1. Incontro e il paradigma della terzietà
Ogni formatore sa quanto sia importante per il successo di un’iniziativa formativa che nel gruppo si generi un clima positivo e collaborativo. Ossia che avvenga un incontro produttivo tra il formatore, i partecipanti e l’oggetto di lavoro e di apprendimento. Incontro al quale ci si può preparare in maniera meticolosa, programmando la scaletta in modo che vi sia un filo logico, modulando attività frontali e sessioni esercitative, prestando attenzione alla fase di avvio (patto formativo e costruzione del gruppo) e a quella conclusiva (bilancio dell’esperienza).
Ci si incontra e in ogni incontro succede qualcosa che sfugge alla “presa” della progettazione: qualche partecipante ritarda, le autopresentazioni prendono più tempo del previsto, una domanda accende un conflitto, un’esercitazione prevista viene annullata e sostituita con un momento di riflessione individuale, e così via, l’elenco potrebbe continuare. Potremmo considerare questi fatti come determinati da carenze di progettazione oppure come incidenti “normali” a cui non prestare particolare attenzione. Personalmente preferisco pensarli come “sporgenze” o “pieghe” che rompono l’ordine razionale degli eventi, l’ordine del discorso, e che segnalano qualche cosa di importante per il processo di apprendimento che si sta svolgendo. Sporgenze, o pieghe, che mi inducono a porre una domanda banale nella sua essenzialità: chi si incontra in un’aula di formazione? O, volendo estendere il discorso “oltre l’aula”, chi si incontra in un setting formativo? Qui entrano in gioco i nostri modelli di riferimento, le nostre visioni filosofiche, i nostri paradigmi. Chi si incontra, quindi? Potremmo dire che si incontrano delle “menti”, ossia non delle sostanze individuali ma delle strutture di per sé relazionali e processuali. Si incontrano delle menti e si attivano diversi livelli di comunicazione, in uno spettro che copre gradualmente dimensioni consce e inconsce, emotive e razionali. Si può ipotizzare, seguendo Bleger, che oltre a questo strato interattivo agisca sempre anche un livello sincretico, di partecipazione pre-relazionale o a-relazionale, che rimanda ad aree indiscriminate della nostra psiche (socialità sincretica).
La storia della psicoanalisi, da Freud in poi, è la storia dell’esplorazione dello spazio intermedio. Per limitarci agli autori principali: dopo Freud, per il quale abbiamo visto, lo Zwischenreich è innanzitutto il regno di mezzo del transfert e poi della fantasia e dell’arte; con la Klein è l’area del gioco; con Lacan lo stadio dello specchio e dell’alienazione primitiva che fonda il soggetto per come è riflesso dallo sguardo dell’altro; con Winnicott lo spazio potenziale/transizionale; con Bion “O” ossia “qualcosa” tra paziente e analista che è l’oggetto dell’analisi; con Green il “terzo” in analisi; con Ogden il “terzo intersoggettivo” [1].
Spostando lo sguardo sui processi di gruppo, potremmo forse aggiungere a questo elenco il nome di Pichon-Rivière. Il concetto di ECRO gruppale, ossia di uno schema concettuale, relazionale e operativo, nel quale i diversi partecipanti di un gruppo si riconoscono, avendo condiviso un processo di lavoro e di apprendimento intorno a un compito è sicuramente una nozione che rimanda alla dimensione della terzietà. L’ECRO è la struttura risultante dalla messa a confronto “conflittuale” degli ECRO individuali. Ha pertanto anch’esso un carattere di transindividualità, tra costruzione gruppale e processi di soggettivazione, e di intermedietà, essendo costituito dall’insieme dei legami reali e fantasmatici con l’oggetto di apprendimento [2]. La nozione di ECRO, come altri nodi concettuali della concezione operativa, per esempio la “spirale dialettica” che descrive il processo del gruppo, rimanda ad un modo di intendere la terzietà influenzato, oltre che dalla psicoanalisi, anche dalla grande tradizione del pensiero dialettico hegeliano e marxiano. L’ECRO gruppale infatti è un momento di sintesi parziale, che include, superandoli, gli ECRO individuali, dove il conflitto-contraddizione assume la funzione primaria di mo-tore dell’apprendimento/cambiamento.
Il concetto contemporaneo di campo analitico, collocato all’interno di coordinate cultu-rali post-moderne, costituisce la declinazione più “radicale” del paradigma della terzietà. Esula dal nostro contributo inquadrare dal punto di vista filosofico il concetto attuale di campo. Ci limitiamo tuttavia a sottolineare come esso, a differenza della concezione “operativa”, sia connesso, oltre che ad uno sviluppo della pratica clinica, ad un orizzonte teorico influenzato dall’ermeneutica, dal decostruzionismo e dalla narratologia. Volendo un po’ forzare la mano, potremmo dire che l’ECRO sta alla dialettica come il campo sta alla differenza [3]. Nei prossimi paragrafi descriveremo le caratteristiche più salienti della concezione attuale del campo analitico e cercheremo di individuare la portata teorica e pratica per le prassi formative.
2. Formazione e psicoanalisi. Breve inquadramento
Come è noto, la psicosocioanalisi è una disciplina teorico-pratica che ha come fulcro centrale concetti e metodi di derivazione psicoanalitica. Un compito fondamentale cui è chiamato oggi il formatore psicosocioanalista è quello di confrontarsi con i recenti sviluppi della psicoanalisi e di operare una “traduzione” delle principali innovazioni teoriche e tecniche dall’ambito clinico-terapeutico a quello della formazione degli adulti. Non è negli scopi di questo contributo indagare in modo approfondito i nessi tra psicoanalisi e formazione. Ci interessa in questo contesto sottolineare come sia il mondo della formazione sia quello psicoanalitico negli ultimi decenni siano stati oggetto di notevoli cambiamenti, che hanno portato a trasformazioni profonde, di natura paradigmatica, dovute sia a fattori esterni, di natura socio-economica, sia interni alle discipline e alle comunità stesse [4].
Per quanto riguarda il mondo della formazione, specie quello connesso alle organizza-zioni di lavoro, le trasformazioni collegate ai processi di globalizzazione e all’imporsi della narrazione neoliberale, hanno determinato una perdita di centralità del concetto illuministico di Bildung, come spazio auto-diretto di costruzione della soggettività individuale e collettiva, a favore di un’idea di messa a valore complessiva della vita nelle sue componenti affettive e cognitive, ossia nell’insieme del bios, funzionale a rendere i sistemi più performanti (efficaci ed efficienti) e capaci di meglio competere sul mercato globale. Come suggerisce F. Carmagnola, ci si trova oggi – drammaticamente – di fronte all’alternativa tra una formazione efficace perché “fattuale” e una formazione di ampie vedute che ha come finalità quella di interrogarsi sul valore e il senso dell’agire, ma che tendenzialmente non serve e quindi “provoca problemi in un ambiente dove la competizione si afferma come valore in sé, e la partecipazione alla competizione come l’in-sé del valore” [5].
Il formatore che, per ragioni filosofiche e politiche, non voglia abdicare a svolgere una funzione critica, di co-costruzione, insieme ai suoi formandi, di spazi di soggettivazione autonoma e molteplice (non solo piegata alle esigenze della produzione e del mercato globale), è chiamato pertanto a ricercare, scavando nell’ambiguità strutturale delle realtà organizzative, quelle strategie e quei modelli formativi che siano in grado di salvaguar-dare l’aspetto di “sporgenza”, o di piega, rispetto all’imperativo categorico dell’efficacia e dell’efficienza [6]. Si può ipotizzare che una formazione a indirizzo psicodinamico, proprio in quanto mantiene l’attenzione sul doppio livello conscio/inconscio e sui meccanismi non lineari che disorientano e sfuggono alla presa della razionalità strumentale (spostamento, condensazione, metaforizzazione ecc.) sia strutturalmente e geneticamente più attrezzata a salvaguardare tale aspetto. Porre la nozione di inconscio, come luogo di produzione altro, al centro della pratica formativa comporta un effetto di deragliamento e di slittamento rispetto al programma di valorizzazione economica della vita.
Quindi, tenendo conto del quadro sopra sinteticamente delineato, il compito è oggi quello di aggiornare approcci, strumenti e tecniche formative, alla luce delle innovazioni teoriche e tecniche offerta dalla psicoanalisi contemporanea.
La formazione è una pratica che per sua natura tende ad ibridare e a integrare contributi provenienti da discipline e approcci eterogenei, in una sorta di bricolage intellettuale e operativo che si combina in base alla sensibilità di ciascun singolo formatore, così come in relazione agli specifici contesti e finalità formative. Pensiamo ad esempio a come il tema della leadership sia trattato generalmente tenendo presenti diversi approcci e diverse sensibilità, derivanti dai management studies, dalla sociologia e dalla psicologia dell’organizzazione, non necessariamente di matrice psicoanalitica. Questa attitudine ad ibridare vale anche se si restringe il campo all’utilizzo delle concettualizzazioni più specificamente psicoanalitiche. Anche in questo caso, generalmente, il formatore tende a servirsi, nel lavoro d’aula, di costrutti che rimandano a diversi approcci (freudiani, kleiniani, psicologia analitica dell’Io, bioniani e post-bioniani, ecc.), senza un’eccessiva preoccupazione di coerenza teorica. Dell’ampio ampio e variegato armamentario concettuale, derivato dalla psicoanalisi, ricordiamo alcuni nuclei fondamentali che per decenni hanno costituto una sorta di “cassetta degli attrezzi” per i formatori a orientamento psicosocioanalitico:
• La concezione dinamica dell’apparato psichico e della relazione tra conflitto-ansie-difese. Pensiamo per esempio a come tale modello sia stato utilizzato nella lettura delle dinamiche collegate al ruolo organizzativo; in particolare rispetto al conflitto interno generato dalla necessità di rispondere ad attese tra loro non convergenti da parte di uno o più “emittenti di ruolo”. Oppure in relazione al modello kleiniano-jaquesiano delle ansie di base collegate alle componenti prescrittive (ansia persecutoria) e discrezionali (ansia depressiva) del ruolo organizzativo.
• L’utilizzo dell’esame di realtà come processo dinamico di presa di consapevolezza delle dissonanze tra dichiarato/presunto/effettivo in vista della definizione di un “auspicato consentito”, ossia di una direzione progettuale, che si fondi, in modo realistico (né impotente, né onnipotente) sulle diverse forze in gioco.
• L’attenzione ai processi transferali e controtransferali come vertici da cui leggere le dinamiche tra docente e partecipanti; nella consapevolezza 1) di utilizzare tali costrutti per una lettura dei movimenti del gruppo in apprendimento, senza tuttavia giungere ad una interpretazione da esplicitare al gruppo e 2) di non poter elaborare il transfert negativo, anche a causa dei tempi “ristretti” nei quali generalmente si gioca la formazione, specie in contesti organizzativi produttivi.
• La riflessione sul ruolo del formatore come funzione ego-ausiliaria; quindi, da un punto di vista dinamico, il formatore assume una funzione di integrazione tra componenti super-egoiche, pulsionali (desideranti e aggressive) e “dati di realtà”, ovvero vincoli-risorse-obiettivi. La funzione di Io ausiliario colloca il formatore, sul piano del processo secondario, nel ruolo di co-pensatore, con funzioni di sintesi, memoria, integrazione dei diversi fattori emergenti nel lavoro d’aula, sia di natura contenuti-stica che di processo.
• L’attenzione per le possibili collusioni (“utilizzare inconsciamente le paure dell’altro per difendersi dalle proprie”) tra formatore e partecipanti, sempre nel quadro di un modello dinamico centrato su conflitto-ansie-difese; ricerca della “giusta distanza” con il gruppo dei partecipanti, nel tentativo di bilanciare spinte alla fusionalità e alla simbiosi o viceversa freddezza, distacco, assenza di empatia. Operativamente ciò si traduce nel presidio del setting interno ed esterno.
• Il rischio di un atteggiamento super-egoico nei diversi attori implicati nel processo formativo (il formatore in primis, ma anche il committente e i partecipanti); tema affrontato ampiamente da Gino Pagliarani nei suoi scritti dedicati alla formazione [7]. L’atteggiamento super-egoico (la carenza di capacità negativa e la conseguente pres-sione a dire/fare la cosa giusta, evitando di transitare nel dubbio, nell’incertezza) è visto da Pagliarani come strutturalmente connesso alla situazione formativa, a sua volta collegata all’asimmetria tra un polo che sa e che trasferisce le conoscenze e un polo “mancante”, che non sa e che le riceve. Scrive Pagliarani: “Si fa qui l’ipotesi che la situazione formativa, rappresentando o riproducendo simbolicamente gli ele-menti che hanno contribuito a strutturarsi del difetto fondamentale, possa suscitare ansia e innescare un tentativo di controllo e riduzione della stessa. In questa dire-zione, una via semplice ed a portata di mano potrebbe essere il ricorso a difese superegoiche già presenti o che comunque un intervento di tipo super-egoico trove-rebbe la strada aperta in quanto modalità precedentemente esperita. Si opererebbe allora un processo di compressione dell’Io ad opera di un Super-Io potente e scarsamente riducibile dall’Io stesso” [8].
• Cura del setting: predisposizione dei fattori a-processuali (spazi, tempi, orari, ono-rario, ruoli, compito) sui quali si depositano le parte più primitive della mente gruppale (Bleger). Attenzione per il setting interno del formatore, onde evitare o limitare processi collusivi.
• Utilizzo della ripartizione bioniana tra gruppo di lavoro/gruppo in assunto di base; anche in questo caso il formatore si serve di questo costrutto per cogliere e dare senso determinati momenti che si possono determinare nel corso del processo di apprendimento, e che possono segnalare dei bisogni profondi, non giunti a rappre-sentazione, del gruppo dei partecipanti. In altri termini, seguendo la lezione di Pagliarani, gli assunti di base possono essere intesi non solo come meccanismi regressivi e psicotici, ma anche come segnalatori per richiamare il formatore a modulare il suo ruolo e il suo stile di conduzione in funzione dell’assunto di base prevalente (rispettivamente affidabile, coraggioso, creativo per gli assunti di base di dipendenza, attacco-fuga, accoppiamento).
• L’utilizzo della concezione operativa di gruppo elaborata dalla scuola psicoanalitica argentina di Pichon-Rivière [9]; l’attenzione per una doppia dimensione del compito (manifesto e latente), per le diverse funzioni esercitate dai partecipanti e per il livello di fissità e stereotipia nell’esercizio delle stesse, la focalizzazione del formatore-coordinatore sugli “emergenti” e sui “passaggi” di fase (pre-compito, compito, progetto) del processo gruppale costituiscono degli strumenti di lavoro ordinari – a prescindere da un utilizzo specifico della tecnica operativa – del formatore psicosocioanalista.
Questa rapida e incompleta carrellata di temi e tecniche può essere oggi riesaminata e reinquadrata alla luce della rinnovata cornice teorica della psicoanalisi contemporanea. Del resto è normale che la formazione a orientamento psicodinamico sia destinata a seguire, a distanza e con un ritmo proprio, le trasformazioni della “sorella maggiore” dalla quale trae modelli e pratiche di intervento. Ci troviamo oggi di fronte ad una sorta di “nuova ondata”; con un fisiologico effetto di ritardo, i formatori sono chiamati a fare i conti con i modelli teorici e tecnici, di matrice neo-bioniana, che propongono una visione rinnovata della principale scoperta freudiana: l’inconscio. Va sottolineato che tale cesura, o rottura epistemologica, riguarda una corrente ancora minoritaria nella comunità anali-tica, ma sempre più influente, sia a livello italiano che internazionale. Basti citare il rilievo internazionale di analisti come J. S. Grotstein, T. Odgen e dell’italiano A. Ferro, attuale presidente dell’Associazione Psicoanalitica Italiana.
La tesi che qui sosteniamo è che la forte scossa che i post-bioniani hanno dato alla psicoanalisi [10] apra, per chi si occupa di formazione nelle organizzazioni, dei territori fecondi sia per inquadrare la propria pratica sia per raffinare la propria tecnica di lavoro. Inoltre si può supporre che il quadro teorico emergente, in quanto sposta il focus dall’interpretazione alla narrazione, sia addirittura maggiormente compatibile con gli obiettivi e l’ambito di applicazione della formazione. Uno dei rischi infatti dell’applicazione dei modelli fortemente segnati da una postura interpretativa, era, nonostante le precauzioni deontologiche e la consapevolezza di non debordare oltre un compito formativo, quello di slittare verso un approccio più o meno surrettiziamente volto a disvelare una presunta verità nascosta piuttosto che a costruire spazi inediti di pensabilità e di azione. Come si diceva, il passaggio fondamentale riguarda la mutata concezione dell’inconscio come concetto cardine della psicoanalisi. Per chiarire questo passaggio riportiamo per esteso tre differenti citazioni:
L’inconscio non è più la regione dove sono spediti al confino i pensieri che non hanno diritto di accedere alla coscienza; esso diventa una funzione della personalità deputata a digerire la realtà e a rifornire la mente di cibo. Un cibo che Bion chiama “verità”. Non è più (solo) il disordine che irrompe come sintomo nella civiltà del discorso razionale, con i suoi classici effetti lacunosi (con i lapsus, gli atti mancati, i sogni) o di dismisura (con gli acting, i fraintendimenti del transfert, o anche le deviazioni che permettono alla pulsione di soddisfarsi per sublimazione). È concepito invece come una struttura che serve a simbolizzare: una componente dell’organizzazione psichica che aiuta la mente a categorizzare, a dimenticarsi delle differenze per trattenere delle somiglianze, per disegnarsi dei modelli delle cose, per “sognarle”. Per questo è preferibile riferirsi ai processi inconsci come a un continuum di attività psichiche di cui troviamo tracce in una gamma di funzioni che va dal sogno notturno al calcolo algebrico [11].
Il secondo cambiamento riguarda il concetto di inconscio non più considerato come il luogo del rimosso, del “celato” da indagare e decifrare, dotato di una sua stabilità, alla stregua delle rovine di uno scavo archeologico e riemergente attraverso la via regia del sogno.
L’inconscio è qualcosa che sta a valle della relazione che si produce nell’incontro tra due menti, è in continuo divenire grazie alle operazioni della funzione alfa, della barriera di contatto, dell’apparato per pensare, sentire e sognare nel suo complesso [12].
In Bion l’inconscio perde il suo significato ontico di luogo; è una funzione della mente, non uno spazio per depositare il rimosso. Per Bion non esiste opposizione tra conscio e inconscio (quest’ultimo come un insieme di contenuti primitivi e arcaici che possono essere svelati e compresi) ma relazioni tra oggetti e funzioni. (…) L’accento si è spostato ora dal “rimosso” al “non ancora rappresentato”, dallo “scoperto” al “creato” (…) [13].
Per una disamina articolata degli effetti che questo passaggio ha determinato su aspetti fondamentali della teoria e della pratica psicoanalitica (setting, relazione analista-paziente, interpretazione, modello della mente, ecc.) si rimanda al prezioso lavoro curato da A. Ferro, Psicoanalisi oggi.
Qui ci limitiamo a elencare quelli che riteniamo essere i principali snodi che possono avere un impatto profondo sul modo di fare formazione e sull’assetto mentale del formatore, nel suo lavoro in aula.
• L’inconscio non è più soltanto inteso come il luogo del rimosso ma (anche) come una funzione trasformativa, che è alla base del processo di simbolizzazione, ossia di trasformazione (messa in forma) di protoemozioni (che sfuggono alla rappresentazione, nel gergo bioniano “elementi beta”), in immagini, in concatenamenti narrativi di immagini, fino all’articolazione in pensieri.
• Come estensione del punto precedente possiamo dire che Bion, a partire dal suo lavoro sul pensiero degli schizofrenici, inaugura il passaggio da una psicoanalisi dei “contenuti” ad una psicoanalisi delle “funzioni” [14]. In altri termini, non si tratta più – solo – di ristabilire una verità rimossa, recuperando un contenuto inconscio, quanto piuttosto di sviluppare le funzioni psichiche che consentono di “sognare” e “pensare” l’esperienza. Ciò significa abbandonare la metafora della ricostruzione archeologica, secondo la quale il processo analitico coincide con uno scavo in profondità per riportare alla luce dei frammenti dimenticati (dimensione verticale, dall’alto verso il basso), per esplorare, nel qui ed ora della relazione, una molteplicità (rizomatica?) di direzioni, alla ricerca di un’espansione della capacità di pensare/sognare. Come metteremo a fuoco nel prossimo paragrafo, Pagliarani, lettore di Bion, anticipa almeno parzialmente questo passaggio, mettendo a fuoco il carattere “architettonico” (costruttivo e pro-gettuale), più che archeologico (ricostruttivo), della pratica clinica, sia essa terapeutica o formativa.
• Il sogno, la via regia per l’inconscio, non è più (solo) un’attività notturna, custode del sonno, da decifrare per coglierne il contenuto latente; esso è in primo luogo da intendersi come una funzione, attiva anche durante la vita diurna, ma resa invisibile dalla luminosità accecante dei processi consci (di giorno la luna c’è ma non si vede). In una formula efficace possiamo dire che si è passati dal sogno, con un focus sul contenuto, al sognare, come funzione di elaborazione delle protoemozioni in pensieri.
• Come i relazionalisti [15] e gli intersoggettivisti [16], anche i neo-bioniani radicalizzano la critica ad una psicoanalisi unipersonale, dove l’analista specchio mantiene uno stato di neutralità nei confronti dell’analizzando. Tra analista e paziente si genera un campo che non è più né dell’uno né dell’altro, ma della coppia. Avviene quindi un passaggio dall’unipersonale al transpersonale.
• Dal punto di vista della teoria della tecnica, il passaggio fondamentale riguarda la perdita di centralità dell’interpretazione a favore di un’espansione narrativa del campo. Compito dell’analista è pertanto quello di contribuire all’espansione narrativa del campo, intervenendo a un livello “micrometrico [17]” sulle varie configurazioni che il campo progressivamente assume. Prima di passare ad analizzare in modo più compiuto il modello di “campo analitico” e le sue ricadute per la formazione, ci sembra opportuno recuperare una traccia che Pagliarani ci ha lasciato nei suoi scritti e che, letta ora, con un effetto di nachtraeglichkeit , ci sembra una potente anticipazione del modello di cui si sta parlando.
3. Intermezzo. Pagliarani “oltre le stigmate del transfert”
Nella giornata nona del Coraggio di Venere [18], intitolata “Ibridamente sulla spirale”, Pagliarani, o meglio il personaggio che nella finzione letteraria lo incarna, si confronta con l’eredità freudiana rispetto al tema del transfert. Pur riconoscendo la genialità del fondatore della psicoanalisi (“Freud era e resta un genio”), Pagliarani sembra prendere le distanze da una visione della relazione clinica, e non solo clinica, schiacciata e appesantita dal movimento ripetitivo del passato. Egli prende posizione a favore della valorizzazione del presente (“presentismo”), per cui “un sentimento forte e vero emergente nell’hic et nunc può bucare il filtro del transfert”. In altre parole, il transfert – che insieme alla resistenza – è una delle due parole chiave della psicoanalisi, è solo un vertice possibile da cui guardare la relazione analitica. Accanto, ed oltre, alla ri-creazione, è fondamentale pensare alla creazione, ossia a quello che di originale e unico si crea nel qui ed ora della relazione. Questo secondo piano costituisce il valore estetico della psicoanalisi: consentendo il passaggio dalla ripetizione del transfert all’ibridazione che si realizza nell’incontro, la psicoanalisi diventa arte.
Ibridazione assume quindi la funzione di parola chiave con cui Pagliarani pensa alla dimensione estetica e creativa dell’incontro. E ciò vale, in senso esteso, per ogni incontro con l’altro, sia esso una persona o un pensiero, una teoria:
Ibrido vuol dire anche non ortodosso e tu mi richiami all’ortodossia. Freud era e resta un genio. Sicuramente una mente più alta di quella che si ritrovano tanti suoi seguaci. Sono persuaso che, vivo oggi, Freud si distanzierebbe da certi freudiani. Come Marx da certi marxisti. Io non nego Freud, come non nego Marx. Quel che siamo oggi, tutti, ha almeno una radice in loro, nella loro lezione, ma proprio per questo sto alla saggezza di Whitehead che dice: «Una scienza esitante nello scordare chi l’ha fondata è perduta» [19].
È a questo punto che Pagliarani introduce, scherzando con le parole, il neologismo trans-transfert per riferirsi a “tutto ciò che – al di là del transfert – si produce in ogni relazione” [20]; a sostegno della sua tesi, fa poi subito riferimento alla recente lettura di un articolo di uno psicoanalista bioniano, A. B. Bahia (Nuove teorie: loro influenza ed effetto sulla tecnica psicoanalitica), che sottolinea come il vertice del transfert rischi di impedire l’osservazione imparziale di “fatti nuovi” (that is the non repeated), che rappresentano il non ripetuto di ogni situazione analitica, così che idee originali e fertili non possono na-scere, vengono annichilite, sono rese sterili. Una traccia testuale ci riporta al nome di Grotstein che, come abbiamo detto sopra, è uno degli autori di riferimento per la corrente post-bioniana contemporanea. L’articolo di A. B. Bahia, che tanto entusiasma Pagliarani, è inserito in un Memorial collettaneo, dedicato a Bion, curato da Grotstein, come lo stesso Pagliarani ci ricorda poche pagine più avanti [21].
Attraverso questo breve detour testuale, faccio l’ipotesi che Pagliarani, nella sua genialità clinica e teorica, intuisca quello che a posteriori sarà una vera e propria svolta paradigmatica. Il riferimento alla necessità, per ogni scienza, di dimenticare (avendoli incorporati e rielaborati) i padri fondatori, mi conforta in questa ipotesi. In altri termini, possiamo dire che Pagliarani intuisca una direzione di ricerca che oggi noi, attraverso un après-coup, possiamo meglio comprendere e attualizzare, alla luce di quegli apparati concettuali e metodologici, che trovano nel costrutto di “campo” il loro fulcro teorico fondamentale.
Rimane aperta la questione se pensare “oltre” il transfert [22] significhi abbandonare tale vertice (sposando una versione radicale) oppure conservarlo come uno dei possibili sguardi sulla relazione (versione debole).
Sempre nell’ambito del pensiero psicosocioanalitico, A. Burlini e A. Galletti [23] sembrano optare per una versione non radicale (quindi integrativa di più modelli), quando sottolineano come il transfert sia da intendere come uno spazio intermedio, ossia uno spazio di gioco o uno spazio teatrale che colloca la relazione tra il presente e il passato: non mera ripetizione del passato, ma nemmeno pretesa onnipotente e ingenua di svincolarsi da esso.
Per concludere, possiamo dire che l’idea della dimensione estetica della relazione psi-coanalitica, o meglio della relazione tout court, sia centrale nella tradizione psicosocioa-nalitica italiana. Le assonanze con l’idea di “trasformazione estetica” proposta dai post-bioniani sono molte. Il lavoro da compiere oggi consiste nell’approfondire, sul solco tracciato da Pagliarani, “come” avvenga questa trasformazione, introducendo un livello più analitico di spiegazione che ci consenta di elaborare delle tecniche utilizzabili nei diversi ambiti della finestra psicosocioanalitica (nel nostro ambito, soprattutto quelle legate al fare: officina e faber). Si tratta, in altri termini, di provare a colmare il salto tra la scienza e l’arte, tra l’intuizione e la comprensione. Riteniamo che il concetto di campo da questo punto di vista ci possa essere d’aiuto.
4. Il campo analitico. Un modello per la formazione?
La nozione di campo analitico è un tentativo di fornire un quadro di riferimento generale che tenga conto della fittissima trama di comunicazioni inconsce, che si costruisce nell’incontro analitico. In sintesi, per campo si intende ciò che si produce nel gioco reciproco di scambi inconsci tra paziente e analista e che non è più riconducibile né all’uno né all’altro, ma trascende l’uno e l’altro e al tempo stesso retroagisce sui due membri della coppia. Sul piano epistemologico il modello di campo segna i limiti di una conce-zione della relazione come situazione dicotomica, organizzata sulla polarità soggetto/oggetto. In questa sede ci limiteremo ad accennare all’evoluzione storica di tale costrutto e a metterne in evidenza alcune caratteristiche fondamentali, rimandando il lettore alla bibliografia specialistica per un approfondimento storico e teorico.
La nozione di campo fa la sua comparsa ufficiale all’interno del pensiero psicoanalitico [24] all’inizio degli anni ’60, per opera dei coniugi Baranger, che a loro volta la mutuano da K. Lewin, da Merleau-Ponty e da Pichon-Rivière. Il lavoro seminale dei Baranger, La situazione analitica come campo dinamico (1961-62), si inserisce a pieno titolo nel dibattito sul controtransfert [25] che ha coinvolto diversi analisti di matrice kleiniana nel corso degli anni ’50. Particolare attenzione viene data dai Baranger all’idea che nel campo si strutturi una fantasia inconscia di coppia che rappresenta un punto d’urgenza (o emergente), concetto che, come quello di andamento a spirale della seduta, derivano da Pichon-Rivière. È su tale fantasia emergente che deve puntare l’interpretazione. L’altro concetto centrale proposto dai Baranger è quello di bastione con il quale intendono il punto principale di resistenza, frutto a sua volta delle resistenze incrociate di paziente e analista. La specificità della coppia analitica deriva dal fatto l’analista, per la sua posizione asimmetrica, limita e contiene le risposte di contro-identificazione proiettiva. L’interpretazione, ben calibrata e accettata dall’analizzando, produce pertanto una modificazione del campo. Grazie ad essa l’analista cessa di essere il depositario dell’aspetto che l’analizzando aveva posto su di lui e l’analizzando può reintroiettare la parte precedentemente depositata. Attraverso il ritmo di interpretazioni e insight, il campo si ristruttura, secondo un andamento a spirale.
La nozione di campo trova in Italia, a partire dalla metà degli anni ’80, tra gli psicoanalisti di matrice bioniana, un fecondo terreno di ricerca, con molteplici diramazioni interpretative, senza tuttavia che si giunga ad una elaborazione comune e condivisa [26]. Alcuni analisti sottolineano le connessioni con gli sviluppi della fisica contemporanea, altri con la teoria della complessità, altri ancora si mantengono maggiormente ancorati ad una visione clinica e al proprio specifico dominio disciplinare [27]. Tra gli autori italiani che, per primi e in modo autonomo rispetto ai Baranger, hanno colto il potenziale euristico della nozione di campo, va sicuramente ricordato Corrao, che par-tendo da un’elaborazione originale del pensiero di Bion e da un’attenta riflessione epi-stemologica sul modello fisico della teoria quantistica del campo, a metà degli anni ’80 applica la nozione di campo ai fenomeni gruppali, arrivando a postulare una “funzione gamma” del gruppo, effetto di uno spostamento di funzioni di pensiero originariamente individuali (funzione alfa) al gruppo stesso. Questa funzione gamma corrisponde in de-finitiva alla capacità del pensiero di gruppo di metabolizzare gli elementi sensoriali ed emotivi bruti dispersi nel campo analitico (elementi beta). A partire da queste considera-zioni Corrao (1985; 1986), sottolinea il carattere di potenzialità/possibilità del campo, come “un sistema ad infiniti gradi di libertà, forniti dalle infinite determinazioni possibili che esso assume in ogni punto dello spazio ed in ogni istante del tempo”. Se la concezione del campo elettromagnetico fa da sfondo alla visione di Lewin, ereditata poi dai Baranger, la concezione del campo quantistico, è il modello di riferimento per Corrao e la sua scuola. È da ricordare, a questo proposito, l’estensione della nozione di campo all’ambito istituzionale, in particolare applicata alle istituzioni psichiatriche, operata da Correale già nel 1991. Riportiamo in Fig. 1 una rappresentazione sintetica delle influenze che hanno portato alla concettualizzazione attuale del modello di campo.
A testimonianza della fecondità del dibattito sul costrutto di campo tra gli analisti italiani, nella prima metà degli anni ’90 è il Congresso nazionale della SPI che si tiene a Rimini nel 1994, intitolato La risposta dell’analista e le trasformazioni del campo analitico [28]. La formulazione attuale del concetto che ci sembra più proficua e più spendibile anche sul piano della formazione, è frutto del lavoro teorico e clinico di A. Ferro e del gruppo di psicoanalisti post-bioniani dell’Università di Pavia (Civitarese, Collovà, Foresti, Mazzacane ecc.). È a questo modello che farò prevalentemente riferimento nel proseguo del lavoro.
Trasformazioni
In primo luogo, il campo si definisce non tanto come un insieme di oggetti, quanto per le trasformazioni che lo costituiscono. Un campo è descrivibile in base alle sue trasformazioni, fluttuazioni, perturbazioni. Considerare una situazione di incontro attraverso la lente del campo significa quindi concentrare l’attenzione più sui flussi che sui soggetti/oggetti che lo compongono. Ma che trasformazioni avvengono nel campo? In prima battuta potremmo dire che le trasformazioni vanno pensate come delle traduzioni continue della realtà ordinaria, fattuale, ad opera della realtà emozionale [29], nella direzione di una più ricca simbolizzazione.
Il campo è un modo per dare un nome al quell’intreccio pre-comunicativo che rende possibile lo svolgersi dei processi di trasformazione degli elementi protomentali e preverbali in pittogrammi emotivi, ossia in immagini. Per comprendere meglio questo passaggio è necessario fare riferimento al modello della mente elaborato da Ferro e dai suoi allievi, a partire da Bion [30].
Il modello [31] schematizzato in figura 2, mette in evidenza come le trasformazioni si collochino su piani diversi. In primo luogo, grazie alla trasformazione operata dalla funzione alfa, le protoemozioni (elementi Beta), si trasformano in elementi alfa, ossia assumono la forma elementare di pittogrammi emotivi. Gli elementi alfa, a loro volta, per opera del pensiero onirico della veglia che svolge una sorta di operazione di “montaggio”, si strutturano in concatenazioni. Nel campo si manifestano dei “derivati” di tali concatenazioni, in una gamma articolata che va da forme più semplici e con un tempo di decadimento brevissimo (per esempio i flash onirici, ossia quelle immagini fuggevoli che appaiono o scompaiono nell’arco di frazioni di secondo) fino a forme più complesse, associabili a “personaggi”, dotati di consistenza e persistenza che, a prescindere dal fatto di avere una referenza esterna (cioè di indicare una figura effettivamente esistente sul piano di realtà fattuale, il padre reale, il capo, ecc.) segnalano lo “stato” in cui il campo si trova nel qui ed ora. Il campo, in questa prospettiva, si arricchisce progressivamente di un “cast” di personaggi, che nel loro entrare e uscire dalla scena, tracciano delle trame narrative che raccontano l’evoluzione, la regressione o la stasi nel processo di espansione della pensabilità.
Un altro modo per nominare ciò che si produce nel campo è quello di riferirsi alla nozione di “aggregato funzionale”: “L’elaborazione in ‘aggregati funzionali’ coincide con il passaggio da figure piane, colte da un unico vertice, a ologrammi, cioè immagini tridimensionali che prendono corpo nello spazio plurisoggettivo e possono essere viste simultaneamente da prospettive diverse, in quando prodotte da almeno due fonti di luce”. In secondo luogo, i “derivati narrativi” che emergono di volta in volta nel campo, sono suscettibili di un ulteriore livello di elaborazione, descrivibile, attingendo nuovamente al pensiero di Bion, attraverso il movimento oscillatorio [32] di tre parametri fondamentali: contenitore↔contenuto, PS↔D (posizione schizoparanoide, posizione depressiva), CN↔FP (capacità negativa e fatto scelto) [33]. Accenniamo brevemente a questi tre aspetti:
- Contenitore↔contenuto: un pensiero si forma se le protoemozioni vengono contenute e raccolte; se, grazie alla relazione che si costituisce, elementi dispersi e frammentari acquistano un senso e una forma, seppur parziale e temporanea.
- PS↔D: il movimento oscillatorio tra la posizione schizoparanoide e depressiva segnala quanto nel campo prevalga la scissione, la relazione con oggetti parziali, connessi a vissuti di tipo persecutorio, oppure quanto prevalga l’integrazione, la sintesi, l’emergere di punti di condensazione, collegati alla capacità di tollerare la mancanza (l’unità raggiunta è sempre strutturalmente mancante).
- CN↔FP: il movimento tra capacità negativa e fatto scelto, si configura come un’oscillazione tra la permanenza in uno stato di attesa vigile, aperta al possibile, e il momento della decisione e della scelta, nel quale un elemento presente nel campo si stacca dal flusso e assume il ruolo di attrattore delle forze in gioco. Il fallimento delle operazioni di “alfabetizzazione” sopra descritte, può portare alla configurazione di un campo “iperbeta”, cioè di una situazione chiusa, bloccata, stereotipata, affettivamente e cognitivamente povera, nella quale il vettore del cambiamento non in-contra quello dell’apprendimento.
Carattere narrativo e insaturo del campo
La teorizzazione del campo analitico risente dell’influenza della teoria della letteratura e della semiotica [34]. La seduta va vista come un “testo”, come un’opera aperta, nell’accezione che ne ha dato Umberto Eco. L’intervento dell’analista si pone come un contributo insaturo, di co-costruzione di una “verità” non data ma generata nel campo analitico. Ogni “personaggio” che emerge nel campo svolge una specifica funzione. Particolarmente significativi sono i “personaggi boa”, ossia quei personaggi che segnalano pas-saggi evolutivi riusciti e ai quali si può fare riferimento nei momenti di crisi e di regres-sione. Sulla dimensione narrativa del campo riportiamo queste parole di Corrao, il quale centra l’attenzione sulla relazione biunivoca tra emozioni e narrazioni:
“Sciogliere le emozioni in narrazioni” significa operare una trasformazione attraverso cui emozioni e vissuti troppo addensati vengono espressi in parole, scene e narrazioni. La messa in parole cui mi riferisco non coincide con l’interpretazione classica, ma piut-tosto ne rappresenta un precursore o un sostituto. Essa è caratterizzata dal fatto di essere, per alcuni aspetti (spontaneità, immediatezza, vicinanza con la dimensione pre-conscia), simile ad una libera associazione ed è caratterizzata, inoltre, dalla forma narrativa e per immagini. La nozione di “sciogliere le emozioni in narrazioni” può essere indicata anche con “emozione↔narrazione”. Questa notazione (emozione↔narrazione) mette in luce non soltanto la trasformazione che ha come risultato l’espressione delle emozioni, ma anche l’operazione reciproca. Evidenzia, dunque, che la narrazione ha la capacità di fare emergere emozioni sino a quel momento disperse o avvertite soltanto come tensioni. [35]
Va comunque sottolineato che l’interpretazione in senso classico (in particolare l’inter-pretazione del transfert), secondo alcuni analisti che si rifanno al modello di campo, se ben bilanciata, mantiene una funzione essenziale. In altri termini, le dinamiche transferali e controtransferali costituiscono delle coordinate possibili, ma non esclusive, per leggere la situazione analitica.
Temporalità del campo
Un ulteriore aspetto sul quale anche il formatore è chiamato a riflettere è il carattere non lineare della temporalità che si struttura nel campo. Tale aspetto, che può apparire scon-tato per lo psicoanalista, rappresenta invece un’assunzione dirompente per il formatore, abituato a pensare al processo di apprendimento come un percorso che va da un grado minore ad un grado maggiore di conoscenza, secondo un andamento tendenzialmente lineare e progressivo. Ma oltre al tempo cronologico, al tempo sequenziale, il campo è punteggiato dal tempo-evento, dal kairos che apre ad un possibile non (ancora) pensato. Ferro fa presente che nel campo avvengono continui movimenti di après-coup secondo i quali ciò che avviene nel qui ed ora contribuisce a riscrivere “a posteriori”, a retroagire ricorsivamente sul testo che si è costruito precedentemente [36].
5. “Sognare il compito”. Modello di campo e apprendimento operativo
In che modo il modello di campo può aiutare il formatore/consulente psicosocioanalista a svolgere il suo compito? In che modo la visione “neo-bioniana” di campo modifica lo stare in aula del formatore e il suo lavoro di facilitatore del processo di apprendimento? Come si è avuto modo di sottolineare in altra sede, la concezione operativa di gruppo costituisce un punto di approdo e un riferimento teorico e tecnico fondamentale per gli psicosocioanalisti italiani che si occupano di apprendimento e cambiamento [37].
La domanda allora può essere così formulata: che connessioni e intrecci si possono in-travedere tra la concezione operativa e il modello attuale del campo analitico? Una prima considerazione, di carattere storico, riguarda il fatto che queste due correnti interne alla movimento psicoanalitico condividono un’origine comune. I Baranger, oltre che a Lewin e a Merleau-Ponty, nel formulare il concetto di campo bipersonale sono debitori nei confronti di Pichon-Riviére, sia per quanto riguarda l’andamento a spirale della seduta, sia per l’importanza di lavorare intorno al “punto d’urgenza”, cioè a quella configurazione emergente del campo “più vivida di altre” [38].
Possiamo pertanto dire che – almeno nella sua formulazione originaria – la nozione di “punto d’urgenza”, o emergente costituisce una sorta di seme comune che, collocato in terreni di coltura diversi, ha dato origine a sviluppi non direttamente collegati ma potenzialmente compatibili e ibridabili. Si tratta dunque di riannodare due percorsi, di riconnettere due storie, che condi-vidono un’origine comune.
Riteniamo che la psicoanalisi post-bioniana contemporanea possa dare oggi al formatore orientato dalla concezione “operativa”: 1) un arricchimento del suo quadro teorico, 2) una strumentazione tecnica più raffinata e precisa per lavorare su ciò che emerge (emer-gente) dall’interazione dinamica tra coordinazione-gruppo-compito.
Lo spettro dell’onirico
In primo luogo, i post-bioniani articolano e differenziano diverse formazioni emergenti, a seconda del grado più o meno sviluppato di simbolizzazione e di trasformazione. Prendendo spunto dall’immagine dello spettro elettromagnetico, che in fisica colloca le possibili frequenze delle radiazioni elettromagnetiche su un continuum che va dall’ultravioletto all’infrarosso, essi introducono il concetto spettro dell’onirico per indicare la gamma dei fenomeni “emergenti” nel campo, dalle formazioni più vicine al sostrato corporeo (protomentale, precategoriale, sincretico) a quelle più simbolicamente elaborate e trasformate dalla cultura e dal processo di astrazione.
Analogamente allo spettro elettromagnetico, dove la banda del visibile che è percepibile all’occhio umano rappresenta solo una parte dell’intero spettro, così anche nello spettro dell’onirico, la parte che può essere pensata dalla mente individuale e gruppale è solo una frazione del tutto. Rimangono ai suoi estremi delle aree potenziali, di espansione possibile, in funzione del livello di evoluzione che ha raggiunto l’apparato per pensare. Possiamo immaginare che la situazione triangolare formatore-gruppo-compito sia immersa in una “nuvola” di possibilità inesplorate, di pensieri senza pensatore, il che rimanda ad un’area ignota, disorientante, ambigua ma carica di potenzialità. In altre parole, vi sono sempre nel qui ed ora della situazione formativa delle riserve di possibilità non pensate che se intercettate, “agganciate”, possono contribuire a rompere il cerchio delle coazioni a ripetere e delle stereotipie. Ovviamente non tutte le trasformazioni si realiz-zano. Rimangono trasformazioni non realizzate, pensieri non pensati. Lavorare ispiran-dosi ad un modello di campo vuol dire, per il formatore, accettare di muoversi in un’area potenzialmente aperta, multidimensionale, che dischiude infiniti mondi possibili; un’area che impone alla sua mente un’oscillazione continua tra Capacità Negativa e Fatto Scelto [39].
Il riferimento allo spettro dell’onirico consente inoltre di raffinare la capacità di cogliere in maniera puntuale le micro-trasformazioni che attraversano il campo. È pertanto possibile distinguere diversi fenomeni emergenti, sulla base della loro vicinanza-distanza dalla dimensione protomentale-sensoriale:
- Le rêveries corporee ossia azioni, prive di un’immediata qualità rappresentazionale o percettiva, che si esprimono come un movimento involontario del corpo, che giungono senza preavviso, “come un ospite inatteso la cui visita non manca mai di sorprenderci” [40]. Riguarda il livello corporeo, le tensioni, le impazienze, le effrazioni del setting interno ed esterno (ciò che nel pensiero blegeriano costituisce il manifestarsi dello strato sincretico), i movimenti, gli spostamenti, i rumori del corpo, i cambi di luce o di temperatura.
- Le trasformazioni in allucinosi [41], sono situazioni nelle quali “si è imprigionati in un effetto di realtà”, di eccessiva concretezza, di appiattimento su un piano bidimensionale, in cui si dà per scontato ciò che accade e le parole sono usate come cose e non più come simboli. Una quota di allucinosi (ossia di proiezione sul reale di ciò che già sappiamo) è inevitabile per riconoscere e dare continuità all’esperienza. All’interno del campo, si può cogliere – seguendo Civitarese – una trasformazione in allucinosi nelle situazioni in cui si verifica un fraintendimento frutto di una per-cezione o una credenza poi smentita dai fatti; per esempio, l’essere convinti – erroneamente – che in un’aula sono presenti due partecipanti in relazione gerarchica di capo-collaboratore può essere letta come un semplice errore, oppure come una trasformazione in allucinosi, ossia come una “percezione” esatta che ci dice qualche cosa riguardo allo stato del campo e alle sue dinamiche inconsce.
- Il flash onirico, come immagine-lampo, singolo fotogramma, che affiora nella mente al di fuori di un atto intenzionale.
- La rêverie, come sogno ad occhi aperti, che, a differenza del flash onirico che si manifesta in modo puntuale e contratto, si articola in una sceneggiatura, prevede un’ambientazione e dei personaggi. Anche la rêverie visita la mente del formatore, che si predispone ad accoglierla ponendosi in una postura ricettiva e vigile (capacità negativa). Per esempio, può essere il ricordo che sorge spontaneamente nella mente di un episodio vissuto con un altro gruppo, magari associato alla scena di un film visto di recente.
- La trasformazione in sogno, introdotta da A. Ferro, presuppone di considerare quello che un partecipante sta raccontando “filtrandolo” [42] come se si trattasse del racconto di un sogno. Tale indicazione tecnica ha la funzione di facilitare una lettura di quello che il partecipante sta raccontando non sul piano di realtà, ma in quanto riferito a ciò che sta succedendo nel qui ed ora del campo analitico. Per esempio, il racconto di un capo poco propenso ad ascoltare potrebbe segnalare uno stato del campo ca-ratterizzato dal non ascolto; il che dovrebbe interrogare il formatore, che, stante la asimmetria delle responsabilità nei confronti del gruppo, può ripensare a come mo-dulare i suoi interventi, tenendo conto di questo elemento emergente.
- Sogno. Può accadere che un partecipante racconti un sogno: ciò, nella mia esperienza, accade soprattutto nelle situazioni formative residenziali, dove la notte fa da ponte tra la prima e la seconda giornata di lavoro. Nella concezione operativa, il sogno, in quanto raccontato nel qui ed ora del gruppo, diventa un sogno del gruppo. Il narratore svolge il ruolo di porta-sogno che intercetta un aspetto della configura-zione che il campo ha assunto rispetto al compito. Per esempio, in un gruppo di giovani manager identificati dall’azienda come talenti, un partecipante racconta il suo sogno, ricorrente, di trovarsi in filiale e di gestire situazioni complesse sentendo di poter intervenire “attivamente” nel sogno, di poter “guidare” il sogno, cosa che non sente possibile nella realtà. Su un piano di realtà, ciò potrebbe segnalare una difficoltà per del manager ad autorizzarsi – vista la giovane età – a svolgere un’azione di guida e di leadership in filiale. Alla luce del modello di campo, invece, il sogno potrebbe segnalare che il campo stesso, quindi la coordinazione e i partecipanti, siano implicati in una dinamica di controllo (eccessivo?) della loro capacità onirica e trasformativa.
- Metafora. Nella retorica classica, la metafora è classificata come un tropo, ossia una “figura di sostituzione” fondata su una relazione di somiglianza (“mi sento su una zattera” dice un partecipante ad un gruppo operativo il cui compito è riflettere sulle competenze necessarie per affrontare il cambiamento imprevedibile). È frequente che in un gruppo d’apprendimento emergano spontaneamente delle immagini che assumono progressivamente la funzione di condensare una molteplicità di significati riferibili allo stato in cui si trova il campo, che si stratificano col progredire del pro-cesso del gruppo [43]. L’uso della metafora per espandere e arricchire di nuovi nessi associativi il tema che si sta affrontando, è una tecnica consolidata in ambito formativo. Bisogna tuttavia distinguere tra il caso in cui la metafora è per così dire “indotta” dal formatore, dal caso in cui essa sorge in maniera spontanea e tangenziale, come vero e proprio “personaggio” o “aggregato funzionale” del campo. In altre parole, il formatore può proporre una tecnica specifica, per esempio il foto-stimolo (che consiste nel mettere a disposizione del gruppo delle fotografie che i partecipanti selezionano in base alla loro emozione e al potere evocativo che esse suscitano) o l’uso di spezzoni cinematografici, per facilitare il lavoro di trasformazione in immagini delle emozioni che il gruppo vive in relazione al compito di apprendimento. Ciò risponde anche all’esigenza di catalizzare il processo all’interno di vincoli temporali più stringenti rispetto a quanto avviene in un percorso analitico o di psicoterapia. È importante tuttavia, come sottolineeremo nel prossimo paragrafo, non saturare eccessivamente il campo con icone pre-scritte e già pensate dal formatore (potremmo dire che il formatore ha già sognato); ciò potrebbe segnalare un eccesso di difesa nei confronti dell’ignoto e trasformare la metafora, con tutto il suo potenziale generativo ed espansivo, in una “catacresi”, una metafora morta, a cui il formatore si aggrappa per contenere l’ansia dell’apprendere dall’esperienza.
I fenomeni che abbiamo cercato di descrivere, partendo dall’idea di spettro dell’onirico, forniscono quindi al formatore psicosocioanalista una lente di ingrandimento per lavorare in maniera più fine e precisa sull’emergente. La regola d’oro dell’approccio operativo che consiste, come ci ricorda Bleger, nel lavorare sull’emergente, si può declinare in una gamma di sfumature più ricca e articolata. Cogliere i microfenomeni che avvengono nel campo, riportarli al qui ed ora del gruppo e della relazione gruppo-coordinazione-compito, apre continuamente a nuove domande che ci riguardano. Riguardano cioè la relazione triangolare che si va via via costruendo e che – in una logica di campo – non è solo riferibile alla ripetizione di schemi che riguardano il lato del triangolo che collega il vertice compito con il vertice gruppo. I tre vertici sono sempre co-implicati nel processo trasformativo (onirico) che si va dipanando. Il formatore ha certamente – come lo psicoanalista – una responsabilità maggiore e uno sguardo più allenato per cogliere e rielaborare quanto sta accadendo; in questo senso permane certamente un’asimmetria nei ruoli, ma, accogliendo l’ottica di campo, la domanda guida a cui deve costantemente appellarsi è “in che modo quello che sta accadendo ci riguarda?”. L’emergente, in un’ottica di campo, è un segnale che indica sempre qualche cosa anche su come il formatore sta interagendo con il proprio compito, con il gruppo e con il compito del gruppo.
Modificare le stereotipie del campo (l’originario) che bloccano la genesi creativa (l’originale) significa in quest’ottica disporsi ad accogliere l’emergente, nelle sue diverse micro o macro manifestazioni, nel tentativo di dare una forma e un tempo - quindi di sviluppare una narrazione - a quel livello protomentale, indifferenziato, ambiguo che è necessario attraversare per svolgere, attraverso una metem-psicosi [44] (rottura e ricomposi-zione delle forme), un effettivo processo di apprendimento-cambiamento.
Saturo-insaturo
Se nell’attività terapeutica, gruppale o individuale, il setting in qualche modo impone di mantenere una dimensione insatura e aperta ai possibili, nella formazione, sia per i vincoli legati al tempo (peraltro sempre più ristretto), sia per la focalizzazione su un tema specifico (si pensi a un percorso sulla leadership, o sul lavorare in gruppo), sia per la pressione “performativa” operata dalla committenza, è certamente più complicato assumere una posizione “negativa”, di effettiva attesa e ascolto. Del resto, anche a prescindere da un modello di campo, l’atteggiamento super-egoico è – come scriveva Pagliarani – la minaccia principale a cui è soggetto il formatore che spesso, in ragione di tale spinta, finisce per compromettere la possibilità di costruire un giusto ritmo relazionale – una danza – con i propri formandi.
Tradotto nel linguaggio del campo, ciò significa che il parametro a cui il formatore deve prestare la massima attenzione è quello relativo alla polarità saturo-insaturo.
Del resto il formatore, a differenza dello psicoterapeuta (almeno nel setting classico), può maneggiare una serie di tecniche e strumenti che possono incidere in modo più o meno diretto sul livello di saturazione del campo.
Per esempio, la proposta di spezzoni cinematografici, per “scaldare” il gruppo intorno ad un tema, piuttosto che il ricorso ad oggetti artistici (la proiezione di quadri o di fotografie), o ancora di brani narrativi o poetici, sono tutte modalità che in qualche modo intro-ducono nel campo un profluvio di stimoli che possono certamente aiutare nella trasfor-mazione di emozioni in pensieri e in nuovi apprendimenti, ma che, al contempo, possono produrre un effetto di “troppo pieno”, un’ipersaturazione che non lascia spazio e tempo ad una elaborazione generativa e originale.
Se l’eccesso di stimolazione può portare ad un campo iperbeta, dove il protomentale rimane indigerito, all’opposto si può ipotizzare una situazione in cui il formatore, perdendo di vista il compito, ossia il vertice privilegiato da “abitare” nel corso del processo, apra troppo il contenitore, lo renda eccessivamente insaturo e pertanto dispersivo e inadeguato ai contenuti emergenti. D’altro canto, il formatore – nella sua funzione di co-pensatore – ha anche il compito di proporre al gruppo dei punti di condensazione, degli elementi di raccordo, delle restituzioni di senso, delle tessiture narrative che inquadrino l’emergente all’interno dei confini del compito. Questo aspetto – il richiamo al compito come vertice – rimane uno dei portati più significativo ed utili dell’approccio operativo.
Ospitare l’inconscio: livelli di strutturazione dei setting formativi
La tecnica del gruppo operativo si fonda sull’idea di lavorare intorno a un compito – manifesto e latente. A seconda delle specifiche situazioni di utilizzo (didattiche, di supervisione, sviluppo organizzativo, formazione), si può prevedere un’articolazione dell’attività gruppale in due momenti distinti: il primo di natura “informativa”, che ha la funzione di innescare il processo in relazione al compito., il secondo di natura rielabora-tiva, che costituisce l’assetto “operativo” vero e proprio. È durante questa seconda fase, che si sviluppa il processo a spirale (pre-compito, compito, progetto) e, attraverso il la-voro sugli emergenti, l’espansione del pensiero/sogno intorno al compito.
Altri approcci metodologici [45] che si propongono di esplorare – in un contesto formativo – “l’inconscio dinamico non rimosso” (Bion), prevedono una suddivisione delle fasi di lavoro secondo una griglia più strutturata e definita. In particolare, esse si fondano sulla prassi – del resto consolidata nel mondo della formazione – di utilizzare diverse tecniche espressive come innesco dei processi di espansione della pensabilità:
- il Social Dreaming,
- l’uso del disegno per rappresentare il proprio vissuto di ruolo (Organisational Role Analysis)
- il Social Photo Matrix
- il Social Dream-Drawing
Tali tecniche hanno il senso di offrire ai partecipanti la possibilità di dare una forma, attraverso la creazione di un “oggetto terzo”, ai vissuti, alle emozioni e ai conflitti speri-mentati nel contesto organizzativo. L’aspetto metodologicamente più significativo è, secondo noi, l’idea di distinguere rigorosamente diverse fasi del lavoro formativo, mante-nendo chiari i confini e i compiti di ciascuna di esse. La prima fase, eventualmente anti-cipata da un prework, riguarda la realizzazione o la fruizione dell’artefatto espressivo (per esempio, nel caso del Social Photo Matrix, si proiettano delle foto fatte dai parteci-panti all’interno della loro organizzazione, per documentare un tema particolare); nella seconda fase, definita matrix (matrice), il gruppo procede per “libere associazioni” e per amplificazione del pensiero; nella terza , il compito si sposta su una dimensione riflessiva: il gruppo è invitato ad elaborare dei pensieri sul tema oggetto del seminario, a partire dalle suggestioni emerse nella fase precedente. Il fatto di suddividere il percorso formativo in fasi distinte ha il vantaggio, soprattutto per gruppi aziendali poco abituati a esplorare le dinamiche inconsce, di fornire un contenitore formativo sufficientemente rassicurante; fermo restante il fatto che è la capacità del formatore di trovare un giusto equilibrio tra una sua posizione attiva, di stimolo e raccordo, e una passiva, di rêverie e contenimento, in relazione alle caratteristiche specifiche di quel gruppo, a fare la differenza.
In conclusione, possiamo dire che, sul piano tecnico, al di là del differente livello di strutturazione e destrutturazione, la competenza del formatore di mantenere un assetto mentale capace di ospitare le diverse configurazioni emergenti e di percepire il livello di saturazione o de-saturazione del campo, si rivela un aspetto centrale per la conduzione di un percorso formativo orientato a “prendere sul serio” l’idea dell’inconscio come fun-zione produttiva e trasformativa. L’ibridazione, o forse sarebbe meglio dire il re-incontro, tra la concezione operativa di gruppo e il modello contemporaneo di campo, ci porta inoltre a sottolineare come il la-voro di formazione consista, per usare una formula sintetica, essenzialmente nell’aiutare il gruppo a “sognare” il compito, non solo attraverso la segnalazione e l’interpretazione delle stereotipie e degli irrigidimenti dell’ECRO, ma anche mediante un lavoro “micro-metrico” che ha come oggetto quelle perturbazioni che attraversano il campo e che, come dei bagliori notturni, gettano luce e scompaiono senza lasciare nessuna traccia apparente.
Note:
1. Vedi Civitarese G., “L’intermedietà come paradigma epistemologico in psicoanalisi” in Educazione Sentimentale, n. 17, 2012. Una connessione che andrebbe esplorata è quella con la nozione heideggeriana di Zwischen, “frammezzo” (M. Heidegger (1959), In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1973-1988, p. 37).
2. Scrive Kaës: “E. Pichon-Riviére ha distinto nel legame due campi psicologici: un campo interno che definisce una relazione d’oggetto, e un campo esterno che definisce un legame con un oggetto esterno. La relazione d’oggetto è “la forma particolare che prende l’Io nel legarsi ad un oggetto localizzato in lui…”. Essa è costituita da una struttura dinamica, in continuo movimento, mossa da fattori istintuali che funzionano in modo determinato. Mentre il punto di vista psicosociale riguarda il legame esterno, ciò che interessa la psicoanalisi è la struttura interna del legame, cioè la relazione d’oggetto.” (Kaës R., Le teorie psicoanalitiche del gruppo, Borla, Roma, 1999, p. 97). Poi aggiunge: “ciò che differenzia il legame dalla relazione d’oggetto è che nel legame abbiamo a che fare con l’altro. Questi “altri” non sono soltanto delle figurazioni o dei rappresentanti delle pulsioni, degli oggetti parziali, delle rappresentazioni di cosa o di parola del soggetto stesso; essi sono anche degli altri, irriducibili a ciò che essi rappresentano per un altro” (ibid. p. 99).
3. Sulla centralità della nozione di differenza come ampliamento della contraddizione dialettica mi sembrano illuminati queste parole di M. Perniola: “Il sentire del Novecento invece si è mosso in una direzione opposta alla conciliazione estetica, verso l’esperienza di un conflitto più grande della contraddizione dialettica, verso l’esplorazione dell’opposizione tra termini che non sono simmetricamente polari l’uno rispetto all’altro. Tutta questa grande vicenda fi-losofica, che non esito a considerare come la più originale e importante del Novecento, sta sotto la nozione di differenza, intesa come non-identità, come una dissomiglianza più grande del concetto logico di diversità e di quello dialettico di distinzione. In altri termini, l’ingresso nell’esperienza della differenza segna l’abbandono sia della logica dell’identità aristotelica, sia della dialettica hegeliana” M. Perniola, Estetica contemporanea, Il Mulino, 2011, p. 158. Illuminante anche il saggio di F. Carmagnola, L’irriconoscibile. Le immagini alla fine della rappresentazione, et al./Edizioni, Milano, 2011.
L’autore, commentando un saggio di Foucault su Magritte e riferendosi al pensiero di G. Deleuze, mette in evidenza come per questi autori la nozione di “simulacro” rompa con la logica dialettica, in quanto il simulacro - a differenza della rappresentazione - non si fonda su un modello ordinatore, su una tensione verso una sintesi. Il simulacro quindi rimanda a un processo non dialettico che presenta i tratti dello slittamento, dello spostamento e della ripetizione. (Ibid. pp. 25-31).
4. Per quanto riguarda la psicoanalisi G. Foresti sottolinea come fra i fenomeni culturali esterni alla comunità analitica che hanno contribuito, a partire dalla fine degli anni ’70 a determinare un vero e proprio mutamento di paradigma va ricordato il “progressivo venir meno dello spartiacque politico e ideologico che per decenni aveva reso la cultura filosofica dei paesi anglo-sassoni sostanzialmente diversa da quella dell’Europa continentale e del Sud America. Il theoretical divide che separava le tradizioni in cui prevaleva la filosofia detta “analitica” da quelle in cui erano egemoni i modelli di pensiero definiti “continentali”, ha segnato la riflessione epistemologica di buona parte del XX secolo e si è risolta con un rovesciamento teorico che ha prodotto un cross-over culturale di dimensioni epocali”, (A. Ferro, a cura di, Psicoanalisi oggi, Carocci, Roma, 2013, p. 143). Per quanto riguarda i cambiamenti interni al mondo psi-coanalitico, Foresti ricorda l’apporto innovativo fondamentale di alcune figure chiave succe-dutesi alla Presidenza dell’IPA (Wallerstein, Sandler, Etchegoyen, Kernberg ecc.); con l’inizio degli anni Ottanta, “la situazione di conflittualità interna al movimento psicoanalitico si ridusse gradualmente e si avviarono processi di confronto e di scambio che finirono per pro-durre la stagione di pluralismo teorico e di ripensamento tecnico in cui operiamo ancor’oggi”, (ibid., p. 144).
5. Carmagnola F., “Formazione: per quale valore?”, in Boldizzoni D., Nacamulli R. C. D., a cura di, Oltre l’aula, Apogeo, 2004, p. 256.
6. “La possibilità di una dinamica formativa non univocamente aderente alla catena del valore risiedono però proprio nell’ambiguità della stessa situazione socio-organizzativa: l’attenzione alle singolarità, la concezione prossimale che vede l’organizzazione non solo come macchina produttiva e finalizzata all’efficienza ma anche come il risultato di processi relazionali, e strategie di gioco tricky con le forme istituzionali e il riconoscimento delle comunità di pratiche formano un quadro coerente di prospettive. Nel loro complesso esse affermano la possibilità di tener in vita il piano alto della formazione in ambienti lavorativi come settore rilevante dell’educazione, dell’essere umano adulto (Demetrio, 1997) e non come semplice strumento al servizio dei processi di valorizzazione.” ( Ibid., p. 264).
7. Si veda L’educazione sentimentale, n 11, Luglio, 2008. Numero monografico dedicato a “puercultura e formazione”.
8. Ibid., p. 80.
9. Per una disamina della concezione operativa di gruppo e per il suo utilizzo in contesti formativi si rimanda a Pollina G. C., Magatti P., a cura di, Gruppo di lavoro, gruppo operativo, Guerini, Milano, 2013.
10. Resta aperta la questione, dibattuta anche nell’ambito di coloro che si rifanno al modello di “campo”, se la trasformazione in corso si debba considerare nuovo paradigma, nel senso di Kuhn, quindi inconciliabile con il precedente (Civitarese), oppure se sia possibile integrare le diverse prospettive e utilizzarle a seconda delle contingenze cliniche specifiche.
11. Ferro A., a cura di, Psicoanalisi oggi, cit. p. 20. Corsivo nostro.
12. Ibid. p. 39.
13. De Masi F., “L’inconscio nella psicoanalisi contemporanea” in L’inconscio: prospettive attuali, Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti, 2000, p. 94.
14. “Bion ha avuto la capacità di operare un salto, una discontinuità, passando da una psicoa-nalisi dei contenuti a una delle funzioni mentali, da una simbologia bloccata (campanile = pene) a una astratta, in quanto svuotata di impressioni sensoriali (alfa, beta, “O”), capace di infinite potenzialità di senso, che influenzerà profondamente il modo di ascoltare e di inter-venire dell’analista e dunque il setting nel suo complesso, sia pure con una forte prevalenza per il cosidetto setting interno”, Psicoanalisi oggi, cit. p. 37.
15. Si veda il lavoro seminale di Greenberg J.R., Mitchell S.A., Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica, il Mulino, Bologna, 1986
16. Stolorow R.D., Atwood G.E., I contesti dell’essere. Le basi intersoggettive della vita psichica, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
17. Psicoanalisi oggi, cit., p. 313.
18. Pagliarani L., Il coraggio di Venere, Raffaello Cortina, Milano, 2003 (ed. 2), pp. 319-354.
19. Pagliarani L., Il coraggio di Venere, cit., pp. 339-340. È interessante notare come Pagliarani si riferisca, nel suo procedere associativo a due (Marx e Freud) dei tre “maestri del sospetto”, così come li definisce Ricoeur. Nietzsche rimane invece fuori dal suo orizzonte teorico, così come le linee di pensiero che a diverso titolo da lui si dipanano (pensiamo ad esempio al post-strutturalismo). In un certo senso, volendo leggere sintomalmente tale assenza, potremmo dire che Nietzsche non può essere “scordato”, ma proprio per questo continua ad agire come limite non pensato nel pensiero di Pagliarani.
20. Ibid. p. 340
21. Ibid. p. 353. Do I dare Disturbe the Universe? A memorial to Wilfred Bion, a cura di James S. Grotstein, Caesura Press, 1981.
22. Pagliarani insiste su questo tema anche in altri luoghi de Il coraggio di Venere. A p. 229, per esempio, invita a “sganciarsi dalle stigmate del transfert”.
23. Burlini A., Galletti A., Psicoterapia “attuale”, Franco angeli, Milano, 1990, pp. 36-37.
24. Meriterebbe un approfondimento anche la posizione di J. Lacan, “Funzione e Campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi”, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974, vol. 1
25. Nei primi paragrafi del saggio vengono citati Racker e P. Heimann.
26. Si veda Rugi G., Riflessioni sul modello psicoanalitico di campo, in http://www.psycho-media.it/neuro-amp/98-99-sem/rugi.htm; Neri C., “La nozione di campo in psicoanalisi”, in Ferro A., Basile R., a cura di, Il campo analitico. Un concetto clinico, Borla, Roma, 2011.
27. Gaburri E., a cura di, Emozione e interpretazione. Psicoanalisi del campo emotivo, Bollati e Boringhieri, 1997.
28. Nei paesi anglosassoni il modello di campo arriva successivamente. Solo nel 2008 L’ International Journal of Psycho-analysis, n. 89, ha raccolto in un unico volume più contributi sull’argomento e ha pubblicato la traduzione del seminale articolo dei Baranger.
29. Come ricorda Grotstein, Bion utilizza due metafore principali per concepire le trasforma-zioni: quella del canale alimentare e della sinapsi neuronale (Grotstein J. S., 2007, Un raggio di intensa oscurità, Raffaello Cortina, Milano, 2010, p. 235).
30. Possiamo accennare al fatto che Bion in Trasformazioni (1965), distingue tre tipi di trasfor-mazioni che caratterizzano il processo analitico. Per trasformazione si intende un cambia-mento di forma – e ciò ha un evidente connessione con il tema della formazione – che si differenzia in diversi tipi per il grado di elementi invarianti che permangono nella forma con-clusiva rispetto alla forma originale. Quindi, per cogliere il senso della trasformazione, va interrogata la relazione trasformazione/invarianza. L’invarianza permette il riconoscimento del medesimo. Bion chiama “O” il punto originario (non attingibile dalle nostre facoltà, il noumeno, la cosa in sé, realtà ultima inconoscibile), una sorta di punto cieco non attingibile attorno al quale gravitano i cicli di trasformazione. Esso rappresenta anche un punto di condensazione di possibilità non ancora attualizzate, un’area di virtualità. Bion utilizza la nota-zione Tα per indicare il processo trasformativo e Tβ per indicare il risultato della trasforma-zione. Come si è detto, si possono pensare diversi processi di trasformazione (diversi “stili pittorici” e la metafora estetica non è casuale). Bion, utilizzando la metafora geometrica, di-stingue 1) le trasformazioni a moto rigido (colloca qui i fenomeni di transfert). Implicano scarsa deformazione e mantengono un maggiore livello di invarianza (tendenza a ripetere nell’agito anziché ricordare); 2) le trasformazioni proiettive (associabili a fenomeni di identificazione proiettiva); 3) le trasformazioni in allucinosi (conseguenza di una “catastrofe” primaria, di un’inadeguatezza della funzione alfa e una grave insufficienza dell’apparato per pensare). Civitarese (2014) individua diversi significati delle trasformazioni in allucinosi; esse costituiscono, in una logica “campista”, anche una prima forma dello spettro dell’onirico in seduta. Un’ulteriore distinzione è quelle tra trasformazioni di O in K, che segnalano un mo-vimento di comprensione, sempre parziale, che si svolge quindi entro il dominio della cono-scenza (K, -K) e una trasformazione da K a O, che indica un tragitto trasformativo, che non riguarda tanto il conoscere (elaborazione e integrazione di modelli ecc., la conoscenza semantica), quanto l’essere, il divenire se stessi, il “trasformare O impersonale in O personale” (Gro-tstein), lo scoprire/costruire la propria originalità. Va comunque osservato che per Bion le trasformazioni K→O, se avvengono in un “ambiente -K”, hanno un carattere di catastrofe reale. Ciò sembra indicare un’allerta rispetto alla pretesa di diventare O senza passare dalla mediazione simbolica e concettuale.
31.Si vedano di A. Ferro, Evitare le emozioni, vivere le emozioni, Raffaello Cortina, Milano, 2007 e La psicoanalisi come letteratura e terapia, Raffaello Cortina, Milano, 1999.
32. Sull’oscillazione come modello epistemologico alternativo alle concezioni lineari vedi A. Ferro nella sua introduzione a Grotstein J. S., Un raggio di intensa oscurità, cit., p. XIV.
33. A Ferro, a cura di, Psicoanalisi oggi, cit. , p. 345.
34. Su tale tema si veda Arrigoni M. P., Barbieri G. L:, Narrazione e psicoanalisi. Un approccio semiologico, Raffaello Cortina, Milano, 1998.
35. Corrao F., Modelli psicoanalitici: mito, passione, memoria, Laterza, Roma-Bari, 1992; Si veda anche Neri C., Gruppo, Borla, Roma, 2004.
36. La nozione di posteriorità (après-coup, nachtraeglichkeit) è utilizzata dai Baranger nel saggio del 1961-62. Fin dalle prime teorizzazioni sul campo c’è quindi un’esplicita connessione con la nozione freudiana di nachtraeglichkeit. G. Civitarese in L’intima stanza. Teoria e tecnica del campo analitico, Borla, Roma, 2008, pp. 120-139, rilegge il costrutto freudiano di nachtraeglichkeit attraverso la lente del decostruzionismo di Derrida. Nel campo, secondo Ferro, si attivano continui fenomeni di “micro après-coup”.
37. Pollina G., Magatti, P., Gruppo di lavoro, gruppo operativo, cit.; Magatti P. “Gruppo operativo” in Quaglino G. P., Formazione. I metodi, Raffaello Cortina, Milano, 2014, pp. 505-530.
38. “D’altra parte, fra le numerose situazioni storiche, attuali, transferali dell’analizzando, che intervengono nella configurazione del campo, una è più vivida di altre, e non a caso, bensì per effetto della sequenza doppia e mista dei vissuti analitici e di quelli esterni. Questa è la situazione più urgente e dunque quella che deve essere interpretata se si vuole produrre una trasformazione effettiva del campo: la si definisce “punto d’urgenza” (Pichon-Rivière, 1956-1958)”. (Baranger W., Baranger M. (1961-62), La situazione analitica come campo bipersonale, Raffaello Cortina, 2011, p. 36).
39. Sulla capacità negativa e la disposizione mentale del formatore si veda in questo volume il contributo di G. Varchetta.
40. Civitarese G., I sensi e l’inconscio, Borla, Roma, 2014, p. 65.
41. Ibid., p. 66.
42. Ferro A., Le viscere della mente. Sillabario emotivo e narrazioni, Raffaello Cortina, Milano, 2014, pp. 21-25.
43. Si veda Pollina G., Magatti P., Gruppo di lavoro, Gruppo Operativo, cit., p. 180.
44. Vedi Pagliarani L. (1983), “Metempsicotico il gruppo?” in L’educazione sentimentale, 2008, n. 11.
45. Si veda in particolare, nell’ambito dei modelli derivati dalla tradizione Tavistock, Mersky, R. R., “Contemporary methodologies to surface and Act on Unconscious Dynamics in Organsations: an Exploration of Design, Facilitation Capacities, Consultant Paradigm and Ultimate Value”, Organisational & Social Dynamics, 12(1), pp. 19-43, 2012.
(2015)