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UN ANNO IN ASCOLTO DELLA SCUOLA (UNA SCUOLA MEDIA INFERIORE)
“… Come allora oggi in tua presenza impietro,
mare, ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.”
(Mediterraneo, Eugenio Montale)
Quello che qui propongo è il resoconto, in chiave analitica, di un lavoro svolto nel 2006 all’interno di una scuola media inferiore di Bologna. Il compito consisteva nell’organizzazione e nella gestione di uno “Sportello d’ascolto” all’interno di quel plesso dell’Istituto Comprensivo.
Uno Sportello d’ascolto è uno spazio, di libero accesso, cui gli studenti possono riferirsi per parlare di cio che più li abita e li impegna. Un luogo, all’interno della scuola, che cerca di caratterizzarsi per il fatto di poter parlare di cose delle quali, all’interno della scuola, solitamente non si parla. E', o dovrebbe essere, per quanto possibile, uno spazio libero dove ci si mette in discussione non tanto per quello che si è fatto o che non si è fatto (anche se questo aspetto è di assoluta importanza) ma, soprattutto, per quello che si sente e che si prova: per quello che si è. Un luogo dove si cerca di realizzare un confronto quanto piu possibile lontano dalle critiche moralistiche e dai giudizi cosi tanto presenti, pesanti e pressanti, nella realta di tutti i giorni.
Lo Sportello è stato attivato in questa scuola media nel mese di ottobre del 2005 e, dopo un paio di mesi di cessata attivita per problemi economici, è ripreso per terminare nel mese di maggio del 2006. Nel periodo si sono svolti numerosi colloqui e molti sono stati gli argomenti di cui si è avuto modo di discutere.
Tutti quanti però, in linea di massima, sono sembrati girare attorno ad un unico tema: la difficolta di crescere e di affrontare i cambiamenti che sopraggiungono, anche se non voluti, nell’eta inquieta, quella adolescenziale (o pre-adolescenziale). Si puo affermare, senza timore di sbagliare, che le tematiche di cui si è discusso e sulle quali i ragazzi hanno chiesto un confronto ruotino attorno a questa “banalità”, a questo “luogo comune”.
Qualcuno è venuto allo Sportello per parlare delle difficoltà che si incontrano quando il contesto cambia e per forza di cose si deve cambiare per adattarsi alla situazione attuale.
Questa situazione dilemmatica viene esplicitata soprattutto dai ragazzi e dalle ragazze che frequentano le prime classi, ma è una situazione trasversale, che viene costantemente riproposta anche dagli allievi delle classi superiori anche se con inclinazioni ed urgenze diverse.
Le difficolta immediate che si incontrano sul cammino scolastico e che piu concretamente emergono sono quelle relative all’inserirsi in un nuovo ambiente. Un ambiente che pone questioni differenti rispetto a quelle cui si e stati abituati a rispondere fino a ieri e che richiede un grande sforzo per essere affrontato.
E allora vengono tirati in ballo i problemi che nascono nell’incontro con nuovi compagni (o anche con compagni gia conosciuti ma inseriti in un altro contesto); o le difficolta che scaturiscono dal dovere entrare in sintonia con insegnanti che hanno pretese diverse rispetto a quelli precedentemente incontrati; o anche le complicazioni derivanti dalla mole di compiti assegnati, cui prima non si era avvezzi e che richiedono una nuova organizzazione della giornata:
“ieri ho fatto i compiti fino alle una e trenta di notte… non ne posso più!”
Una sorta di iper-stimolazione, o l’essere sottoposti ad una molteplicita e diversità di stimoli, che esige molta pazienza ed una notevole applicazione per cercare di sopportare la nuova realtà e riuscire ad adattarvisi. Ciò che esige notevoli sforzi e molto impegno e che forse non tutti i ragazzi e le ragazze riescono ad affrontare come dall’esterno ci si attenderebbe da loro; ma forse anche come essi stessi si sarebbero aspettati.
Qualcun altro si è presentato per parlare delle difficoltà incontrate nelle relazioni con gli amici o con i compagni di classe.
Questi casi sono caratterizzati dall’idea di non essere riconosciuti e rispettati dalle persone con cui si deve, invece, imparare a convivere. Se è vero che si comprende l’importanza di riuscire a rapportarsi alle altre persone, è anche vero che l’incrocio tra differenti modalità comportamentali e relazionali spesso produce dei contrasti che fanno girare a vuoto il rapporto stesso. Ci si viene a trovare in una situazione sgradevole dalla quale si vorrebbe subito uscire, ma ci si ritrova incastrati senza nemmeno sapere come e ci si chiede chi sia il responsabile di questa situazione:
“Sbaglio io o sbagliano loro?”
“Perché mi prendono in giro?”
Ci si vede sottoposti ad un trattamento del quale non si comprendono i motivi ma che si sente, fondamentalmente, ingiusto, e si cerca in tutti i modi di far fronte a queste difficoltà. Allora è possibile rifugiarsi nelle vecchie amicizie, regno della sicurezza identitaria e delle abitudini ormai consolidate; oppure si può decidere di trovare riparo in qualche attivita extra-scolastica, che possa dare un senso alla vita quotidiana così povera di riconoscimenti e di relazioni paritarie soddisfacenti.
Emerge, spesso, un’aggressivita repressa, trattenuta e celata, che in qualche caso si può cercare di trattenere fino a che si riesce, ma in qualche altro si potrebbe anche decidere di lasciar sfogare, magari con modalità non propriamente ortodosse. E allora c’è il ragazzo che, consapevole della sua irrequietezza e del suo nervosismo, fantastica situazioni di violenza e si immedesima in personaggi cattivi ma socialmente accettati, e scarica la sua aggressività dando pugni al muro. E c’è quello che, non senza una certa soddisfazione, dice:
“Adesso ho iniziato a picchiarli, così mi difendo!”.
Un circolo vizioso poiché è una soddisfazione, quella che scaturisce dal riuscire a mostrarsi forti, cui sembra fare da contraltare l’amarezza dovuta al fatto che, così facendo, ci si allontana dagli altri e ci si sente sempre più soli. Come se l’aggressione fisica costituisse, rispetto all’impossibilita di comunicare, l’unico modo per far capire agli altri qualcosa di sé. L’unica possibilità di istaurare un contatto sembra essere mediata da un’espressione rabbiosa. Ma, in questo modo, ci si allontana dall’altro nel momento stesso in cui lo si cerca.
Come nella balbuzie, altro comportamento (o sintomo, sarebbe meglio dire) affine alla sfera dell’aggressività. Si vorrebbe dire, si vorrebbe comunicare, ma la rabbia che si prova strozza il messaggio in gola. E si rimane cosi, sospesi a mezz’aria, con la voglia di dire qualcosa ma con l’impossibilità di farlo. Il messaggio che arriva all’altro è diverso da quello che si voleva trasmettere intenzionalmente, ne arriva uno diverso, forse piu profondo; sicuramente, non riuscendo a trasmetterlo compiutamente, meno comprensibile.
Altri, individualmente o a coppie, sono venuti allo Sportello per chiarire il rapporto che li lega ai propri compagni e che li tiene uniti.
Spesso in effetti si incontrano persone che sembrano dare per scontate molte delle relazioni che costituiscono l’ossatura affettiva della propria esistenza. Dare per scontato, e non verificare, provoca meno ansia rispetto ad intrattenere un rapporto diretto con qualcun altro; andare avanti per stereotipi è piu facile che impegnarsi in un confronto che ci metterebbe in discussione in prima persona. E così si tende a vivere il rapporto con le persone che ci circondano, i compagni e le compagne di classe, come se sapessimo già le posizioni assunte da quelle, senza chiedere loro nulla:
“Ma tanto lo sa, non c’è bisogno!”
Parlare con gli altri è difficile e potrebbero rispondere in modo tale da mettere in discussione il nostro modo di vedere le cose e d’affrontare la realtà. E allora è meglio non farlo:
“Ma tu hai parlato con… e con gli altri di quello che è accaduto?”
“No, ma si sa che è così…”
Una situazione diametralmente opposta, invece, la si è incontrata quando si sono presentate piu persone con l’intenzione, più o meno consapevole, di parlarsi e dirsi delle cose. Ragazze e ragazzi che si sono seduti, non senza un iniziale imbarazzo, e che in qualche modo hanno cominciato a farsi delle domande: si sono stimolati, si sono sfiorati, ora si sono allontanati ma solo per riavvicinarsi un attimo dopo.
E allora lui e lei si guardano, impacciati: lei che parla delle sue difficoltà e delle poche amicizie; e lui che, soddisfatto dei miglioramenti fatti nell’ultimo periodo, cerca di sostenerla, di farle forza.
Oppure due ragazzi in competizione per conquistare le attenzioni di una stessa ragazza. La competizione sulle prime non è sentita come tale, la si nega e la si rifiuta: che cosa accadrebbe se uno di loro riuscisse a conquistare la dolce fanciulla?
“Mah, non lo so…”
“Resterebbe tutto uguale ad adesso…”
Ma, pian piano, riesce ad emergere:
“Forse non gli parlerei più…”
“Se si dovesse mettere con qualcun altro a questo gli spaccherei la faccia!”
Si parlano, la competizione ora si “sente”; alla fine si dicono che chi dovesse uscire sconfitto sarebbe sicuramente dispiaciuto, ma che si potrebbe continuare ad essere amici.
La sensazione, in questi casi, è stata quella di avere assistito a delle comunicazioni importanti: ci si è lealmente confrontati, laddove il con-fronto è anche con-fidenza, ossia dove è possibile confrontarsi solo se c’è anche fiducia nell’altro. Quella fiducia da cui è indispensabile partire se si è realmente intenzionati a mettere in discussione i propri punti di riferimento e disponibili a lasciarsi invadere, almeno un po’, dal punto di vista dell’altro.
Altri hanno parlato delle difficoltà che si incontrano quando tutto il resto sembra cambiare e l’unico punto di riferimento fisso sembra essere se stessi.
Ecco che ci si confronta con l’amica, o l’amico, del cuore per cercare di capire quello che sta accadendo tutt’intorno. Gli “altri” cambiano, si fa fatica a riconoscerli, e con essi cambiano le relazioni che ci tenevano legati a loro:
“eravamo molto amiche, poi è cambiata molto rispetto allo scorso anno”.
Quando ci si trova coinvolti in una serie di cambiamenti non previsti, si rischia di rimanere soli, allora per evitare questa conseguenza si cerca di adeguarsi al mondo che muta, ma questo comporta grande impegno, oltre alla “paura” di non conoscere ciò cui si andrà incontro ed al rimpianto per quel che è stato e, forse, non sarà più. Sguardi che, muti, sembrano voler dire: perché non può rimanere tutto com’è? Se qui noi stiamo bene, perché bisogna cambiare?
Ma si possono esprimere certe sensazioni, certi pensieri?
Razionalmente si sa che il tempo scorre, che si “deve” crescere e che ci si dovrà separare, prima o poi, ma il cuore porta da un’altra parte, verso le amicizie già collaudate e verso gli affetti già consolidati. Ma anche verso i comportamenti già sperimentati e conosciuti, quelli che guidano i nostri passi nella vita quotidiana con il minimo indispensabile di pensieri e di ansie.
Si cerca di accogliere il “nuovo”, la novità, cercando di racchiuderla dentro agli schemi preordinati di sempre anche se, di quando in quando, sembra scorgersi una corrente carsica iniziare a muoversi ed a cercare vie di uscita… differenti, anche se con estrema difficolta e fatica:
“Ieri ho provato a studiare un po’, ma poi mi sono detto: ‘cosa stai facendo?’
E vedendomi con la sigaretta e a far cavolate con gli amici,
ho richiuso il libro e sono uscito”
Si fa fatica a conciliare impegno e divertimento. Sembra che il divertimento consista nel ripetere le stesse cose di sempre e che ciò procuri piacere perché non richiede impegno l’agirle. O, perlomeno, questa sembra essere la concezione comune della parola. In realtà, il termine “divertimento” deriva da “divěrtere”, ossia “volgere in opposta direzione”: come a voler significare che ci si può divertire quando ci si impegna nel mettere in atto comportamenti differenti, mai o poco sperimentati in precedenza.
Cambiare, infatti, potrebbe anche significare andare contro ciò che il senso comune suggerisce di fare. E non solo il senso comune, ma pure i genitori e gli insegnanti!
Dunque, colui che è stato tra i piu bravi della classe fino a poco tempo prima vede con una certa preoccupazione il suo modo diverso di affrontare la scuola: una negligenza prima sconosciuta nel fare i compiti a casa, meno attenzione in classe alle spiegazioni degli insegnanti, un atteggiamento piu ilare e scherzoso… ed un discreto numero di note sul registro. La tentazione di tornare alla tranquilla situazione precedente è forte ma, dall’altra parte:
“ho trovato degli amici con cui stare e con cui mi diverto!”
Altri ancora arrivano allo Sportello per cercare di chiarire, soprattutto chiarirsi, il rapporto che li vincola alla propria famiglia.
Chi è dispiaciuto perché si sente trascurato dai genitori, anche se in qualche modo li giustifica perché stanno vivendo un momento importante e delicato; chi è in pensiero per la propria famiglia, per l’ennesima volta in una situazione problematica, e pensa di dover affrontare le proprie ansie e le proprie paure da solo poiché non ne può parlare con la mamma:
“non ne parlo con mia madre perché le darei un problema in più”
Chi, per le vicissitudini vissute in famiglia, si ritrova a scaricare le proprie tensioni sui compagni e le compagne di scuola, rendendosi conto a posteriori, quando le cose sembra si siano appianate in casa, dell’errore commesso:
“sì, forse ho esagerato, non avrei dovuto farlo!”
Chi sente di non avere la fiducia dei genitori, con troppi divieti che si traducono nella sensazione di una mancanza di libertà; e chi sembra chiedersi, cercando comunque di nasconderselo, vista l’enorme portata e la notevole difficolta della domanda, se potersi fidare del genitore che dice una cosa ma ne fa un’altra.
Rapporti che sembrano caratterizzati da molta confusione e poche soddisfazioni, nei quali non si rimane male per le percosse fisiche subite ma per il timore, negato, di essere lasciati soli. Una minaccia che, seguita dal riavvicinamento e dalla riappacificazione tra le parti, viene vissuta come ricatto, ingenerando una sorta di caos mentale:
“già questa mattina mi ha telefonato e mi ha detto: ‘amore, come stai?’,
ed io: ‘ma allora non sei più arrabbiata con me?’,
e lei: ‘un pochino’.
Non so quanto resisterebbe senza di me!”
Sembra che si crei una situazione nella quale se il genitore è arrabbiato allora il figlio è colpevole, o si sente colpevole. Quel figlio che, egoista ed irriconoscente, fa soffrire chi si prende cura di lui. Ma anche il figlio, abitando una situazione che non lo aiuta a fare chiarezza attorno a sé, si arrabbia e soffre. Il rischio, dall’una e dall’altra parte, è quello di mettersi a giocare a “chi si arrabbia e soffre di piu”, proiettando il proprio senso di colpa per la sofferenza vissuta dall’altro, e cercando di ottenere una posizione di potere senza riuscire a chiarire ciò che si prova e ciò che sta accadendo.
Se la colpa è dell’altro io ho ragione: questa logica pare costituire, nella sua ermetica chiusura e nella sua superficialità, l’ancora di salvezza, il punto fermo della nave, per riuscire a sopravvivere in una situazione continuamente turbata da onde tumultuose. Ma le onde non si placano e, se non si decide di affrontare il mare quando la sua forza è minore, si rischia di rimanere li, fermi, soggetti alle intemperie ed in attesa della prossima tempesta.
Il pensare di essere lasciati soli significa anche confrontarsi con il pensiero della morte, ciò di cui si cerca sempre di non parlare ma che sembra essere presente anche nei pensieri degli adolescenti. Pensiero che, naturalmente, quando viene evocato provoca grandi ansie e sofferenze e sembra paralizzare. E allora sono i genitori che, di fronte all’immobilità causata da un corpo senza vita, arrivano e ti portano via, lontano da quel pensiero e da quell’evento.
“non riuscirei a sopportare la morte dei miei genitori,
spero di morire prima io di loro”
Terribile è, dunque, pensare anche solo per un attimo alla morte dei propri genitori, questa si che ti lascia da solo, evento che non si vorrebbe mai vivere.
Credo che a questo serva, naturalmente con i suoi limiti, lo Sportello d’ascolto: ossia ad impedire che le ragazze ed i ragazzi immersi nei loro problemi quotidiani si sentano soli, senza nessun sostegno, o contenitore, cui affidarsi per parlare e per cercare di affrontare le proprie ansie ed i propri timori.
Si potrebbe pensare al disagio come originato dalla difficoltà di riuscire a dare senso a ciò che si fa ed a ciò che si vive: senso che si fa fatica a trovare quando si ha a che fare con una complessità continuamente mutevole e sfuggente. Una complessità, o realtà, dove sembrano mancare dei punti fermi cui riferirsi.
Lo Sportello d’ascolto si potrebbe caratterizzare, allora, come un argine, un piccolo argine, rispetto alle dinamiche proiettive dei ragazzi che, rivolte ad una molteplicità di oggetti, sembrano non avere (non darsi?) la possibilità di un confronto con un “altro da sè” stabile ed affidabile.
“… Come allora oggi in tua presenza impietro,
mare, ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.”
(Mediterraneo, Eugenio Montale)
Quello che qui propongo è il resoconto, in chiave analitica, di un lavoro svolto nel 2006 all’interno di una scuola media inferiore di Bologna. Il compito consisteva nell’organizzazione e nella gestione di uno “Sportello d’ascolto” all’interno di quel plesso dell’Istituto Comprensivo.
Uno Sportello d’ascolto è uno spazio, di libero accesso, cui gli studenti possono riferirsi per parlare di cio che più li abita e li impegna. Un luogo, all’interno della scuola, che cerca di caratterizzarsi per il fatto di poter parlare di cose delle quali, all’interno della scuola, solitamente non si parla. E', o dovrebbe essere, per quanto possibile, uno spazio libero dove ci si mette in discussione non tanto per quello che si è fatto o che non si è fatto (anche se questo aspetto è di assoluta importanza) ma, soprattutto, per quello che si sente e che si prova: per quello che si è. Un luogo dove si cerca di realizzare un confronto quanto piu possibile lontano dalle critiche moralistiche e dai giudizi cosi tanto presenti, pesanti e pressanti, nella realta di tutti i giorni.
Lo Sportello è stato attivato in questa scuola media nel mese di ottobre del 2005 e, dopo un paio di mesi di cessata attivita per problemi economici, è ripreso per terminare nel mese di maggio del 2006. Nel periodo si sono svolti numerosi colloqui e molti sono stati gli argomenti di cui si è avuto modo di discutere.
Tutti quanti però, in linea di massima, sono sembrati girare attorno ad un unico tema: la difficolta di crescere e di affrontare i cambiamenti che sopraggiungono, anche se non voluti, nell’eta inquieta, quella adolescenziale (o pre-adolescenziale). Si puo affermare, senza timore di sbagliare, che le tematiche di cui si è discusso e sulle quali i ragazzi hanno chiesto un confronto ruotino attorno a questa “banalità”, a questo “luogo comune”.
Qualcuno è venuto allo Sportello per parlare delle difficoltà che si incontrano quando il contesto cambia e per forza di cose si deve cambiare per adattarsi alla situazione attuale.
Questa situazione dilemmatica viene esplicitata soprattutto dai ragazzi e dalle ragazze che frequentano le prime classi, ma è una situazione trasversale, che viene costantemente riproposta anche dagli allievi delle classi superiori anche se con inclinazioni ed urgenze diverse.
Le difficolta immediate che si incontrano sul cammino scolastico e che piu concretamente emergono sono quelle relative all’inserirsi in un nuovo ambiente. Un ambiente che pone questioni differenti rispetto a quelle cui si e stati abituati a rispondere fino a ieri e che richiede un grande sforzo per essere affrontato.
E allora vengono tirati in ballo i problemi che nascono nell’incontro con nuovi compagni (o anche con compagni gia conosciuti ma inseriti in un altro contesto); o le difficolta che scaturiscono dal dovere entrare in sintonia con insegnanti che hanno pretese diverse rispetto a quelli precedentemente incontrati; o anche le complicazioni derivanti dalla mole di compiti assegnati, cui prima non si era avvezzi e che richiedono una nuova organizzazione della giornata:
“ieri ho fatto i compiti fino alle una e trenta di notte… non ne posso più!”
Una sorta di iper-stimolazione, o l’essere sottoposti ad una molteplicita e diversità di stimoli, che esige molta pazienza ed una notevole applicazione per cercare di sopportare la nuova realtà e riuscire ad adattarvisi. Ciò che esige notevoli sforzi e molto impegno e che forse non tutti i ragazzi e le ragazze riescono ad affrontare come dall’esterno ci si attenderebbe da loro; ma forse anche come essi stessi si sarebbero aspettati.
Qualcun altro si è presentato per parlare delle difficoltà incontrate nelle relazioni con gli amici o con i compagni di classe.
Questi casi sono caratterizzati dall’idea di non essere riconosciuti e rispettati dalle persone con cui si deve, invece, imparare a convivere. Se è vero che si comprende l’importanza di riuscire a rapportarsi alle altre persone, è anche vero che l’incrocio tra differenti modalità comportamentali e relazionali spesso produce dei contrasti che fanno girare a vuoto il rapporto stesso. Ci si viene a trovare in una situazione sgradevole dalla quale si vorrebbe subito uscire, ma ci si ritrova incastrati senza nemmeno sapere come e ci si chiede chi sia il responsabile di questa situazione:
“Sbaglio io o sbagliano loro?”
“Perché mi prendono in giro?”
Ci si vede sottoposti ad un trattamento del quale non si comprendono i motivi ma che si sente, fondamentalmente, ingiusto, e si cerca in tutti i modi di far fronte a queste difficoltà. Allora è possibile rifugiarsi nelle vecchie amicizie, regno della sicurezza identitaria e delle abitudini ormai consolidate; oppure si può decidere di trovare riparo in qualche attivita extra-scolastica, che possa dare un senso alla vita quotidiana così povera di riconoscimenti e di relazioni paritarie soddisfacenti.
Emerge, spesso, un’aggressivita repressa, trattenuta e celata, che in qualche caso si può cercare di trattenere fino a che si riesce, ma in qualche altro si potrebbe anche decidere di lasciar sfogare, magari con modalità non propriamente ortodosse. E allora c’è il ragazzo che, consapevole della sua irrequietezza e del suo nervosismo, fantastica situazioni di violenza e si immedesima in personaggi cattivi ma socialmente accettati, e scarica la sua aggressività dando pugni al muro. E c’è quello che, non senza una certa soddisfazione, dice:
“Adesso ho iniziato a picchiarli, così mi difendo!”.
Un circolo vizioso poiché è una soddisfazione, quella che scaturisce dal riuscire a mostrarsi forti, cui sembra fare da contraltare l’amarezza dovuta al fatto che, così facendo, ci si allontana dagli altri e ci si sente sempre più soli. Come se l’aggressione fisica costituisse, rispetto all’impossibilita di comunicare, l’unico modo per far capire agli altri qualcosa di sé. L’unica possibilità di istaurare un contatto sembra essere mediata da un’espressione rabbiosa. Ma, in questo modo, ci si allontana dall’altro nel momento stesso in cui lo si cerca.
Come nella balbuzie, altro comportamento (o sintomo, sarebbe meglio dire) affine alla sfera dell’aggressività. Si vorrebbe dire, si vorrebbe comunicare, ma la rabbia che si prova strozza il messaggio in gola. E si rimane cosi, sospesi a mezz’aria, con la voglia di dire qualcosa ma con l’impossibilità di farlo. Il messaggio che arriva all’altro è diverso da quello che si voleva trasmettere intenzionalmente, ne arriva uno diverso, forse piu profondo; sicuramente, non riuscendo a trasmetterlo compiutamente, meno comprensibile.
Altri, individualmente o a coppie, sono venuti allo Sportello per chiarire il rapporto che li lega ai propri compagni e che li tiene uniti.
Spesso in effetti si incontrano persone che sembrano dare per scontate molte delle relazioni che costituiscono l’ossatura affettiva della propria esistenza. Dare per scontato, e non verificare, provoca meno ansia rispetto ad intrattenere un rapporto diretto con qualcun altro; andare avanti per stereotipi è piu facile che impegnarsi in un confronto che ci metterebbe in discussione in prima persona. E così si tende a vivere il rapporto con le persone che ci circondano, i compagni e le compagne di classe, come se sapessimo già le posizioni assunte da quelle, senza chiedere loro nulla:
“Ma tanto lo sa, non c’è bisogno!”
Parlare con gli altri è difficile e potrebbero rispondere in modo tale da mettere in discussione il nostro modo di vedere le cose e d’affrontare la realtà. E allora è meglio non farlo:
“Ma tu hai parlato con… e con gli altri di quello che è accaduto?”
“No, ma si sa che è così…”
Una situazione diametralmente opposta, invece, la si è incontrata quando si sono presentate piu persone con l’intenzione, più o meno consapevole, di parlarsi e dirsi delle cose. Ragazze e ragazzi che si sono seduti, non senza un iniziale imbarazzo, e che in qualche modo hanno cominciato a farsi delle domande: si sono stimolati, si sono sfiorati, ora si sono allontanati ma solo per riavvicinarsi un attimo dopo.
E allora lui e lei si guardano, impacciati: lei che parla delle sue difficoltà e delle poche amicizie; e lui che, soddisfatto dei miglioramenti fatti nell’ultimo periodo, cerca di sostenerla, di farle forza.
Oppure due ragazzi in competizione per conquistare le attenzioni di una stessa ragazza. La competizione sulle prime non è sentita come tale, la si nega e la si rifiuta: che cosa accadrebbe se uno di loro riuscisse a conquistare la dolce fanciulla?
“Mah, non lo so…”
“Resterebbe tutto uguale ad adesso…”
Ma, pian piano, riesce ad emergere:
“Forse non gli parlerei più…”
“Se si dovesse mettere con qualcun altro a questo gli spaccherei la faccia!”
Si parlano, la competizione ora si “sente”; alla fine si dicono che chi dovesse uscire sconfitto sarebbe sicuramente dispiaciuto, ma che si potrebbe continuare ad essere amici.
La sensazione, in questi casi, è stata quella di avere assistito a delle comunicazioni importanti: ci si è lealmente confrontati, laddove il con-fronto è anche con-fidenza, ossia dove è possibile confrontarsi solo se c’è anche fiducia nell’altro. Quella fiducia da cui è indispensabile partire se si è realmente intenzionati a mettere in discussione i propri punti di riferimento e disponibili a lasciarsi invadere, almeno un po’, dal punto di vista dell’altro.
Altri hanno parlato delle difficoltà che si incontrano quando tutto il resto sembra cambiare e l’unico punto di riferimento fisso sembra essere se stessi.
Ecco che ci si confronta con l’amica, o l’amico, del cuore per cercare di capire quello che sta accadendo tutt’intorno. Gli “altri” cambiano, si fa fatica a riconoscerli, e con essi cambiano le relazioni che ci tenevano legati a loro:
“eravamo molto amiche, poi è cambiata molto rispetto allo scorso anno”.
Quando ci si trova coinvolti in una serie di cambiamenti non previsti, si rischia di rimanere soli, allora per evitare questa conseguenza si cerca di adeguarsi al mondo che muta, ma questo comporta grande impegno, oltre alla “paura” di non conoscere ciò cui si andrà incontro ed al rimpianto per quel che è stato e, forse, non sarà più. Sguardi che, muti, sembrano voler dire: perché non può rimanere tutto com’è? Se qui noi stiamo bene, perché bisogna cambiare?
Ma si possono esprimere certe sensazioni, certi pensieri?
Razionalmente si sa che il tempo scorre, che si “deve” crescere e che ci si dovrà separare, prima o poi, ma il cuore porta da un’altra parte, verso le amicizie già collaudate e verso gli affetti già consolidati. Ma anche verso i comportamenti già sperimentati e conosciuti, quelli che guidano i nostri passi nella vita quotidiana con il minimo indispensabile di pensieri e di ansie.
Si cerca di accogliere il “nuovo”, la novità, cercando di racchiuderla dentro agli schemi preordinati di sempre anche se, di quando in quando, sembra scorgersi una corrente carsica iniziare a muoversi ed a cercare vie di uscita… differenti, anche se con estrema difficolta e fatica:
“Ieri ho provato a studiare un po’, ma poi mi sono detto: ‘cosa stai facendo?’
E vedendomi con la sigaretta e a far cavolate con gli amici,
ho richiuso il libro e sono uscito”
Si fa fatica a conciliare impegno e divertimento. Sembra che il divertimento consista nel ripetere le stesse cose di sempre e che ciò procuri piacere perché non richiede impegno l’agirle. O, perlomeno, questa sembra essere la concezione comune della parola. In realtà, il termine “divertimento” deriva da “divěrtere”, ossia “volgere in opposta direzione”: come a voler significare che ci si può divertire quando ci si impegna nel mettere in atto comportamenti differenti, mai o poco sperimentati in precedenza.
Cambiare, infatti, potrebbe anche significare andare contro ciò che il senso comune suggerisce di fare. E non solo il senso comune, ma pure i genitori e gli insegnanti!
Dunque, colui che è stato tra i piu bravi della classe fino a poco tempo prima vede con una certa preoccupazione il suo modo diverso di affrontare la scuola: una negligenza prima sconosciuta nel fare i compiti a casa, meno attenzione in classe alle spiegazioni degli insegnanti, un atteggiamento piu ilare e scherzoso… ed un discreto numero di note sul registro. La tentazione di tornare alla tranquilla situazione precedente è forte ma, dall’altra parte:
“ho trovato degli amici con cui stare e con cui mi diverto!”
Altri ancora arrivano allo Sportello per cercare di chiarire, soprattutto chiarirsi, il rapporto che li vincola alla propria famiglia.
Chi è dispiaciuto perché si sente trascurato dai genitori, anche se in qualche modo li giustifica perché stanno vivendo un momento importante e delicato; chi è in pensiero per la propria famiglia, per l’ennesima volta in una situazione problematica, e pensa di dover affrontare le proprie ansie e le proprie paure da solo poiché non ne può parlare con la mamma:
“non ne parlo con mia madre perché le darei un problema in più”
Chi, per le vicissitudini vissute in famiglia, si ritrova a scaricare le proprie tensioni sui compagni e le compagne di scuola, rendendosi conto a posteriori, quando le cose sembra si siano appianate in casa, dell’errore commesso:
“sì, forse ho esagerato, non avrei dovuto farlo!”
Chi sente di non avere la fiducia dei genitori, con troppi divieti che si traducono nella sensazione di una mancanza di libertà; e chi sembra chiedersi, cercando comunque di nasconderselo, vista l’enorme portata e la notevole difficolta della domanda, se potersi fidare del genitore che dice una cosa ma ne fa un’altra.
Rapporti che sembrano caratterizzati da molta confusione e poche soddisfazioni, nei quali non si rimane male per le percosse fisiche subite ma per il timore, negato, di essere lasciati soli. Una minaccia che, seguita dal riavvicinamento e dalla riappacificazione tra le parti, viene vissuta come ricatto, ingenerando una sorta di caos mentale:
“già questa mattina mi ha telefonato e mi ha detto: ‘amore, come stai?’,
ed io: ‘ma allora non sei più arrabbiata con me?’,
e lei: ‘un pochino’.
Non so quanto resisterebbe senza di me!”
Sembra che si crei una situazione nella quale se il genitore è arrabbiato allora il figlio è colpevole, o si sente colpevole. Quel figlio che, egoista ed irriconoscente, fa soffrire chi si prende cura di lui. Ma anche il figlio, abitando una situazione che non lo aiuta a fare chiarezza attorno a sé, si arrabbia e soffre. Il rischio, dall’una e dall’altra parte, è quello di mettersi a giocare a “chi si arrabbia e soffre di piu”, proiettando il proprio senso di colpa per la sofferenza vissuta dall’altro, e cercando di ottenere una posizione di potere senza riuscire a chiarire ciò che si prova e ciò che sta accadendo.
Se la colpa è dell’altro io ho ragione: questa logica pare costituire, nella sua ermetica chiusura e nella sua superficialità, l’ancora di salvezza, il punto fermo della nave, per riuscire a sopravvivere in una situazione continuamente turbata da onde tumultuose. Ma le onde non si placano e, se non si decide di affrontare il mare quando la sua forza è minore, si rischia di rimanere li, fermi, soggetti alle intemperie ed in attesa della prossima tempesta.
Il pensare di essere lasciati soli significa anche confrontarsi con il pensiero della morte, ciò di cui si cerca sempre di non parlare ma che sembra essere presente anche nei pensieri degli adolescenti. Pensiero che, naturalmente, quando viene evocato provoca grandi ansie e sofferenze e sembra paralizzare. E allora sono i genitori che, di fronte all’immobilità causata da un corpo senza vita, arrivano e ti portano via, lontano da quel pensiero e da quell’evento.
“non riuscirei a sopportare la morte dei miei genitori,
spero di morire prima io di loro”
Terribile è, dunque, pensare anche solo per un attimo alla morte dei propri genitori, questa si che ti lascia da solo, evento che non si vorrebbe mai vivere.
Credo che a questo serva, naturalmente con i suoi limiti, lo Sportello d’ascolto: ossia ad impedire che le ragazze ed i ragazzi immersi nei loro problemi quotidiani si sentano soli, senza nessun sostegno, o contenitore, cui affidarsi per parlare e per cercare di affrontare le proprie ansie ed i propri timori.
Si potrebbe pensare al disagio come originato dalla difficoltà di riuscire a dare senso a ciò che si fa ed a ciò che si vive: senso che si fa fatica a trovare quando si ha a che fare con una complessità continuamente mutevole e sfuggente. Una complessità, o realtà, dove sembrano mancare dei punti fermi cui riferirsi.
Lo Sportello d’ascolto si potrebbe caratterizzare, allora, come un argine, un piccolo argine, rispetto alle dinamiche proiettive dei ragazzi che, rivolte ad una molteplicità di oggetti, sembrano non avere (non darsi?) la possibilità di un confronto con un “altro da sè” stabile ed affidabile.
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