quelle espresse verbalmente e consciamente.
Le lacune, le dissociazioni e le contraddizioni che possono emergere nei vari colloqui fanno emergere dei dubbi sull’affidabilità dello strumento a qualche ricercatore, ma lo strumento non fa altro che riflettere quelle che sono le caratteristiche dell’oggetto di studio. Le dissociazioni e le contraddizioni che si osservano corrispondono a dissociazioni e contraddizioni della personalità stessa, e il colloquio, riflettendole, ci permette di lavorare su di esse durante il loro manifestarsi; che questo si possa fare o meno dipende dall’intensità dell’angoscia che si è in grado di provocare e dalla tolleranza dimostrata dall’esaminando nei confronti di tale angoscia. Analogamente, i conflitti che egli esplicita di solito non sono quelli fondamentali, così come le motivazioni che adduce sono generalmente razionalizzazioni.
Nel colloquio, la simulazione perde l’importanza che ha nell’anamnesi come fattore di perturbazione, in quanto deve essere considerata una parte dissociata della personalità che l’esaminando non riconosce totalmente come propria. I dati non devono essere valutati sulla base della loro veridicità o erroneità, ma come gradi o fenomeni di dissociazione della personalità. Una situazione tipica, e in parte opposta a quella appena considerata, si presenta quando l’esaminando organizza rigidamente la propria storia e lo schema presente come mezzo di difesa nei confronti della capacità di penetrazione dell’esaminatore e del suo stesso contatto con aree conflittuali della sua situazione reale e della sua personalità.
Quando si sottopongono a un colloquio vari componenti di un gruppo o di un’istituzione (famiglia, scuola, fabbrica, ecc.), queste divergenze o contraddizioni sono molto più frequenti e manifeste, e costituiscono dei dati estremamente importanti sul modo in cui ciascun membro ha organizzato in una stessa realtà un campo psicologico a lui peculiare. L’insieme ci fornisce un indice fedele del carattere del gruppo o dell’istituzione, delle sue tensioni e dei suoi conflitti, della sua particolare organizzazione e dinamica psicologica.
La tecnica e la sua teoria sono in stretta relazione con la teoria della personalità sulla base della quale si lavora; il grado di interazione a cui l’esaminatore riesce a portarle ci dà la misura della sua capacità operativa come ricercatore. Il colloquio non consiste nell’applicare delle disposizioni, ma nel sondare la personalità dell’esaminando, le nostre teorie e i nostri stessi strumenti di lavoro.
L’osservatore partecipante
Nel colloquio l’esaminatore fa parte del campo e quindi condiziona, in qualche misura, i fenomeni che deve egli stesso registrare. Si pone dunque l’interrogativo della validità che possono avere dati raccolti in queste condizioni. Il massimo dell’obiettività non si raggiunge in nessun campo scientifico, e tanto meno nella psicologia, dove l’oggetto di studio è l’uomo stesso. Lo si ottiene, invece, unicamente quando si assume il soggetto osservatore come una delle variabili del campo.
Che cosa si intende per “osservazione in condizioni naturali”?
Sicuramente ci si riferisce a un’osservazione che si svolge nelle condizioni in cui realmente avviene il fenomeno. Considerazioni di carattere ontologico si sovrappongono qui ad altre di ordine gnoseologico: in base alle prime, si ammette che vi sia un mondo oggettivo, dotato di un’esistenza propria, indipendentemente dal fatto che noi lo conosciamo o meno; da un punto di vista gnoseologico, invece, siamo noi ad avere consapevolezza che questo mondo esiste e quindi dobbiamo necessariamente includerci nel processo conoscitivo, così come avviene nella realtà. Questa seconda affermazione non invalida in alcun modo la prima, dal momento che si riferiscono a cose diverse: la prima all’esistenza dei fenomeni e la seconda alla conoscenza che di essi si può avere. Inoltre, le condizioni naturali del comportamento umano sono le condizioni umane… qualsiasi comportamento si sviluppa in un contesto di vincoli e di rapporti umani, e il colloquio non è una distorsione delle supposte condizioni naturali ma, al contrario, è la situazione “naturale” in cui avviene il fenomeno che precisamente ci interessa studiare: il fenomeno psicologico.
Chi obietta che il colloquio non sia valido come strumento scientifico poiché le manifestazioni dell’oggetto di studio (l’essere umano) dipendono dalla relazione che si stabilisce con l’esaminatore, e dunque viene condizionato da questi, probabilmente ha una concezione metafisica del mondo: quella secondo la quale ogni oggetto ha delle qualità che dipendono dalla sua natura intrinseca, e questa purezza ontologica o questi caratteri naturali possono venire modificati o sovvertiti da determinati rapporti. Quel che è certo è che le qualità di ogni oggetto sono sempre di natura relazionale, derivano cioè dalle condizioni e dalle relazioni in cui esso si trova in ogni momento. Qualunque situazione umana è sempre originale e unica, quindi lo è anche il colloquio, e questo vale non soltanto per i fenomeni umani, ma anche per quelli della natura. L’originalità di ogni evento non impedisce di stabilire delle costanti generali, cioè delle condizioni che si ripetono con maggiore frequenza. L’individuale non esclude il generale, né la possibilità di introdurre astrazioni e categorie di analisi. Questo si contrappone a un narcisismo che si estende come presupposto all’interno del campo scientifico della psicologia e in base al quale ogni essere umano si considera distinto e unico, risultato di una particolare diversità. Egli a poco a poco scopre con stupore che ha le stesse viscere dei suoi simili, così come scopre (oppure rifiuta di scoprire) che la sua vita personale è intessuta su una trama comune a tutti gli esseri umani.
Colloqui e ricerca
Non vi è possibilità di un colloquio corretto e fecondo se si prescinde dalla ricerca: il colloquio è un campo di lavoro in cui si indaga sul comportamento e sulla personalità degli esseri umani. Che questo venga poi realizzato o meno non dipende più dallo strumento. Una corretta utilizzazione del colloquio unisce nella stessa persona e nello stesso atto l’operatore e il ricercatore. La chiave fondamentale del colloquio è l’indagine condotta durante il suo svolgimento. Le osservazioni che ne derivano vengono sempre fatte sulla base di ipotesi che va formulando l’osservatore: interviene dapprima l’osservazione, poi l’ipotesi e infine la verifica. Il modo migliore di osservare è quello di formulare delle ipotesi mentre si osserva, per poi verificarle e rettificarle nel corso del colloquio in funzione delle osservazioni successive, che a loro volta si arricchiscono delle ipotesi precedentemente enunciate. L’osservare, il pensare e l’immaginare coincidono totalmente e fanno parte di un unico processo dialettico. Chi non usa la propria fantasia potrà essere un buon verificatore di dati, ma non un ricercatore.
La riflessione su quello che si sta facendo deve intervenire in ogni azione umana e quando ciò avviene sistematicamente in un campo di attività definito, e il risultato di tale riflessione viene sottoposto a verifica, si sta svolgendo una ricerca. Il lavoro tecnico dello psicologo, dello psichiatra e del medico assume la sua reale portata e rilevanza quando la ricerca e il compito professionale coincidono, poiché questi sono gli elementi di una prassi grazie alla quale si evita la disumanizzazione nel compito più umano: quello di comprendere e aiutare gli altri. Indagine e azione, teoria e pratica devono essere affrontati come momenti inscindibili, che fanno parte di un unico processo.
Il gruppo nel colloquio
Esaminatore ed esaminando costiuiscono un gruppo, cioè un insieme o un tutto i cui componenti sono in interrelazione e si comportano in modo interdipendente. Si differenzia da altri gruppi per il fatto che uno dei suoi appartenenti assume un ruolo specifico e persegue determinati obiettivi. L’interdipendenza e l’interrelazione, il condizionamento reciproco dei rispettivi comportamenti, si realizzano attraverso il processo della comunicazione, nel senso che il comportamento dell’uno (conscio o meno) agisce (intenzionalmente o meno) come stimolo per il comportamento dell’altro, e questo a sua volta esercita nuovamente un’azione di stimolo sulle manifestazioni del primo. In questo processo la parola gioca un ruolo di importanza estrema, ma interviene attivamente anche la comunicazione preverbale: gesti, atteggiamenti, timbro e tono affettivo della voce, ecc.
Il tipo di comunicazione che si stabilisce è altamente indicativo della personalità dell’esaminando, e in particolare della natura delle sue relazioni interpersonali, cioè del suo modo di porsi in relazione con i propri simili. Nel processo che si svolge durante il colloquio, l’esaminatore è già in grado di osservare come e attraverso che cosa l’esaminando provoca egli stesso, senza saperlo, gli effetti di cui si lamenta o sembra essere vittima. Sono particolarmente importanti i momenti di cambiamento nella comunicazione e le situazioni e tematiche di fronte alle quali compaiono inibizioni, interruzioni e blocchi. Il tipo di comunicazione non ha importanza soltanto perché fornisce all’osservazione diretta dei dati che possono essere anche registrati, ma in quanto costituisce il fenomeno chiave di tutta la relazione interpersonale, che può essere gestito dall’esaminatore e, in questo modo, orientare e graduare il colloquio.
Transfert e controtransfert
Il transfert consiste nell’attualizzazione, operata dall’esaminando durante il colloquio, di sentimenti, atteggiamenti e comportamenti inconsci, che corrispondono a modelli da lui elaborati nel corso dello sviluppo, in particolare nella relazione con il proprio ambiente familiare. Coesistono sempre transfert positivo e transfert negativo e costituiscono la parte irrazionale e inconscia del comportamento e ne rappresentano gli aspetti non controllati dal paziente. L’osservazione di questi fenomeni ci pone in contatto con aspetti del comportamento e della personalità dell’esaminando che non rientrano fra gli elementi che egli può riferire o apportare volontariamente o consciamente, ma che aggiungono una dimensione importante alla conoscenza della struttura della sua personalità e del carattere dei suoi conflitti.
Nel transfert l’esaminando attribuisce dei ruoli all’esaminatore e si comporta in funzione di questi ruoli. Ossia trasferisce situazioni e modelli in una realtà presente e sconosciuta e tende a configurare quest’ultima come una situazione già nota, ripetitiva. Con il transfert, l’esaminando manifesta aspetti irrazionali o immaturi della propria personalità, il suo grado di dipendenza, la sua onnipotenza e il suo pensiero magico. È sulla base di tali fattori che l’esaminatore potrà intuire le aspettative dell’esaminando nei suoi confronti, le sue fantasie sul colloquio e sull’aiuto che potrebbe ricevere – cioè quello che significa per lui venire aiutato o essere sano – nonché le fantasie patologiche sulla guarigione, che molto spesso consistono nella realizzazione di aspirazioni nevrotiche. Sarà possibile individuare anche un altro fattore importante, cioè la resistenza del soggetto a sottoporsi al colloquio, ovvero ad accettare l’aiuto o la cura, e la sua intenzione di soddisfare desideri frustrati di dipendenza o di protezione.
Nel controtransfert sono inclusi tutti i fenomeni che si manifestano nell’esaminatore, come emergenti del campo psicologico che si configura nel colloquio; sono le risposte dell’esaminatore alle manifestazioni dell’esaminando, l’effetto che queste esercitano su di lui. Dipendono in larga misura dalla storia personale dell’esaminatore, ma il fatto che compaiano o si attualizzino in un momento determinato del colloquio significa che in quel momento vi sono dei fattori che operano in tal senso. L’esaminatore deve registrare questi elementi come emergenti della situazione presente e della reazione che provoca nell’esaminando; nel colloquio, dunque, l’osservazione si accompagna con l’auto-osservazione. Il controtransfert non costituisce una percezione, nel senso stretto e rigoroso del termine, ma è certamente un indizio estremamente significativo e rilevante che orienta l’esaminatore nel suo studio: ma non è facile da gestire e richiede una preparazione ed esperienza.
Transfert e controtransfert sono fenomeni che compaiono in qualsiasi relazione interpersonale, solamente che nel colloquio devono essere utilizzati come strumenti tecnici di osservazione e di comprensione. L’interazione transfert-controtransfert può essere studiata anche come un’attribuzione di ruoli da parte dell’esaminando e la percezione di questi stessi ruoli da parte dell’esaminatore: se, ad esempio, l’atteggiamento dell’esaminando provoca irritazione o rifiuto nell’esaminatore, questi deve cercare di studiare e osservare la propria reazione come effetto del comportamento dell’esaminando, per aiutarlo a modificare tale comportamento, dei cui risultati probabilmente egli stesso si lamenta. Se l’esaminatore non è in grado di oggettivare e studiare la propria reazione, oppure reagisce con irritazione e rifiuto (assumendo il ruolo proiettato), ciò significa che la sua gestione del controtransfert è disturbata e di conseguenza egli non conduce il colloquio in modo corretto.
L’ansia nel colloquio
L’ansia costituisce un indice dell’andamento di un colloquio e va seguita attentamente dall’esaminatore, che deve prendere in considerazione sia la propria che quella manifestata dall’esaminando: non soltanto la comparsa, ma anche il grado o l’intensità, perché sebbene entro certi limiti rappresenti un elemento motore della relazione intrapersonale, questa può venirne completamente perturbata o rimanere priva di controllo quando l’ansia oltrepassa un certo livello.
Esaminatore ed esaminando si trovano a dover affrontare una situazione sconosciuta, dinanzi alla quale non hanno ancora consolidato dei modelli reattivi adeguati, e questa situazione non organizzata comporta una certa disorganizzazione nella personalità di ciascuno di essi; è questa disorganizzazione che chiamiamo ansia.
L’esaminando chiede un aiuto tecnico o professionale quando prova ansia o si sente disturbato dai meccanismi difensivi che sono scattati di fronte ad essa. Durante il colloquio tanto l’ansia che queste difese possono aumentare poiché l’ignoto che egli deve affrontare non è costituito soltanto dalla novità della situazione esterna, ma anche dal pericolo rappresentato per lui da quella parte della sua personalità che gli è sconosciuta. Se tali fattori non compaiono, fare in modo che emergano, in qualche misura, durante il colloquio fa parte della funzione che ha l’esaminatore di motivare l’esaminando.
L’ansia dell’esaminatore è uno dei fattori più difficili da gestire, poiché è il motore dell’interesse per la ricerca e per l’esplorazione dell’ignoto. Ogni indagine richiede la presenza di una certa dose di ansia di fronte all’ignoto, e il ricercatore deve essere in grado di tollerarla e di utilizzarla; in caso contrario, si preclude la possibilità di portare a termine efficacemente la propria ricerca.
Dinanzi all’ansia dell’esaminando non si deve far uso di alcun procedimento, come l’aiuto diretto o il consiglio, che la dissimuli o la reprima. L’ansia può essere utilizzata soltanto se si comprendono i motivi per cui si manifesta e si agisce in base a tale comprensione. Se di fronte ad essa sono i meccanismi difensivi a prevalere, il compito dell’esaminatore è quello di “smantellare” in qualche misura queste difese perché ne compaia un certo grado, il che costituisce un indice della possibilità di analizzare i conflitti. Nel fare questo bisogna sempre tenere conto della personalità dell’esaminando e del beneficio che gli può derivare dalla mobilizzazione dell’ansia, per cui anche di fronte a situazioni estremamente chiare non bisogna essere attivi se questo significa opprimere l’esaminando con conflitti che egli non è in grado di tollerare. Questo è il cosiddetto timing del colloquio, che è il tempo di cui ha bisogno l’esaminando – e che dipende dal livello e dal tipo di organizzazione della sua personalità – per affrontare i propri conflitti e risolverli.
L’esaminatore
Per l’esaminatore lo strumento di lavoro è egli stesso, la sua personalità, che immancabilmente entra in gioco nel rapporto interpersonale; a complicare le cose vi è il fatto che l’oggetto di studio è un altro essere umano: questo implica che, nell’esaminare la vita degli altri, egli riveda e riesamini la propria, la sua personalità, i suoi conflitti e le sue frustrazioni.
Per lo sviluppo e l’esercizio della psicologia e della medicina si è dovuto ricorrere a una specie di finzione e di dissociazione, che consiste nell’occuparsi degli esseri umani come se non fossero tali. Nel tirocinio del medico vi è la tendenza, di carattere inconscio e difensivo, ad iniziare la preparazione a contatto con il cadavere. Quando vogliamo occuparci della malattia degli esseri umani considerati come tali, le nostre ansie aumentano, ma siamo costretti nello stesso tempo a liberarci dei blocchi e delle difese.
L’esaminatore deve agire mantenendosi dissociato, cioè operare in parte attraverso un’identificazione proiettiva con l’esaminando e in parte rimanendo al di fuori di tale identificazione, osservando e controllando quello che succede, in maniera da rendere graduale l’impatto emozionale e la disorganizzazione ansiosa. La dissociazione sulla base della quale deve operare l’esaminatore è nello stesso tempo funzionale e dinamica – nel senso che devono intervenire costantemente la proiezione e l’introiezione – e sufficientemente plastica da consentirgli di rimanere entro i limiti di un atteggiamento professionale. Nel corso del suo lavoro, lo psicologo può oscillare facilmente fra l’ansia e il blocco senza che questo disturbi il suo compito, sempre che sia in grado di risolvere ambedue i fenomeni man mano che compaiono. Il passaggio, nel colloquio, dalla normalità alla patologia diviene impercettibile. Una cattiva dissociazione, accompagnata da ansia intensa e persistente, conduce lo psicologo a sviluppare nei confronti dei suoi esaminandi comportamenti fobici od ossessivi che lo inducono a evitare il colloquio o ad interporvi strumenti e test per sfuggire il contatto personale e l’ansia che ne deriva. La classica fretta del medico, che tanto spesso ricorre nella satira, è una costante fuga fobica dai malati. La difesa ossessiva si manifesta, invece, in colloqui stereotipati nei quali tutto è regolato e previsto, nell’elaborazione abitudinaria di storie cliniche: il colloquio stesso si trasforma in rituale. A un livello successivo troviamo il blocco, per effetto del quale l’esaminatore mette in atto, dice e vede sempre le stesse cose, applica quello che sa e lo fa stare sicuro. L’urgenza di fare diagnosi e la compulsione ad utilizzare farmaci sono altri elementi di questa fuga e di questo rituale del medico di fronte al malato. Tutto ciò provoca l’alienazione dello psicologo e dello psichiatra, oltre a quella del paziente, e di conseguenza l’intera struttura ospedaliera e sanitaria diventa un ulteriore fattore di alienazione. Vi è anche il rischio di una proiezione dei propri conflitti sull’esaminando o di una compulsione a gravitare, e a ricercare o individuare dei disturbi nella sfera in cui, dentro di sè, ci si rifiuta di riconoscerli. La rigidità e la proiezione portano a trovare soltanto quello che si cerca e di cui si ha bisogno, e a condizionare tanto ciò che si trova quanto ciò che non si trova.
Se a un dato momento la proiezione attraverso la quale opera il tecnico è troppo intensa, compare una reazione fobica nel campo stesso di lavoro. Se, al contrario, questa subisce un blocco eccessivo, egli si allontana e non è più in grado di capire quello che accade. Tipi diversi di persone possono provocare nell’esaminatore reazioni controtransferali tipiche, che egli deve essere costantemente in condizione di osservare e risolvere per utilizzarle come informazioni e strumenti nel corso del colloquio stesso.
L’esaminatore deve sostenere i ruoli che gli vengono assegnati dall’esaminato, senza tuttavia assumerli interamente. Se ad esempio avverte un rifiuto, assumere il ruolo significa mostrare e agire il rifiuto, respingendo effettivamente l’esaminando, o in forma verbale o con un particolare atteggiamento o in qualsiasi altro modo; giocare il ruolo significa invece percepire il rifiuto, comprenderlo, trovare gli elementi che spingono l’esaminando a provocarlo, e utilizzare le informazioni di cui si è in possesso per chiarire il problema o comunque modificarlo. Fastidio, stanchezza, sonno, irritazione, blocco, pena, affetto, rifiuto, seduzione, ecc., sono tutti indizi di controtransfert che, man mano che compaiono, l’esaminatore deve percepire come tali e risolvere analizzandoli fra sé e sé in funzione della personalità dell’esaminando, della propria, nonché del contesto e del momento in cui si manifestano nella comunicazione. Lo psichiatra o lo psicologo insicuri o poco esperti non sapendo che fare con tutti questi dati, per non sentirsi oppressi, possono ricorrere alla ricetta, interponendo fra sé e il paziente i farmaci o i test, per esempio. Per contrastare questa tendenza è importante che non operino isolatamente, ma formino per lo meno dei gruppi di studio o discussione nei quali si riveda il lavoro svolto; nessun clima meglio dell’isolamento professionale può favorire la stereotipia, perché nell’isolamento si finisce per mascherare le difficoltà con l’onnipotenza.
L’esaminando
In linea generale, perché una persona si sottoponga a un colloquio deve avere la percezione o l’insight che qualcosa non va, che qualcosa è cambiato, oppure deve percepire se stessa con ansia e timori. Questi possono essere talmente intensi e intollerabili da spingere il soggetto a ricorrere, nel colloquio, a una negazione e a una resistenza sistematica, con cui ovviamente cerca di assicurarsi che non succeda nulla, facendo in modo che il tecnico non riconosca in lui niente di anomalo.
Se seguiamo la ripartizione delle aree della condotta fatta da E. Pichon-Rivière, possiamo considerare tre gruppi, a seconda che il predominio di inibizioni, sintomi, lamentele o proteste si ripercuota maggiormente nell’area della mente, del corpo o del mondo esterno. Il paziente può esprimere lamentele o accuse: nel primo caso predomina l’ansia depressiva, nel secondo quella paranoide. Queste suddivisioni tendono a non differenziare i malati organici dai malati mentali, ma vengono applicate a chiunque vada da uno specialista e tendono a dare piuttosto un orientamento sulla personalità del soggetto, sul modo in cui cerca di ridurre le tensioni, di sopportare o risolvere i suoi conflitti.
Possiamo fare una distinzione tra l’esaminando che viene a consultarci di propria iniziativa e quello che ci viene condotto da altri perché “è stato mandato”. Chi viene da solo ha un certo insight o una certa percezione della propria malattia e corrisponde al paziente nevrotico, mentre lo psicotico ha bisogno che qualcun altro prenda l’iniziativa per lui. Chi non ha motivi per sottoporsi al colloquio, ma ci viene perché lo hanno mandato, rientra nell’area della psicopatia: è qualcuno che fa agire gli altri al posto suo e delega loro le proprie preoccupazioni e il proprio malessere.
Vi è anche il caso di chi ci consulta per un suo familiare: allora sottoponiamo al colloquio la persona che è venuta da noi, indagando sulla sua personalità e sul suo comportamento. In questo modo estendiamo già la nostra ricerca dall’esaminando al gruppo familiare. Se l’esaminando è preceduto da qualcuno che viene a darci informazioni sul suo conto, questi deve essere avvertito che ciò che dirà verrà comunicato al paziente. Questo contribuisce a “sgomberare il campo” e a farci evitare delle scissioni molto difficili da gestire in seguito. Chi viene a consultarci è sempre un emergente dei conflitti del gruppo familiare; distinguiamo inoltre fra persone che si presentano da sole e quelle che arrivano accompagnate, che sono rappresentative di gruppi familiari diversi.
Chi viene da solo è il rappresentante di un gruppo familiare schizoide, nel quale la comunicazione fra i membri è estremamente precaria: essi vivono dispersi o separati, e presentano un blocco affettivo di un certo rilievo. Spesso, di fronte a questo tipo, il tecnico tende a domandarsi con chi può parlare o chi deve informare. Un altro gruppo familiare, di carattere opposto al primo, è quello cui appartengono coloro che si presentano al colloquio in diversi, tanto che il tecnico è costretto a chiedersi chi è l’esaminando o per chi sono venuti: è il gruppo epilettoide, vischioso o agglutinato, nel quale vi è un’assenza o una carenza di personificazione dei membri, con un alto grado di simbiosi o interdipendenza.
Quello delle coppie, i cui componenti si accusano a vicenda di nevrosi, di infedeltà, ecc., è un’altra situazione in cui, come in quelle precedenti, si sottopongono al colloquio tutte le persone presenti, che vengono trattate come un gruppo diagnostico che è sempre, in qualche misura, anche terapeutico. Il tecnico agisce qui come osservatore partecipante, intervenendo nei momenti di tensione, o quando la comunicazione si interrompe, o per segnalare gli incroci proiettivi.
Quando viene consultato da gruppi, lo psicologo non deve accettare il criterio della famiglia per determinare chi è il malato, ma deve prendere in considerazione tutti i suoi membri e operare come se il gruppo stesso fosse il malato. In questi casi, l’incrocio dei ruoli e la dinamica del gruppo sono gli elementi che servono come orientamento per far acquisire insight della situazione all’intero gruppo.
L’oscillazione della malattia in un gruppo familiare è un altro fattore di estrema importanza: per esempio un a coppia in cui uno è fobico e l’altro è l’accompagnatore; quando migliora l’uno compare la fobia nell’altro. Altre volte, la famiglia si presenta allo psicologo soltanto quando il trattamento è già a buon punto e il paziente ha avuto o è in procinto di avere un miglioramento; la sua normalizzazione fa sì che la tensione del gruppo familiare non possa più “scaricarsi” attraverso di lui, ed ecco manifestarsi allora lo squilibrio o la malattia nel gruppo familiare. Tutto questo spiega ampiamente un fenomeno di cui si deve sempre considerare la presenza nella famiglia di un malato: i sensi di colpa. Si manifesta con maggiore evidenza nel caso di malattie mentali in bambini o in deficienti mentali. Ciò è connesso anche con il cosiddetto fenomeno del “bambino sbagliato”, per il quale i genitori vengono a consultarci con il bambino più sano e soltanto dopo essersi assicurati che il tecnico non li incolpi o non li accusi riescono a parlare o a chiedere consiglio sul figlio malato.
Funzionamento del colloquio
Ho insistito sul fatto che il campo del colloquio deve essere configurato fondamentalmente dalle variabili relative alla personalità dell’esaminando. Ciò implica che quello che propone l’esaminatore sia sufficientemente ambiguo da permettere all’esaminando di mettere in gioco il più possibile la propria personalità. Esiste tuttavia un ambito o un’area in cui l’ambiguità non deve esistere e il cui confine, al contrario, deve essere mantenuto e a volte difeso dall’esaminatore. In quest’ambito rientrano tutti i fattori che fanno parte dell’inquadramento del colloquio: tempo, luogo e ruolo tecnico dell’operatore [andrebbe aggiunto il compito, o obiettivo]. Il tempo si riferisce a un orario e a un limite posto all’estensione del colloquio; lo spazio corrisponde alla cornice o all’ambiente in cui il colloquio si svolge. Per quanto riguarda il ruolo tecnico, l’esaminatore non deve permettere nel modo più assoluto di venire presentato come un amico in un incontro fortuito. Inoltre, egli non deve intervenire nel colloquio con le sue relazioni o con il racconto della propria vita; né entrare in relazioni commerciali o di amicizia con l’esaminando, e neppure pretendere di trarre dal colloquio alcun vantaggio che non sia il suo onorario e l’interesse scientifico e professionale. Non deve nemmeno utilizzare il colloquio come gratificazione narcisistica, facendo la parte del mago e ostentando la propria onnipotenza.
La curiosità deve limitarsi a quello che è strettamente necessario per il beneficio del paziente. Tutto quanto viene sentito e vissuto come reazione controtransferale va considerato come un dato del colloquio, e non bisogna rispondere o agire di fronte al rifiuto, alla trivialità o all’invidia dell’esaminando. La petulanza o l’atteggiamento arrogante o aggressivo di quest’ultimo non devono essere “domati” o piegati; non si tratta né di trionfare né di imporsi sul paziente, ma di appurare a che cosa son dovuti, come funzionano e quali effetti producono su di lui. Egli ha il diritto, anche se noi ne prendiamo nota, di fare uso ad esempio della sua rimozione e della sua sfiducia. Molto spesso il grado di rimozione dell’esaminando dipende rigorosamente dal grado di rimozione che utilizza l’esaminatore di fronte a determinati temi (sessualità, invidia, ecc.). Se interveniamo con delle domande, queste devono essere dirette e senza sotterfugi o secondi fini, adeguate alla situazione e al grado di tolleranza dell’io dell’esaminando. Non si deve neppure aprire il colloquio in maniera ambigua, ricorrendo a frasi generiche o a doppio senso. Il colloquio inizia dal punto in cui inizia l’esaminando. Si deve riceverlo cortesemente, ma senza effusione. Se si possiedono dati sul suo conto forniti da un’altra persona, bisogna informarlo di ciò e analogamente avvertire subito chi ci dà tali notizie che i dati riguardanti terzi non saranno mantenuti segreti. Questo tende a mantenere l’inquadramento e a evitare le divisioni schizoidi o il passaggio all’azione psicopatica, oltre che a sgomberare il campo da tutto quello che può limitare la spontaneità del tecnico, il quale non deve cedere a compromessi che possano pesare negativamente sul colloquio. La riservatezza dell’esaminatore sui dati forniti dall’esaminando è implicita nel colloquio e, se si dovesse presentare a un’istituzione una relazione sul colloquio effettuato, bisognerebbe informare l’esaminando. La riservatezza e il segreto professionale vanno mantenuti anche riguardo ai malati psicotici e al materiale dei colloqui realizzati con adolescenti o bambini; in quest’ultimo caso non dobbiamo sentirci autorizzati a riferire ai genitori dettagli del colloquio avuto con i figli.
Il silenzio dell’esaminando è lo spettro dell’esaminatore alle prime armi, per il quale questo silenzio è indice di fallimento o incapacità. Con un minimo di esperienza, tuttavia, non è possibile che un colloquio fallisca; ogni colloquio apporta dati importanti sulla personalità dell’esaminando. Bisogna riconoscere i diversi tipi di silenzio (silenzio paranoide, depressivo, fobico, confusionale, ecc.) e intervenire sulla base di tale conoscenza.
Se il silenzio totale non è l’ideale in un colloquio (dal punto di vista dell’esaminatore), non lo è neppure la catarsi intensa (dal punto di vista dell’esaminando). Spesso chi parla molto in realtà tralascia di dire le cose più importanti, poiché il linguaggio non è solo uno strumento per trasmettere informazioni, ma è anche un potente mezzo per evitare di fornirne. Nemmeno la scarica emozionale intensa è la cosa migliore del colloquio; in genere, attraverso di essa l’esaminando riesce a depositare massivamente i suoi conflitti nell’esaminatore, in seguito prende le distanze da quest’ultimo e istaura con lui un rapporto di tipo persecutorio: il confessore si trasforma facilmente in persecutore. Il termine del colloquio deve essere rispettato come tutto l’inquadramento; la reazione alla separazione è un dato di estrema importanza, così come è importante valutare il modo in cui se ne va l’esaminando e la nostra situazione controtransferale.
Un colloquio ben condotto richiede molto tempo, cosa di cui spesso non si dispone, soprattutto in seno alle istituzioni (scolastiche, ospedaliere, aziendali, ecc.). In questi casi, conviene impiegare una parte del tempo che si ha a disposizione per portare a termine anche solo un colloquio al giorno in condizioni ottimali. Ciò impedisce la stereotipia nel lavoro e le razionalizzazioni dell’evitamento fobico. È inoltre essenziale riservarsi il tempo necessario per studiare i colloqui già effettuati, ed è preferibile farlo in gruppi di lavoro. Lo psicologo e lo psichiatra non devono lavorare isolati, perché questo favorisce la loro alienazione nel lavoro.
L’interpretazione
Il colloquio è sempre un’esperienza di vita estremamente importante per l’esaminando; molto spesso rappresenta l’unica possibilità che egli ha di parlare il più sinceramente possibile di se stesso con qualcuno che non lo giudichi, ma lo comprenda. Il colloquio dunque agisce sempre come un fattore normativo o di apprendimento. Il colloquio diagnostico è sempre, in qualche misura, anche terapeutico.
Il primo fattore terapeutico è sempre la comprensione dell’esaminatore, che deve trasmettere all’esaminando alcuni elementi di tale cognizione che possano essergli utili. A nostro giudizio, nel colloquio diagnostico si deve interpretare soprattutto ogni volta che la comunicazione tende ad interrompersi o a distorcersi. Un altro caso molto frequente, nel quale il nostro intervento è indispensabile, è quello in cui si devono stabilire delle relazioni fra le cose che l’esaminando ci ha comunicato. Per interpretare, dobbiamo tener conto del livello di ansia che stiamo risolvendo oppure creando, e considerare anche se ci saranno altre opportunità per l’esaminando di risolvere le ansie che mobilizziamo. In ogni caso, dobbiamo interpretare soltanto sulla base degli emergenti, di ciò che interviene realmente nell’hic et nunc del colloquio.
Un fattore essenziale di orientamento nell’interpretazione è sempre il beneficio dell’esaminando e non la “scarica” dell’ansia dell’esaminatore. Inoltre, ammesso che si interpreti, si deve tenere presente che l’interpretazione è un’ipotesi che va verificata o corretta nello stesso campo di lavoro, in base alla risposta che stimoliamo o suscitiamo nel metterla sul tappeto.
Ogni interpretazione al di fuori del contesto e del timing diventa sempre un’aggressione e fa parte della formazione dello psicologo anche imparare a tacere. Una delle “regole d’oro” (se ve ne sono) è che quanto più forte è la compulsione a interpretare, tanto più è necessario tacere.
La relazione psicologica
La relazione psicologica ha come fine quello di sintetizzare o riassumere le conclusioni a cui si è giunti riguardo all’oggetto di studio.
L’ordine con cui si redige una relazione è del tutto indipendente da quello con cui si sono raccolti i dati o si sono tratte le conclusioni.
1. Generalità: nome, cognome, età, ecc.
2. Procedimenti utilizzati: colloqui (numero, frequenza, tecnica, "clima" e luogo in cui si sono svolti), tests (specificare quali si sono utilizzati), gioco, protocolli standardizzati, questionari, ecc.
3. Motivi dello studio: chi lo richiede e quali sono i suoi obiettivi. Atteggiamento dell’esaminando e sue motivazioni consce.
4. Descrizione sintetica del gruppo familiare e di altri gruppi che hanno avuto o hanno importanza nella vita dell’esaminando (relazioni del gruppo familiare con la comunità: status socio-economico e altri rapporti. Composizione, dinamica e ruoli, comunicazione e cambiamenti significativi, ecc.)
5. Problematica esistenziale: breve riferimento alla vita dell’esaminando e ai suoi conflitti attuali, al suo sviluppo, ad acquisizioni, perdite, cambiamenti, timori, aspirazioni, inibizioni e al modo di affrontarle o di subirle.
6. Descrizione delle strutture di comportamento, differenziando quelle predominanti da quelle accessorie. Cambiamenti osservati.
7. Descrizione dei tratti del carattere e della personalità, che comprenda l’esame della dinamica psicologica (ansia, difese), e un riferimento all’organizzazione patografia (qualora fosse presente).
8. Se si tratta di una relazione particolarmente dettagliata e rigorosa (ad esempio, di una perizia), includervi i risultati di ogni test e di ogni esame complementare effettuato.
9. Conclusione: diagnosi e caratterizzazione psicologica dell’individuo e del suo gruppo. Soddisfare in modo specifico gli obiettivi dello studio.
10. Includere una possibilità di prognosi dal punto di vista psicologico, precisando gli elementi sui quali si basa.
11. Orientamento possibile: segnalare se sono necessari ulteriori esami e di che tipo. Indicare in che modo è possibile aiutare, alleviare o orientare l’esaminando.
(2009)
a cura di Lorenzo Sartini
Il colloquio è uno strumento fondamentale del metodo clinico e costituisce una tecnica di indagine scientifica della psicologia. Questo strumento fa confluire nello psicologo le funzioni del ricercatore e dell’operatore poiché la tecnica è il punto di interazione fra la scienza e le esigenze di carattere pratico.
Il colloquio può essere di due tipo: aperto o chiuso. Nel colloquio chiuso le domande sono già state predisposte, come anche l’ordine e la modalità della loro formulazione; è in realtà un questionario che ha una stretta relazione con il colloquio in quanto l’utilizzazione di certi principi che stanno alla base di quest’ultimo consente e facilita l’applicazione del questionario stesso. Nel colloquio aperto, invece, l’esaminatore ha ampia libertà per quanto riguarda domande e interventi, ma non è essenzialmente caratterizzato dalla libertà di porre domande poiché il nucleo essenziale risiede altrove. La libertà dell’esaminatore, nel caso del colloquio aperto, consiste in una flessibilità sufficiente a permettere all’esaminando, per quanto possibile, di configurare l’ambito del colloquio secondo la sua particolare struttura psicologica o, in altri termini, a far sì che il campo del colloquio si configuri il più possibile in base alle variabili che dipendono dalla personalità del soggetto esaminato. Considerato in questo modo il colloquio aperto consente di compiere un’indagine più ampia e approfondita sulla personalità dell’esaminando, mentre il colloquio chiuso può consentire una migliore comparazione sistematica dei dati, oltre a presentare altri vantaggi propri di ogni metodo standardizzato.
Si può poi distinguere tra colloquio individuale e di gruppo, anche se, in realtà, il colloquio psicologico è sempre, in ogni caso, un fenomeno di gruppo poiché, anche quando vi partecipa un solo esaminando, la sua relazione con l’esaminatore deve essere considerata in funzione della psicologia e della dinamica di gruppo.
Un’altra distinzione è legata al beneficiario del risultato:
a) il colloquio di consultazione psicologica o psichiatrica è realizzato a beneficio dell’esaminando;
b) il colloquio con obiettivi di ricerca pone attenzione ai risultati scientifici;
c) il colloquio viene effettuato nell’interesse di un terzo (un’istituzione).
Ognuno di essi comprende diverse variabili delle quali si dovrà tener conto, modificando o condizionando l’atteggiamento sia dell’esaminando che dell’esaminatore, nonché il campo globale del colloquio.
Colloqui, consultazione e diagnosi
La consultazione consiste in una richiesta di assistenza tecnica e professionale che può venire soddisfatta in molti modi, uno dei quali è il colloquio: dunque la consultazione non è sinonimo di colloquio poiché quest’ultimo è soltanto uno dei procedimenti con cui il tecnico o l’operatore, psicologo o medico, può rispondere alla consultazione.
Il colloquio non è un’anamnesi, la quale presupporrebbe una raccolta di dati previsti così estesa e dettagliata da permettere una sintesi sia della situazione presente che del vissuto dell’individuo. La preoccupazione ed il fine dell’anamnesi consistono nella raccolta di dati ed il paziente è ridotto al ruolo intermediario fra la sua malattia, la sua vita e i suoi dati da un lato, e il medico dall’altro. Se il paziente non fornisce i dati bisogna “tirarglieli fuori” e qualunque altro apporto del paziente viene considerato un elemento perturbatore dell’anamnesi. Non è infrequente che l’anamnesi venga fatta per ragioni statistiche o per osservare il regolamento di un’istituzione.
A differenza della consultazione e dell’anamnesi, il colloquio psicologico è volto allo studio e all’utilizzazione del comportamento globale del soggetto durante tutto il corso della relazione stabilita con il tecnico.
Il colloquio psicologico è una relazione di natura particolare che si instaura fra due o più persone. La specificità di tale relazione consiste nel fatto che una delle parti che vi intervengono è un tecnico della psicologia che deve agire in questa veste, mentre l’altra ha bisogno del suo intervento tecnico. Uno dei punti fondamentali è che nel colloquio il tecnico non soltanto utilizza le sue conoscenze psicologiche per applicarle all’esaminando, ma le applica precisamente attraverso il comportamento che tiene nel corso di esso. Quindi, si potrebbe dire che il colloquio consiste in un rapporto umano in cui uno di coloro che vi partecipano deve cercare di sapere quello che in esso sta avvenendo e agire sulla base di tale cognizione. Da questa comprensione e dall’azione che ne deriva dipende il conseguimento dei possibili obiettivi del colloquio (indagine, diagnosi, orientamento, ecc.).
La regola fondamentale consiste nell’ottenere dati completi non più sull’intera vita di una persona, ma sul suo comportamento globale nel corso del colloquio. In questo comportamento globale rientrano gli elementi che raccoglieremo non soltanto nel nostro ruolo di ascoltatori, ma anche attraverso l’utilizzazione del nostro vissuto e l’osservazione, in modo che questi dati comprendano le tre aree della condotta dell’esaminando.
La teoria del colloquio ha subito l’influenza della psicoanalisi (dimensione inconscia del comportamento, transfert, controtransfert, resistenza, rimozione, proiezione, introiezione, ecc.), della Gestalt (colloquio come un tutto in cui l’esaminatore è uno dei partecipanti e il suo comportamento è uno degli elementi dell’insieme), della topologia (attenzione al campo psicologico e le sue leggi, prospettiva situazionale) e del comportamentismo (osservazione del comportamento): tutto questo ha consentito di effettuare il colloquio in condizioni metodologiche più rigorose e più valide dal punto di vista scientifico.
Il colloquio come campo
Nel colloquio si configura un campo, ossia fra coloro che vi partecipano si struttura una relazione dalla quale dipende tutto quello che avviene al suo interno. La differenza fondamentale fra il colloquio e qualsiasi altro tipo di relazione interpersonale (come l’anamnesi) consiste in questo: nel primo caso la regola principale è quella di fare in modo che il campo si configuri, per quanto possibile, soprattutto in base alle variabili che dipendono dalla personalità dell’esaminando. Sebbene ogni emergente sia sempre di tipo relazionale, nel colloquio cerchiamo di far sì che tale campo sia determinato per lo più dalle modalità della personalità dell’esaminando: l’esaminatore controlla il colloquio, ma chi lo dirige è l’esaminando. La relazione fra i due delimita e determina il campo del colloquio e tutto quello che in esso avviene, ma l’esaminatore deve permettere che il campo della relazione interpersonale venga stabilito e configurato prevalentemente dall’esaminando.
Ogni essere umano ha sistematizzato la propria personalità in una serie di modelli o in un insieme di possibilità, e sono queste che noi ci aspettiamo vengano messe in gioco o esteriorizzate nel corso del colloquio. Il colloquio, dunque, funziona come una situazione in cui si osserva una parte della vita del paziente che si svolge in rapporto a noi, di fronte a noi.
Il colloquio non può sostituire o escludere altri procedimenti di indagine della personalità, ma questi ultimi a loro volta non possono prescindere dal colloquio (es. il trattamento psicoanalitico che permette una conoscenza più estesa e approfondita).
Per ottenere quel particolare campo del colloquio da noi esaminato, dobbiamo rimanere all’interno di una cornice fissa, risultante dalla trasformazione di un dato insieme di variabili in costanti. Questo inquadramento comprende non soltanto l’atteggiamento tecnico e il ruolo dell’esaminatore ma anche gli obiettivi, il luogo ed il tempo del colloquio.
L’inquadramento funziona come una specie di standardizzazione della situazione di stimolo che offriamo all’esaminando; volgiamo fare in modo che tale situazione smetta non tanto di costituire per lui uno stimolo, quanto di oscillare come variabile per l’esaminatore. Se si modifica l’inquadramento (perché, ad esempio, il colloquio si svolge in un luogo diverso), questo cambiamento deve essere considerato una variabile da sottoporre ad osservazione. Ogni colloquio ha un contesto definito (un insieme di costanti e di variabili) in funzione del quale vengono alla luce gli emergenti, che hanno un senso unicamente in funzione di tale contesto.
Il campo del colloquio non è fisso ma dinamico, il che significa che è soggetto ad una costante modifica, e l’osservazione deve essere estesa dal campo specifico esistente in ogni momento alla continuità e al senso di questi cambiamenti. È l’esame della continuità e della contiguità dei mutamenti a permettere di completare l’osservazione e di dedurre la struttura e il senso di ogni campo. Il campo del colloquio copre il processo nella sua totalità. Per arrivare ad una sistematizzazione che consenta l’esame dettagliato del colloquio come campo, lo studio deve essere incentrato su:
a) l’esaminatore (il suo atteggiamento, la sua dissociazione strumentale, il controtransfert, l’identificazione, ecc.);
b) l’esaminando (il transfert, le strutture di comportamento, i tratti del carattere, le ansie, le difese, ecc.);
c) la relazione interpersonale, nel cui ambito rientrano l’interazione fra i partecipanti, il processo di comunicazione (proiezione, introiezione, identificazione, ecc.), il problema dell’ansia, ecc.
Concordanze e divergenze
Una differenza fondamentale tra il colloquio e l’anamnesi è che nell’anamnesi si ipotizza che colui che richiede la consultazione conosca la propria vita e sia quindi in grado di fornire dati su di essa, mentre nel colloquio si presume che ogni essere umano abbia una storia organizzata della sua vita e uno schema del suo presente, e che da questa storia e da questo schema si debba dedurre ciò che non sa. Secondariamente, tutto quello che non è in grado di fornirci sotto forma di conoscenza esplicita emerge dal suo comportamento non verbale, che può produrre informazioni coincidenti o contrastanti con quelle espresse verbalmente e consciamente.
Le lacune, le dissociazioni e le contraddizioni che possono emergere nei vari colloqui fanno emergere dei dubbi sull’affidabilità dello strumento a qualche ricercatore, ma lo strumento non fa altro che riflettere quelle che sono le caratteristiche dell’oggetto di studio. Le dissociazioni e le contraddizioni che si osservano corrispondono a dissociazioni e contraddizioni della personalità stessa, e il colloquio, riflettendole, ci permette di lavorare su di esse durante il loro manifestarsi; che questo si possa fare o meno dipende dall’intensità dell’angoscia che si è in grado di provocare e dalla tolleranza dimostrata dall’esaminando nei confronti di tale angoscia. Analogamente, i conflitti che egli esplicita di solito non sono quelli fondamentali, così come le motivazioni che adduce sono generalmente razionalizzazioni.
Nel colloquio, la simulazione perde l’importanza che ha nell’anamnesi come fattore di perturbazione, in quanto deve essere considerata una parte dissociata della personalità che l’esaminando non riconosce totalmente come propria. I dati non devono essere valutati sulla base della loro veridicità o erroneità, ma come gradi o fenomeni di dissociazione della personalità. Una situazione tipica, e in parte opposta a quella appena considerata, si presenta quando l’esaminando organizza rigidamente la propria storia e lo schema presente come mezzo di difesa nei confronti della capacità di penetrazione dell’esaminatore e del suo stesso contatto con aree conflittuali della sua situazione reale e della sua personalità.
Quando si sottopongono a un colloquio vari componenti di un gruppo o di un’istituzione (famiglia, scuola, fabbrica, ecc.), queste divergenze o contraddizioni sono molto più frequenti e manifeste, e costituiscono dei dati estremamente importanti sul modo in cui ciascun membro ha organizzato in una stessa realtà un campo psicologico a lui peculiare. L’insieme ci fornisce un indice fedele del carattere del gruppo o dell’istituzione, delle sue tensioni e dei suoi conflitti, della sua particolare organizzazione e dinamica psicologica.
La tecnica e la sua teoria sono in stretta relazione con la teoria della personalità sulla base della quale si lavora; il grado di interazione a cui l’esaminatore riesce a portarle ci dà la misura della sua capacità operativa come ricercatore. Il colloquio non consiste nell’applicare delle disposizioni, ma nel sondare la personalità dell’esaminando, le nostre teorie e i nostri stessi strumenti di lavoro.
L’osservatore partecipante
Nel colloquio l’esaminatore fa parte del campo e quindi condiziona, in qualche misura, i fenomeni che deve egli stesso registrare. Si pone dunque l’interrogativo della validità che possono avere dati raccolti in queste condizioni. Il massimo dell’obiettività non si raggiunge in nessun campo scientifico, e tanto meno nella psicologia, dove l’oggetto di studio è l’uomo stesso. Lo si ottiene, invece, unicamente quando si assume il soggetto osservatore come una delle variabili del campo.
Che cosa si intende per “osservazione in condizioni naturali”?
Sicuramente ci si riferisce a un’osservazione che si svolge nelle condizioni in cui realmente avviene il fenomeno. Considerazioni di carattere ontologico si sovrappongono qui ad altre di ordine gnoseologico: in base alle prime, si ammette che vi sia un mondo oggettivo, dotato di un’esistenza propria, indipendentemente dal fatto che noi lo conosciamo o meno; da un punto di vista gnoseologico, invece, siamo noi ad avere consapevolezza che questo mondo esiste e quindi dobbiamo necessariamente includerci nel processo conoscitivo, così come avviene nella realtà. Questa seconda affermazione non invalida in alcun modo la prima, dal momento che si riferiscono a cose diverse: la prima all’esistenza dei fenomeni e la seconda alla conoscenza che di essi si può avere. Inoltre, le condizioni naturali del comportamento umano sono le condizioni umane… qualsiasi comportamento si sviluppa in un contesto di vincoli e di rapporti umani, e il colloquio non è una distorsione delle supposte condizioni naturali ma, al contrario, è la situazione “naturale” in cui avviene il fenomeno che precisamente ci interessa studiare: il fenomeno psicologico.
Chi obietta che il colloquio non sia valido come strumento scientifico poiché le manifestazioni dell’oggetto di studio (l’essere umano) dipendono dalla relazione che si stabilisce con l’esaminatore, e dunque viene condizionato da questi, probabilmente ha una concezione metafisica del mondo: quella secondo la quale ogni oggetto ha delle qualità che dipendono dalla sua natura intrinseca, e questa purezza ontologica o questi caratteri naturali possono venire modificati o sovvertiti da determinati rapporti. Quel che è certo è che le qualità di ogni oggetto sono sempre di natura relazionale, derivano cioè dalle condizioni e dalle relazioni in cui esso si trova in ogni momento. Qualunque situazione umana è sempre originale e unica, quindi lo è anche il colloquio, e questo vale non soltanto per i fenomeni umani, ma anche per quelli della natura. L’originalità di ogni evento non impedisce di stabilire delle costanti generali, cioè delle condizioni che si ripetono con maggiore frequenza. L’individuale non esclude il generale, né la possibilità di introdurre astrazioni e categorie di analisi. Questo si contrappone a un narcisismo che si estende come presupposto all’interno del campo scientifico della psicologia e in base al quale ogni essere umano si considera distinto e unico, risultato di una particolare diversità. Egli a poco a poco scopre con stupore che ha le stesse viscere dei suoi simili, così come scopre (oppure rifiuta di scoprire) che la sua vita personale è intessuta su una trama comune a tutti gli esseri umani.
Colloqui e ricerca
Non vi è possibilità di un colloquio corretto e fecondo se si prescinde dalla ricerca: il colloquio è un campo di lavoro in cui si indaga sul comportamento e sulla personalità degli esseri umani. Che questo venga poi realizzato o meno non dipende più dallo strumento. Una corretta utilizzazione del colloquio unisce nella stessa persona e nello stesso atto l’operatore e il ricercatore. La chiave fondamentale del colloquio è l’indagine condotta durante il suo svolgimento. Le osservazioni che ne derivano vengono sempre fatte sulla base di ipotesi che va formulando l’osservatore: interviene dapprima l’osservazione, poi l’ipotesi e infine la verifica. Il modo migliore di osservare è quello di formulare delle ipotesi mentre si osserva, per poi verificarle e rettificarle nel corso del colloquio in funzione delle osservazioni successive, che a loro volta si arricchiscono delle ipotesi precedentemente enunciate. L’osservare, il pensare e l’immaginare coincidono totalmente e fanno parte di un unico processo dialettico. Chi non usa la propria fantasia potrà essere un buon verificatore di dati, ma non un ricercatore.
La riflessione su quello che si sta facendo deve intervenire in ogni azione umana e quando ciò avviene sistematicamente in un campo di attività definito, e il risultato di tale riflessione viene sottoposto a verifica, si sta svolgendo una ricerca. Il lavoro tecnico dello psicologo, dello psichiatra e del medico assume la sua reale portata e rilevanza quando la ricerca e il compito professionale coincidono, poiché questi sono gli elementi di una prassi grazie alla quale si evita la disumanizzazione nel compito più umano: quello di comprendere e aiutare gli altri. Indagine e azione, teoria e pratica devono essere affrontati come momenti inscindibili, che fanno parte di un unico processo.
Il gruppo nel colloquio
Esaminatore ed esaminando costiuiscono un gruppo, cioè un insieme o un tutto i cui componenti sono in interrelazione e si comportano in modo interdipendente. Si differenzia da altri gruppi per il fatto che uno dei suoi appartenenti assume un ruolo specifico e persegue determinati obiettivi. L’interdipendenza e l’interrelazione, il condizionamento reciproco dei rispettivi comportamenti, si realizzano attraverso il processo della comunicazione, nel senso che il comportamento dell’uno (conscio o meno) agisce (intenzionalmente o meno) come stimolo per il comportamento dell’altro, e questo a sua volta esercita nuovamente un’azione di stimolo sulle manifestazioni del primo. In questo processo la parola gioca un ruolo di importanza estrema, ma interviene attivamente anche la comunicazione preverbale: gesti, atteggiamenti, timbro e tono affettivo della voce, ecc.
Il tipo di comunicazione che si stabilisce è altamente indicativo della personalità dell’esaminando, e in particolare della natura delle sue relazioni interpersonali, cioè del suo modo di porsi in relazione con i propri simili. Nel processo che si svolge durante il colloquio, l’esaminatore è già in grado di osservare come e attraverso che cosa l’esaminando provoca egli stesso, senza saperlo, gli effetti di cui si lamenta o sembra essere vittima. Sono particolarmente importanti i momenti di cambiamento nella comunicazione e le situazioni e tematiche di fronte alle quali compaiono inibizioni, interruzioni e blocchi. Il tipo di comunicazione non ha importanza soltanto perché fornisce all’osservazione diretta dei dati che possono essere anche registrati, ma in quanto costituisce il fenomeno chiave di tutta la relazione interpersonale, che può essere gestito dall’esaminatore e, in questo modo, orientare e graduare il colloquio.
Transfert e controtransfert
Il transfert consiste nell’attualizzazione, operata dall’esaminando durante il colloquio, di sentimenti, atteggiamenti e comportamenti inconsci, che corrispondono a modelli da lui elaborati nel corso dello sviluppo, in particolare nella relazione con il proprio ambiente familiare. Coesistono sempre transfert positivo e transfert negativo e costituiscono la parte irrazionale e inconscia del comportamento e ne rappresentano gli aspetti non controllati dal paziente. L’osservazione di questi fenomeni ci pone in contatto con aspetti del comportamento e della personalità dell’esaminando che non rientrano fra gli elementi che egli può riferire o apportare volontariamente o consciamente, ma che aggiungono una dimensione importante alla conoscenza della struttura della sua personalità e del carattere dei suoi conflitti.
Nel transfert l’esaminando attribuisce dei ruoli all’esaminatore e si comporta in funzione di questi ruoli. Ossia trasferisce situazioni e modelli in una realtà presente e sconosciuta e tende a configurare quest’ultima come una situazione già nota, ripetitiva. Con il transfert, l’esaminando manifesta aspetti irrazionali o immaturi della propria personalità, il suo grado di dipendenza, la sua onnipotenza e il suo pensiero magico. È sulla base di tali fattori che l’esaminatore potrà intuire le aspettative dell’esaminando nei suoi confronti, le sue fantasie sul colloquio e sull’aiuto che potrebbe ricevere – cioè quello che significa per lui venire aiutato o essere sano – nonché le fantasie patologiche sulla guarigione, che molto spesso consistono nella realizzazione di aspirazioni nevrotiche. Sarà possibile individuare anche un altro fattore importante, cioè la resistenza del soggetto a sottoporsi al colloquio, ovvero ad accettare l’aiuto o la cura, e la sua intenzione di soddisfare desideri frustrati di dipendenza o di protezione.
Nel controtransfert sono inclusi tutti i fenomeni che si manifestano nell’esaminatore, come emergenti del campo psicologico che si configura nel colloquio; sono le risposte dell’esaminatore alle manifestazioni dell’esaminando, l’effetto che queste esercitano su di lui. Dipendono in larga misura dalla storia personale dell’esaminatore, ma il fatto che compaiano o si attualizzino in un momento determinato del colloquio significa che in quel momento vi sono dei fattori che operano in tal senso. L’esaminatore deve registrare questi elementi come emergenti della situazione presente e della reazione che provoca nell’esaminando; nel colloquio, dunque, l’osservazione si accompagna con l’auto-osservazione. Il controtransfert non costituisce una percezione, nel senso stretto e rigoroso del termine, ma è certamente un indizio estremamente significativo e rilevante che orienta l’esaminatore nel suo studio: ma non è facile da gestire e richiede una preparazione ed esperienza.
Transfert e controtransfert sono fenomeni che compaiono in qualsiasi relazione interpersonale, solamente che nel colloquio devono essere utilizzati come strumenti tecnici di osservazione e di comprensione. L’interazione transfert-controtransfert può essere studiata anche come un’attribuzione di ruoli da parte dell’esaminando e la percezione di questi stessi ruoli da parte dell’esaminatore: se, ad esempio, l’atteggiamento dell’esaminando provoca irritazione o rifiuto nell’esaminatore, questi deve cercare di studiare e osservare la propria reazione come effetto del comportamento dell’esaminando, per aiutarlo a modificare tale comportamento, dei cui risultati probabilmente egli stesso si lamenta. Se l’esaminatore non è in grado di oggettivare e studiare la propria reazione, oppure reagisce con irritazione e rifiuto (assumendo il ruolo proiettato), ciò significa che la sua gestione del controtransfert è disturbata e di conseguenza egli non conduce il colloquio in modo corretto.
L’ansia nel colloquio
L’ansia costituisce un indice dell’andamento di un colloquio e va seguita attentamente dall’esaminatore, che deve prendere in considerazione sia la propria che quella manifestata dall’esaminando: non soltanto la comparsa, ma anche il grado o l’intensità, perché sebbene entro certi limiti rappresenti un elemento motore della relazione intrapersonale, questa può venirne completamente perturbata o rimanere priva di controllo quando l’ansia oltrepassa un certo livello.
Esaminatore ed esaminando si trovano a dover affrontare una situazione sconosciuta, dinanzi alla quale non hanno ancora consolidato dei modelli reattivi adeguati, e questa situazione non organizzata comporta una certa disorganizzazione nella personalità di ciascuno di essi; è questa disorganizzazione che chiamiamo ansia.
L’esaminando chiede un aiuto tecnico o professionale quando prova ansia o si sente disturbato dai meccanismi difensivi che sono scattati di fronte ad essa. Durante il colloquio tanto l’ansia che queste difese possono aumentare poiché l’ignoto che egli deve affrontare non è costituito soltanto dalla novità della situazione esterna, ma anche dal pericolo rappresentato per lui da quella parte della sua personalità che gli è sconosciuta. Se tali fattori non compaiono, fare in modo che emergano, in qualche misura, durante il colloquio fa parte della funzione che ha l’esaminatore di motivare l’esaminando.
L’ansia dell’esaminatore è uno dei fattori più difficili da gestire, poiché è il motore dell’interesse per la ricerca e per l’esplorazione dell’ignoto. Ogni indagine richiede la presenza di una certa dose di ansia di fronte all’ignoto, e il ricercatore deve essere in grado di tollerarla e di utilizzarla; in caso contrario, si preclude la possibilità di portare a termine efficacemente la propria ricerca.
Dinanzi all’ansia dell’esaminando non si deve far uso di alcun procedimento, come l’aiuto diretto o il consiglio, che la dissimuli o la reprima. L’ansia può essere utilizzata soltanto se si comprendono i motivi per cui si manifesta e si agisce in base a tale comprensione. Se di fronte ad essa sono i meccanismi difensivi a prevalere, il compito dell’esaminatore è quello di “smantellare” in qualche misura queste difese perché ne compaia un certo grado, il che costituisce un indice della possibilità di analizzare i conflitti. Nel fare questo bisogna sempre tenere conto della personalità dell’esaminando e del beneficio che gli può derivare dalla mobilizzazione dell’ansia, per cui anche di fronte a situazioni estremamente chiare non bisogna essere attivi se questo significa opprimere l’esaminando con conflitti che egli non è in grado di tollerare. Questo è il cosiddetto timing del colloquio, che è il tempo di cui ha bisogno l’esaminando – e che dipende dal livello e dal tipo di organizzazione della sua personalità – per affrontare i propri conflitti e risolverli.
L’esaminatore
Per l’esaminatore lo strumento di lavoro è egli stesso, la sua personalità, che immancabilmente entra in gioco nel rapporto interpersonale; a complicare le cose vi è il fatto che l’oggetto di studio è un altro essere umano: questo implica che, nell’esaminare la vita degli altri, egli riveda e riesamini la propria, la sua personalità, i suoi conflitti e le sue frustrazioni.
Per lo sviluppo e l’esercizio della psicologia e della medicina si è dovuto ricorrere a una specie di finzione e di dissociazione, che consiste nell’occuparsi degli esseri umani come se non fossero tali. Nel tirocinio del medico vi è la tendenza, di carattere inconscio e difensivo, ad iniziare la preparazione a contatto con il cadavere. Quando vogliamo occuparci della malattia degli esseri umani considerati come tali, le nostre ansie aumentano, ma siamo costretti nello stesso tempo a liberarci dei blocchi e delle difese.
L’esaminatore deve agire mantenendosi dissociato, cioè operare in parte attraverso un’identificazione proiettiva con l’esaminando e in parte rimanendo al di fuori di tale identificazione, osservando e controllando quello che succede, in maniera da rendere graduale l’impatto emozionale e la disorganizzazione ansiosa. La dissociazione sulla base della quale deve operare l’esaminatore è nello stesso tempo funzionale e dinamica – nel senso che devono intervenire costantemente la proiezione e l’introiezione – e sufficientemente plastica da consentirgli di rimanere entro i limiti di un atteggiamento professionale. Nel corso del suo lavoro, lo psicologo può oscillare facilmente fra l’ansia e il blocco senza che questo disturbi il suo compito, sempre che sia in grado di risolvere ambedue i fenomeni man mano che compaiono. Il passaggio, nel colloquio, dalla normalità alla patologia diviene impercettibile. Una cattiva dissociazione, accompagnata da ansia intensa e persistente, conduce lo psicologo a sviluppare nei confronti dei suoi esaminandi comportamenti fobici od ossessivi che lo inducono a evitare il colloquio o ad interporvi strumenti e test per sfuggire il contatto personale e l’ansia che ne deriva. La classica fretta del medico, che tanto spesso ricorre nella satira, è una costante fuga fobica dai malati. La difesa ossessiva si manifesta, invece, in colloqui stereotipati nei quali tutto è regolato e previsto, nell’elaborazione abitudinaria di storie cliniche: il colloquio stesso si trasforma in rituale. A un livello successivo troviamo il blocco, per effetto del quale l’esaminatore mette in atto, dice e vede sempre le stesse cose, applica quello che sa e lo fa stare sicuro. L’urgenza di fare diagnosi e la compulsione ad utilizzare farmaci sono altri elementi di questa fuga e di questo rituale del medico di fronte al malato. Tutto ciò provoca l’alienazione dello psicologo e dello psichiatra, oltre a quella del paziente, e di conseguenza l’intera struttura ospedaliera e sanitaria diventa un ulteriore fattore di alienazione. Vi è anche il rischio di una proiezione dei propri conflitti sull’esaminando o di una compulsione a gravitare, e a ricercare o individuare dei disturbi nella sfera in cui, dentro di sè, ci si rifiuta di riconoscerli. La rigidità e la proiezione portano a trovare soltanto quello che si cerca e di cui si ha bisogno, e a condizionare tanto ciò che si trova quanto ciò che non si trova.
Se a un dato momento la proiezione attraverso la quale opera il tecnico è troppo intensa, compare una reazione fobica nel campo stesso di lavoro. Se, al contrario, questa subisce un blocco eccessivo, egli si allontana e non è più in grado di capire quello che accade. Tipi diversi di persone possono provocare nell’esaminatore reazioni controtransferali tipiche, che egli deve essere costantemente in condizione di osservare e risolvere per utilizzarle come informazioni e strumenti nel corso del colloquio stesso.
L’esaminatore deve sostenere i ruoli che gli vengono assegnati dall’esaminato, senza tuttavia assumerli interamente. Se ad esempio avverte un rifiuto, assumere il ruolo significa mostrare e agire il rifiuto, respingendo effettivamente l’esaminando, o in forma verbale o con un particolare atteggiamento o in qualsiasi altro modo; giocare il ruolo significa invece percepire il rifiuto, comprenderlo, trovare gli elementi che spingono l’esaminando a provocarlo, e utilizzare le informazioni di cui si è in possesso per chiarire il problema o comunque modificarlo. Fastidio, stanchezza, sonno, irritazione, blocco, pena, affetto, rifiuto, seduzione, ecc., sono tutti indizi di controtransfert che, man mano che compaiono, l’esaminatore deve percepire come tali e risolvere analizzandoli fra sé e sé in funzione della personalità dell’esaminando, della propria, nonché del contesto e del momento in cui si manifestano nella comunicazione. Lo psichiatra o lo psicologo insicuri o poco esperti non sapendo che fare con tutti questi dati, per non sentirsi oppressi, possono ricorrere alla ricetta, interponendo fra sé e il paziente i farmaci o i test, per esempio. Per contrastare questa tendenza è importante che non operino isolatamente, ma formino per lo meno dei gruppi di studio o discussione nei quali si riveda il lavoro svolto; nessun clima meglio dell’isolamento professionale può favorire la stereotipia, perché nell’isolamento si finisce per mascherare le difficoltà con l’onnipotenza.
L’esaminando
In linea generale, perché una persona si sottoponga a un colloquio deve avere la percezione o l’insight che qualcosa non va, che qualcosa è cambiato, oppure deve percepire se stessa con ansia e timori. Questi possono essere talmente intensi e intollerabili da spingere il soggetto a ricorrere, nel colloquio, a una negazione e a una resistenza sistematica, con cui ovviamente cerca di assicurarsi che non succeda nulla, facendo in modo che il tecnico non riconosca in lui niente di anomalo.
Se seguiamo la ripartizione delle aree della condotta fatta da E. Pichon-Rivière, possiamo considerare tre gruppi, a seconda che il predominio di inibizioni, sintomi, lamentele o proteste si ripercuota maggiormente nell’area della mente, del corpo o del mondo esterno. Il paziente può esprimere lamentele o accuse: nel primo caso predomina l’ansia depressiva, nel secondo quella paranoide. Queste suddivisioni tendono a non differenziare i malati organici dai malati mentali, ma vengono applicate a chiunque vada da uno specialista e tendono a dare piuttosto un orientamento sulla personalità del soggetto, sul modo in cui cerca di ridurre le tensioni, di sopportare o risolvere i suoi conflitti.
Possiamo fare una distinzione tra l’esaminando che viene a consultarci di propria iniziativa e quello che ci viene condotto da altri perché “è stato mandato”. Chi viene da solo ha un certo insight o una certa percezione della propria malattia e corrisponde al paziente nevrotico, mentre lo psicotico ha bisogno che qualcun altro prenda l’iniziativa per lui. Chi non ha motivi per sottoporsi al colloquio, ma ci viene perché lo hanno mandato, rientra nell’area della psicopatia: è qualcuno che fa agire gli altri al posto suo e delega loro le proprie preoccupazioni e il proprio malessere.
Vi è anche il caso di chi ci consulta per un suo familiare: allora sottoponiamo al colloquio la persona che è venuta da noi, indagando sulla sua personalità e sul suo comportamento. In questo modo estendiamo già la nostra ricerca dall’esaminando al gruppo familiare. Se l’esaminando è preceduto da qualcuno che viene a darci informazioni sul suo conto, questi deve essere avvertito che ciò che dirà verrà comunicato al paziente. Questo contribuisce a “sgomberare il campo” e a farci evitare delle scissioni molto difficili da gestire in seguito. Chi viene a consultarci è sempre un emergente dei conflitti del gruppo familiare; distinguiamo inoltre fra persone che si presentano da sole e quelle che arrivano accompagnate, che sono rappresentative di gruppi familiari diversi.
Chi viene da solo è il rappresentante di un gruppo familiare schizoide, nel quale la comunicazione fra i membri è estremamente precaria: essi vivono dispersi o separati, e presentano un blocco affettivo di un certo rilievo. Spesso, di fronte a questo tipo, il tecnico tende a domandarsi con chi può parlare o chi deve informare. Un altro gruppo familiare, di carattere opposto al primo, è quello cui appartengono coloro che si presentano al colloquio in diversi, tanto che il tecnico è costretto a chiedersi chi è l’esaminando o per chi sono venuti: è il gruppo epilettoide, vischioso o agglutinato, nel quale vi è un’assenza o una carenza di personificazione dei membri, con un alto grado di simbiosi o interdipendenza.
Quello delle coppie, i cui componenti si accusano a vicenda di nevrosi, di infedeltà, ecc., è un’altra situazione in cui, come in quelle precedenti, si sottopongono al colloquio tutte le persone presenti, che vengono trattate come un gruppo diagnostico che è sempre, in qualche misura, anche terapeutico. Il tecnico agisce qui come osservatore partecipante, intervenendo nei momenti di tensione, o quando la comunicazione si interrompe, o per segnalare gli incroci proiettivi.
Quando viene consultato da gruppi, lo psicologo non deve accettare il criterio della famiglia per determinare chi è il malato, ma deve prendere in considerazione tutti i suoi membri e operare come se il gruppo stesso fosse il malato. In questi casi, l’incrocio dei ruoli e la dinamica del gruppo sono gli elementi che servono come orientamento per far acquisire insight della situazione all’intero gruppo.
L’oscillazione della malattia in un gruppo familiare è un altro fattore di estrema importanza: per esempio un a coppia in cui uno è fobico e l’altro è l’accompagnatore; quando migliora l’uno compare la fobia nell’altro. Altre volte, la famiglia si presenta allo psicologo soltanto quando il trattamento è già a buon punto e il paziente ha avuto o è in procinto di avere un miglioramento; la sua normalizzazione fa sì che la tensione del gruppo familiare non possa più “scaricarsi” attraverso di lui, ed ecco manifestarsi allora lo squilibrio o la malattia nel gruppo familiare. Tutto questo spiega ampiamente un fenomeno di cui si deve sempre considerare la presenza nella famiglia di un malato: i sensi di colpa. Si manifesta con maggiore evidenza nel caso di malattie mentali in bambini o in deficienti mentali. Ciò è connesso anche con il cosiddetto fenomeno del “bambino sbagliato”, per il quale i genitori vengono a consultarci con il bambino più sano e soltanto dopo essersi assicurati che il tecnico non li incolpi o non li accusi riescono a parlare o a chiedere consiglio sul figlio malato.
Funzionamento del colloquio
Ho insistito sul fatto che il campo del colloquio deve essere configurato fondamentalmente dalle variabili relative alla personalità dell’esaminando. Ciò implica che quello che propone l’esaminatore sia sufficientemente ambiguo da permettere all’esaminando di mettere in gioco il più possibile la propria personalità. Esiste tuttavia un ambito o un’area in cui l’ambiguità non deve esistere e il cui confine, al contrario, deve essere mantenuto e a volte difeso dall’esaminatore. In quest’ambito rientrano tutti i fattori che fanno parte dell’inquadramento del colloquio: tempo, luogo e ruolo tecnico dell’operatore [andrebbe aggiunto il compito, o obiettivo]. Il tempo si riferisce a un orario e a un limite posto all’estensione del colloquio; lo spazio corrisponde alla cornice o all’ambiente in cui il colloquio si svolge. Per quanto riguarda il ruolo tecnico, l’esaminatore non deve permettere nel modo più assoluto di venire presentato come un amico in un incontro fortuito. Inoltre, egli non deve intervenire nel colloquio con le sue relazioni o con il racconto della propria vita; né entrare in relazioni commerciali o di amicizia con l’esaminando, e neppure pretendere di trarre dal colloquio alcun vantaggio che non sia il suo onorario e l’interesse scientifico e professionale. Non deve nemmeno utilizzare il colloquio come gratificazione narcisistica, facendo la parte del mago e ostentando la propria onnipotenza.
La curiosità deve limitarsi a quello che è strettamente necessario per il beneficio del paziente. Tutto quanto viene sentito e vissuto come reazione controtransferale va considerato come un dato del colloquio, e non bisogna rispondere o agire di fronte al rifiuto, alla trivialità o all’invidia dell’esaminando. La petulanza o l’atteggiamento arrogante o aggressivo di quest’ultimo non devono essere “domati” o piegati; non si tratta né di trionfare né di imporsi sul paziente, ma di appurare a che cosa son dovuti, come funzionano e quali effetti producono su di lui. Egli ha il diritto, anche se noi ne prendiamo nota, di fare uso ad esempio della sua rimozione e della sua sfiducia. Molto spesso il grado di rimozione dell’esaminando dipende rigorosamente dal grado di rimozione che utilizza l’esaminatore di fronte a determinati temi (sessualità, invidia, ecc.). Se interveniamo con delle domande, queste devono essere dirette e senza sotterfugi o secondi fini, adeguate alla situazione e al grado di tolleranza dell’io dell’esaminando. Non si deve neppure aprire il colloquio in maniera ambigua, ricorrendo a frasi generiche o a doppio senso. Il colloquio inizia dal punto in cui inizia l’esaminando. Si deve riceverlo cortesemente, ma senza effusione. Se si possiedono dati sul suo conto forniti da un’altra persona, bisogna informarlo di ciò e analogamente avvertire subito chi ci dà tali notizie che i dati riguardanti terzi non saranno mantenuti segreti. Questo tende a mantenere l’inquadramento e a evitare le divisioni schizoidi o il passaggio all’azione psicopatica, oltre che a sgomberare il campo da tutto quello che può limitare la spontaneità del tecnico, il quale non deve cedere a compromessi che possano pesare negativamente sul colloquio. La riservatezza dell’esaminatore sui dati forniti dall’esaminando è implicita nel colloquio e, se si dovesse presentare a un’istituzione una relazione sul colloquio effettuato, bisognerebbe informare l’esaminando. La riservatezza e il segreto professionale vanno mantenuti anche riguardo ai malati psicotici e al materiale dei colloqui realizzati con adolescenti o bambini; in quest’ultimo caso non dobbiamo sentirci autorizzati a riferire ai genitori dettagli del colloquio avuto con i figli.
Il silenzio dell’esaminando è lo spettro dell’esaminatore alle prime armi, per il quale questo silenzio è indice di fallimento o incapacità. Con un minimo di esperienza, tuttavia, non è possibile che un colloquio fallisca; ogni colloquio apporta dati importanti sulla personalità dell’esaminando. Bisogna riconoscere i diversi tipi di silenzio (silenzio paranoide, depressivo, fobico, confusionale, ecc.) e intervenire sulla base di tale conoscenza.
Se il silenzio totale non è l’ideale in un colloquio (dal punto di vista dell’esaminatore), non lo è neppure la catarsi intensa (dal punto di vista dell’esaminando). Spesso chi parla molto in realtà tralascia di dire le cose più importanti, poiché il linguaggio non è solo uno strumento per trasmettere informazioni, ma è anche un potente mezzo per evitare di fornirne. Nemmeno la scarica emozionale intensa è la cosa migliore del colloquio; in genere, attraverso di essa l’esaminando riesce a depositare massivamente i suoi conflitti nell’esaminatore, in seguito prende le distanze da quest’ultimo e istaura con lui un rapporto di tipo persecutorio: il confessore si trasforma facilmente in persecutore. Il termine del colloquio deve essere rispettato come tutto l’inquadramento; la reazione alla separazione è un dato di estrema importanza, così come è importante valutare il modo in cui se ne va l’esaminando e la nostra situazione controtransferale.
Un colloquio ben condotto richiede molto tempo, cosa di cui spesso non si dispone, soprattutto in seno alle istituzioni (scolastiche, ospedaliere, aziendali, ecc.). In questi casi, conviene impiegare una parte del tempo che si ha a disposizione per portare a termine anche solo un colloquio al giorno in condizioni ottimali. Ciò impedisce la stereotipia nel lavoro e le razionalizzazioni dell’evitamento fobico. È inoltre essenziale riservarsi il tempo necessario per studiare i colloqui già effettuati, ed è preferibile farlo in gruppi di lavoro. Lo psicologo e lo psichiatra non devono lavorare isolati, perché questo favorisce la loro alienazione nel lavoro.
L’interpretazione
Il colloquio è sempre un’esperienza di vita estremamente importante per l’esaminando; molto spesso rappresenta l’unica possibilità che egli ha di parlare il più sinceramente possibile di se stesso con qualcuno che non lo giudichi, ma lo comprenda. Il colloquio dunque agisce sempre come un fattore normativo o di apprendimento. Il colloquio diagnostico è sempre, in qualche misura, anche terapeutico.
Il primo fattore terapeutico è sempre la comprensione dell’esaminatore, che deve trasmettere all’esaminando alcuni elementi di tale cognizione che possano essergli utili. A nostro giudizio, nel colloquio diagnostico si deve interpretare soprattutto ogni volta che la comunicazione tende ad interrompersi o a distorcersi. Un altro caso molto frequente, nel quale il nostro intervento è indispensabile, è quello in cui si devono stabilire delle relazioni fra le cose che l’esaminando ci ha comunicato. Per interpretare, dobbiamo tener conto del livello di ansia che stiamo risolvendo oppure creando, e considerare anche se ci saranno altre opportunità per l’esaminando di risolvere le ansie che mobilizziamo. In ogni caso, dobbiamo interpretare soltanto sulla base degli emergenti, di ciò che interviene realmente nell’hic et nunc del colloquio.
Un fattore essenziale di orientamento nell’interpretazione è sempre il beneficio dell’esaminando e non la “scarica” dell’ansia dell’esaminatore. Inoltre, ammesso che si interpreti, si deve tenere presente che l’interpretazione è un’ipotesi che va verificata o corretta nello stesso campo di lavoro, in base alla risposta che stimoliamo o suscitiamo nel metterla sul tappeto.
Ogni interpretazione al di fuori del contesto e del timing diventa sempre un’aggressione e fa parte della formazione dello psicologo anche imparare a tacere. Una delle “regole d’oro” (se ve ne sono) è che quanto più forte è la compulsione a interpretare, tanto più è necessario tacere.
La relazione psicologica
La relazione psicologica ha come fine quello di sintetizzare o riassumere le conclusioni a cui si è giunti riguardo all’oggetto di studio.
L’ordine con cui si redige una relazione è del tutto indipendente da quello con cui si sono raccolti i dati o si sono tratte le conclusioni.
1. Generalità: nome, cognome, età, ecc.
2. Procedimenti utilizzati: colloqui (numero, frequenza, tecnica, "clima" e luogo in cui si sono svolti), tests (specificare quali si sono utilizzati), gioco, protocolli standardizzati, questionari, ecc.
3. Motivi dello studio: chi lo richiede e quali sono i suoi obiettivi. Atteggiamento dell’esaminando e sue motivazioni consce.
4. Descrizione sintetica del gruppo familiare e di altri gruppi che hanno avuto o hanno importanza nella vita dell’esaminando (relazioni del gruppo familiare con la comunità: status socio-economico e altri rapporti. Composizione, dinamica e ruoli, comunicazione e cambiamenti significativi, ecc.)
5. Problematica esistenziale: breve riferimento alla vita dell’esaminando e ai suoi conflitti attuali, al suo sviluppo, ad acquisizioni, perdite, cambiamenti, timori, aspirazioni, inibizioni e al modo di affrontarle o di subirle.
6. Descrizione delle strutture di comportamento, differenziando quelle predominanti da quelle accessorie. Cambiamenti osservati.
7. Descrizione dei tratti del carattere e della personalità, che comprenda l’esame della dinamica psicologica (ansia, difese), e un riferimento all’organizzazione patografia (qualora fosse presente).
8. Se si tratta di una relazione particolarmente dettagliata e rigorosa (ad esempio, di una perizia), includervi i risultati di ogni test e di ogni esame complementare effettuato.
9. Conclusione: diagnosi e caratterizzazione psicologica dell’individuo e del suo gruppo. Soddisfare in modo specifico gli obiettivi dello studio.
10. Includere una possibilità di prognosi dal punto di vista psicologico, precisando gli elementi sui quali si basa.
11. Orientamento possibile: segnalare se sono necessari ulteriori esami e di che tipo. Indicare in che modo è possibile aiutare, alleviare o orientare l’esaminando.
(2009)
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