Lorenzo Sartini
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Generazione rabbia

11/3/2014

 
Immagine
di Maurizio Maggiani
Fonte: http://www.ilsecoloxix.it/
19.12.2010

Ho manifestato i miei sdegni e i miei aneliti per le strade d’Italia dal 1968 al 1977. Ho smesso di farlo a Bologna, una bella mattina di fine estate quando, arrivato in ritardo al corteo delle “mitiche” giornate contro la repressione, lo lasciai sfilare da cima a fondo senza trovare dove inserirmi, senza riconoscermi in nessuno dei gruppi, delle facce, degli slogan, degli abbigliamenti. Ero diventato troppo vecchio per quella roba, o troppo prudente, o troppo saggio, o troppo codardo; non so, ma ero davvero e definitivamente da un’altra parte.

Un quarto di secolo dopo mi sono trovato a Genova, residente della Zona Rossa con cartellino, inutile, di giornalista accreditato appeso al collo. Ho assistito a tutte le manifestazioni a cui mi è stato possibile, cercando di vedere e capire, e ho partecipato a quella del sabato, la grande manifestazione pacifica finita nei grandi pestaggi; ho salvato dalle manganellate due signore che portavano una maglietta con su scritto “un unico Padre, cinque miliardi di fratelli”, e sono io stesso stato salvato da una giovane famiglia che mi ha aperto la porta di casa.

Tornando al Secolo XIX, quella sera vidi all’Acquasola giovani togliersi le loro tute nere e rimettersi a modino sotto lo sguardo spensierato di un gruppo di poliziotti. Quella notte i “fatti” della Diaz, ed ebbi la certezza che il movimento pacifista internazionale era stato distrutto, intenzionalmente annientato. A parte l’affermazione di un principio di imperio – «l’abbiamo fatta finita con quei rompicoglioni!» fu l’articolata analisi che ascoltai dalla bocca di un alto dirigente del governo di allora – a parte la quasi fantascientifica supposizione che si volesse limitare con salda brutalità i limiti spaziali e di principio della partecipazione democratica, ancora oggi mi sfugge la lungimiranza di quell’opera demolitoria.
Sono passati dieci anni e assisto, non più di persona ma attraverso i canali di informazione internazionali ufficiali e no, ad altre manifestazioni; ad Atene, a Parigi, a Londra, a Roma. Forse dovrei essere lì, e vedere e toccare con mano per capire davvero, ma se posso azzardare un giudizio su una realtà che percepisco solo virtualmente, allora mi sento di dire che quello che i giovani manifestanti, i loro volti e le loro azioni, le loro parole, io non le conosco, e men che meno le riconosco. Sideralmente lontani da quell’ultima mia manifestazione di Bologna e da quel sabato di Genova.

Giovani, e ancor più che giovani, ragazzi. Non sono marziani, sono i miei figli, sono la nuova generazione. Non parlano lingue sconosciute, ma la mia. Non chiedono cose a me ignote, ma cose che posso comprendere bene. Solo che dicono e fanno ogni cosa in modo diverso, nuovo. E la novità, la grande novità, è la rabbia. Non che io non conoscessi questo sentimento, ma la loro e una rabbia, un profondo, interiore, assoluto scontento, e un’energia nel manifestarlo, una forza che io non ho avuto, né visto, da ragazzo, giovane uomo, adulto. E con quella loro rabbia, che gli vedi insorgente come un geyser, intrattenibile nelle parole, hanno cominciato a rompere, a spaccare.

Vedendo i filmati dalle stupefatte capitali d’Europa, non è così difficile riconoscere i professionisti, quelli che lavorano con metodo a sfasciare e picchiare, quelli che da secoli fanno il lavoretto sporco degli infiltrati, ma è facile vedere che non ci sono solo loro, che il gesto di violenza è diffuso. Credo che lo sarà sempre di più. Perché è nella natura delle cose che sia così, irreparabilmente intrinseco allo stato delle nazioni. E lo sappiamo bene, non c’è nessuna analisi speciale da fare, nessun dibattito che non sia una ipocrita pappina consolatoria.

Non si può spedire un’intera generazione nel vuoto pneumatico pensando che non cerchi di tornare sulla terra, non la si può comprimere all’infinito nel nulla cosmico senza sapere che prima o poi esploderà. Questa generazione non ha niente di quello che hanno avuto i loro padri e che si sono ingegnati a dissipare, il pensiero per primo e la previdenza sociale per ultima. I loro padri che si sono mangiati il modo intero e ora li prendono anche in giro andandogli a spiegare che la festa è finita. Questa generazione non ha parole perché è da quando andava all’asilo che non trova un cane che la stia a sentire, che le dica qualcosa che valga la pena di essere ascoltato, buono o cattivo maestro che sia.

Questa generazione è frutto del ventre nostro, una pancia gonfia di supponenza e inverosimile egotismo. È come se non fossero mai nati quei ragazzi, tenuti nello stato inoffensivo di feti, ad avvizzire nella vita. E vorremmo che fossero ragionevoli. Portatori di una ragione tollerabile agli occhi di padri che si titillano nel sogno perverso di durare in eterno da eterni adolescenti, impotenti innamorati del potere. Ne abbiamo allevato qualcuno perché ci facesse da ventriloquo con toni più convincenti delle nostre voci screditate, ma non funzionerà, non ha mai funzionato.

Non sono tanti, al momento, quelli che ci stanno preoccupando; possiamo ancora illuderci che i più possiamo ancora tenerli a bada continuando a rifornirli di gadget e snack moderatamente aggiunti di anfetamine e narcotici. Ma se non fossimo dimentichi della storia, compresa la nostra, ricorderemmo che bastano pochi a renderci la vita scomoda, a tenerci in angosciante sgomento e paura per tutti i giorni che Iddio manda in terra, e alla fine sono i pochi quelli che fanno saltare in aria tutta la baracca.

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