
(da: http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it)
Se qualcuno mi domandasse (non l'ha ancora fatto nessuno, allora me lo domando da me) quali fotografie spiegano meglio l'avvento delle neo-foto, le foto della condivisione universale, le fotine della disseminazione sul Web, via Facebook, Instagram o quel che vi pare, le fotografie della pizza, dei piedi, delle smorfiette, gli ultracorpi fotografici che spaventano sconcertano indignano tutti, tranne quelli che le fanno e se ne fregano, dicevo: se qualcuno mi chiedesse quali foto sceglierei per provare a coglierne il segreto, credo non avrei dubbi: le fotografie di Abu Ghraib.
Sì, le disgustose fotografie degli allegri aguzzini della prigione americana in Iraq, ricordate? Pile di prigionieri nudi sbeffeggiati da euforiche donne-marine, torture con cani e finte elettrocuzioni fotografate come souvenir, perfino un ritratto con sorriso a tutti denti e pollice alzato di fianco a un cadavere insanguinato.
Orpo! Ho dunque un'idea così spaventosa delle foto con cui i nostri figli riempiono i loro album online? No, niente affatto, al contrario. A dispetto delle smorfie degli snob che le considerano pattume estetico, le neo-foto della condivisone sono per me una sana manifestazione di vita.
E tuttavia, come la vita stessa, credo che queste foto possano nascondere, senza che nessuno lo voglia, nel fondo del fondo, un lato oscuro, che in qualche modo ha qualcosa a che fare con quelle foto orripilanti, e che sarebbe bene venisse a galla, magari per toglierlo di mezzo. Ma dovete avere la pazienza di seguirmi, e la bontà di non equivocarmi.
Sono passati dieci anni tondi dallo scandalo di quelle foto. Per l'evoluzione della scena della fotografia, è un secolo. Sembra perfino difficile accostare le fotografie di Abu Ghraib alla nostra era della condivisione e della disseminazione orizzontali e istantanee.
Quando Charles Graner, Sabrina Harman, Lynndie England e i loro commilitoni inscenano, recitano e fotografano le loro torture fotogrniche, ovvero fra la fine del 2003 e gli inizi del 2004, uno studente di nome Mark Zuckerberg sta ancora mettendo in piedi un sito internet che permetta ai vecchi compagni di classe di ritrovarsi, e lo chiama The Facebook. Esiste invece da qualche anno Flickr, che è sopratuttto un sito per fotoamatori, ancora in fase sperimentale. La parola Instagram nessuno l'ha ancora inventata.
Nel 2004 è certo già possibile pubblicare foto sul Web, in siti personali, nei blog, in pagine private, ma la condivisione orizzontale che conosciamo oggi è ai suoi albori più remoti. Le indecenti fotoricordo di Abu Ghraib non furono scattate per finire in un social network. In effetti, un commilitone dei foto-torturatori le scoprì del tutto casalmente mentre riposavano nella memoria del laptop di un camerata; e per denunciarle ai superiori dovette scaricarle di nascosto su un cd-rom.
Lo scandalo di Abu Ghraib, insomma, non appartiene cronologicamente né soprattutto ideologicamente all'era delle neo-foto disseminate. E tuttavia ne profetizza con drammatica nettezza alcuni tratti, su cui converrebbe riflettere di più.
Guardiamole ancora, vincendo la repulsione. Come appaiono, quelle foto? Prese con macchinette digitali automatiche (i fotocellulari avevano solo due o tre anni di vita e di fatto non consentivano una vera condivisione, se non uno-a-uno, via mms), sono atroci dal punto di vista dell'estetica comune: male inquadrate, male esposte, sfocate, sgranate, cromaticamente aberranti. Proprio come tante neo-foto.
E cosa mostrano? Perché furono scattate? Vi prego di astrarre, lo so che è dura, dal raccapriccio di quelle scene, considerate solo una parte di esse, quella, diciamo così, soggettiva: sono foto ricordo di una eccitante esperienza vissuta da un gruppo di ragazzi messi assieme dale circostanze della vita. Propro come tante neo-foto.
E che fanno quei ragazzi? Ridono, fanno smorfie e gesti buffi, si fanno il ritratto l'un l'altro: non ho dubbi che se le compattine avessero posseduto una retrocamera, avremmo anche molti selfie di Abu Ghraib. In mancanza, gli allegri torturatori si scambiavano le fotocamerine per riprendersi l'un l'altro e rivedersi. Proprio come in tante neo-foto.
Un importante libro-inchiesta di Philip Gourevitch ed Errol Morris è pieno di non poi tanto sorprendenti richiami alla normalità di una pratica fotografica di tipo amicale e familiare. Ne sono piene le deposizioni stesse degli allegri aguzzini: "Tutti avevano una digitale, tutti fotografavano tutto, dai detenuti ai cadaveri, [...] tipo 'ehi mamma guarda!'". "Pensavamo solo ehi, è un morto. Divertente farsi fotografare accanto a una persona morta". "Scattava souvenir, per dimostrare che aveva visto questo e quest'altro, fatto questo e quest'altro".
Certo, il servizio militare nella prigione-inferno non era una gitarella alle cascate del Niagara. Ma i comportamenti fotografici non cambiavano poi tanto. "Probabilmente non fu una buona idea sorridere e fotografare, ma è così che si comporta la gente".
La England, quella che tiene al guinzaglio come un cane un detenuto, si commenta così: "È solo una foto. La prima cosa che mi viene in mente è che quella sono io". La Harman, quella che fa l'ok col pollice di fianco a un cadavere, si commenta così: "Ogni volta che mi fotografano non so cosa fare con le mani, e mi viene automatico alzare il pollice. Come quando nelle foto ti viene da sorridere".
Bella intuizione, questa del sorriso, signorina Harman. Il sorriso è il comportamento sociale indotto specifico della fotografia, è il riflesso pavloviano che la fotografia ci ha imposto, ma solo da quando le fotocamere, dalle mani dei professionali, sono finite in quelli dei papà, delle mamme, dei fratelli e sorelle. Nei ritratti di Nadar non sorride nessuno. Ma nelle foto di matrimonio chi non sorride è una specie di reietto asociale.
Il sorriso forzato è l'abito del soggetto fotografico nell'era della fotografia di massa, privata, familiare. L'ok col dito ne è solo una variante.
E dunque forse diremo, con gli autori del libro, che gli aguzzini ridenti erano "l'apice del dilettantismo"? In parte sì, "quei soldati fotografi si ponevano nello stesso tempo all'interno e all'esterno degli eventi ritratti, erano spettatori della loro stessa recita".
Dilettanti non è più la parola giusta, però. Erano fotografanti di un tipo nuovo, che si affacciava allora alla soglia della visibilità. I fotografanti delle neo-foto, le fotografie che non sono più del tutto private e non hanno più il compito di archiviare per un ristretto numero di possibili lettori una versione spensierata dell'esistenza.
Ad Abu Ghraib prendeva le mosse una fotografia-schermo, una fotografia-corazza. Una fotografia che tenta di fare i conti con una realtà che mette a disagio.
Intendiamoci bene, ma proprio bene bene, non voglio equivoci: non faccio nessuno sconto morale ai comportamenti infami di quei soldati (molti dei quali giustamente condannati), consapevoli che quel che facevano lo facevano anche attraverso le fotografie, attrezzi supplementari del torturatore.
Ancor meno faccio sconti ai comportamenti ancora più infami di chi, più su in gerarchia, probabilmente sapeva, tollerava se non incoraggiava (e poi se l'è passata liscia). Nessuna indulgenza, piena responsabilità.
Ma questo non vieta di cercare di capire che cosa ci facesse lì la fotografia. Perché se ne servissero questi soldati adibiti a mansioni odiose, di serie B, eppure in prima linea (il carcere era stato bombardato), in un luogo claustrofobico e ostile. Chiarissima, la Harman: "Be', come rapportarsi a una cosa del genere, se non eventualmente fotografandola? Era l'unico modo di sopravvivere, di non lasciarsi toccare dalle cose".
La fotocamera come scudo, schermo, protezione: quanti fotografi di guerra hanno confessato questa sensazione rassicurante. I foto-torturatori di Abu Ghraib avvertivano di essere immersi in una condizione a cui non potevano sfuggire, alla quale anzi collaboravano, perfino con convinzione e personale aggiunta di crudeltà; ma che avvertivano confusamente, in qualche angolo remoto del loro "pensiero civile", come anormale.
Sempre Harman, lucida analista della propria abiezione: "Non mi sembrava di partecipare davvero a quello che succedeva". La fotografia li aiutava a separare la coscienza dalla realtà, li esonerava dal conflitto interiore. In che modo?
Ce lo descrive oggi Pierandrea Amato in un libretto denso, che vi consiglio, di riflessioni su Abu Ghraib dieci anni dopo. Nella "ottusa dissonanza" che quelle foto mostrano fra situazioni intollerabili e reazioni spensierate, scrive,
"le fotografie dal carcere irakeno esprimono una figura iperbolica di normalità in grado di testimoniare che anche le forme di violenza più inaudita, nella civiltà dell'ipertrofia dell'immagine, diventano spettacolari, cioè anonime. [Quelle foto] dovrebbero testimoniare che non sta succedendo nulla di veramente grave e memorabile: guarda, è una situazione come un'altra, vedi, non c'è nulla da vedere."
Trovo illuminante questa ultima frase: ci svela il segreto non solo della disgustosa "leggerezza" delle foto dei torturatori, ma anche dell'incomprensibile insignificanza delle neo-foto di oggi. Quella che per qualche osservatore tanto paternalista quanto superficiale sono solo "brutte foto", "foto disastrose".
Ora che è possibile fotografare ogni momento della nostra vita, ora che la fotocamera ci segue, docile in tasca, in ogni momento banale, le fotografie nostre quotidiane hanno smesso di promuovere e archiviare i momenti alti, belli, della vita, e quindi si interessano ancor meno di produrre begli oggetti da ammirare.
Hanno ora assunto un altro ruolo: fotografiamo la realtà senza qualità che viviamo per difenderci dalla consapevoleza che questa realtà non ci soddisfa, non ci piace, a volte ci squilibra.
Le foto degli allegri aguzzini di Abu Ghraib sono, a mio parere, l'avanguardia estrema, colpevole ed aberrante, di quella spontanea, innocente terapia del disagio a mezzo di immagini che è la motivazione segreta dell'odierna alluvione di fotografie.
È stato però fatto un passettino in più. Fotografare per difendersi, ma soprattutto per condividere un peso. Ho detto che le foto di Abu Ghraib erano rimaste chiuse in un hard disk: ma da qualche indizio sembra che ne volessero uscire prepotentemente. "Abbiamo fatto delle foto, dovresti vederle!", scrive Harman ai familiari. E l'archivista delle foto ne usa addirittura una, una delle peggiori, quella della piramide di nudi umani, come salvaschermo del proprio prtatile, quindi visibile a tutti. Quel passettino era già mezzo fatto.
La nostra vita quotidiana non è certo un carcere di morte. Né i fotografanti dei social network sono colpevoli di alcunché, al contrario. Non voglio fare alcun accostamento morale con le innocue, tranquille, incolpevoli fotografie che affollano il Web. Ma l'anormalità assoluta e ingiustificabile di Abu Ghraib ci aiuta a capire anche la normalità quotidiana. Addomesticare il "lato oscuro" traducendolo in immagni "normali" non è un meccanismo che scatta solo in codizioni estreme, orrende e colpevoli.
E dunque mi chiedo se di fronte al disagio a bassa intensità delle loro esistenze depredate di futuro e gratificate da un precario benessere di consumi materiali, i nostri ragazzi non abbiano trovato un aggeggio magico che può servire anche come strumento di autodifesa dall'angoscia.
Scattano foto all'insignificanza e condividono l'apparente rassicurante normalità di una pizza, di due piedi sotto l'ombrellone, non solo perché sono cose divertenti. Forse anche per esorcizzare il terrore che non ci si altro, anzi che che la vita sia una trappola claustrofobica che nasconde un precipizio. Possiamo dargli torto?
I fotogranti delle neo-foto affidano questo compito "scaramantico" alle immagini: e questo non è nuovo nela storia umana. Ma lo affidano a immagni non più delegate ai demiurghi (un tempo sacerdoti, poi artisti) incaricati dalla comunità di metabolizzare il caos del mondo per noi.
Ora ci fidiamo solo di immagini fatte da noi stessi, che creano la loro cultura visuale rompendo con tutte le altre, in un'autarchica "composizione post-estetica dell'orrore", cito ancora da Amato, che ha il compito di contrapporre la quotidianità alla realtà, di fare della quotidianità "un'arma di protezione contro la vita".
Anche le smorfiette, nuova mimica fotograficamente indotta, le boccucce a cul di gallina, le linguette fuori dai denti, che cosa sono se non un iper-sorriso pavloviano, un gesto scaramantico e distrattore, un paravento dai pensieri bui e dal troppo interrogarsi?
Se in due situazioni incomparabili, i gironi di Abu Ghraib e i nostri giretti spensierati, la fotografia mette in moto meccanismi simili, forse abbiamo scoperto qualcosa?
Le fotografie di Abu Ghraib non sono la degenerazione della fotografia familiare quando viene mandata al fronte. Potrebbero essere state solo l'eruzione di un magma profondo che forse ribolle nel cuore della fotografia stessa.
(14.01.2015)