Quando mi fu chiesto di scrivere una presentazione per la ristampa, da tempo attesa, di L’Ape e l’architetto, pensai tra me e me: “Facile: è un libro che conosco perfettamente e che ho letto molte volte. Basta che gli dia uno sguardo veloce, trovo qualche citazione e so già che cosa dire”. Detto fatto: abbastanza velocemente scrissi una prima stesura che cominciava con: “Ricordo quando ho letto questo libro la prima volta: era il 1973 e mi trovavo nel mio ufficio a New York alla Columbia University…”. Tuttavia in un successivo sprazzo di lucidità mi venne lo scrupolo di controllare la data di pubblicazione e con mio grande stupore scoprii che L’Ape e l’architetto era stato stampato per la prima volta nel 1976. Mi domando ancora che cosa avessi letto a New York nel 1973: forse uno dei saggi degli autori che a queltempo circolava come preprint in forma separata. In ogni caso buttai via quello che avevo scritto e rilessi il libro molto attentamente (come se fosse la prima volta), cercando di non sovrapporre i miei ricordi a quello che leggevo, cercando di capire quale fosse adesso il suo messaggio e quale impressione potesse lasciare al lettore.
Negli anni ’60 la situazione incomincia a cambiare. In Italia molti intellettuali incominciano a riflettere al di fuori degli schemi tradizionali e cercano di aprirsi uno spazio a sinistra. Il ’68 rompe impetuosamente gli argini e nel ’69 un gruppo d’intellettuali e dirigenti politici del partito comunista italiano (tra cui uno degli autori dell’Ape e l’architetto) fonda una rivista (che poi diventa quotidiano), “Il Manifesto”, coerente con le loro posizioni politiche: come forse era invitabile, i promotori vengono espulsi dal partito. Ma anche al di fuori del Manifesto, l’eterodossia nei confronti della vulgata dilaga; nasce la galassia della sinistra extraparlamentare. Negli anni ’70 questo processo è ormai molto avanzato, ma c’è un ambito che la ventata critica ancora non ha sfiorato, protetto da uno statuto “super partes” unanimemente riconosciuto: la scienza. E potendone parlare con cognizione di causa, conoscendone i meccanismi dall’interno, i nostri autori, scienziati e fisici di professione, e contemporaneamente marxisti, decidono che è il momento di riconsiderare le posizioni tradizionali sul ruolo della scienza nella società.
Riguardo alla scienza, una delle tesi fondamenti dell’ortodossia marxista era che “l’ideale conoscitivo delle scienze cognitive è sostanzialmente astorico e gode della proprietà per cui quando viene applicato alla natura serve unicamente al progresso della scienza”. Al contrario, gli autori ritenevano che “essendo la produzione scientifica un’attività umana particolare e specifica, essa non è comprensibile di per sé, ma solo quando la si analizzi insieme a tutte le attività umane di un dato periodo storico e la si confronti con attività simili di altri periodi storici. In altre parole, anche la scienza diviene comprensibile solo se riferita alla totalità dell’operare degli uomini. (…) La scienza nella sua realtà concreta non ci è data immediatamente, ma solo dopo un lungo lavoro di analisi.” Nell’affermare questo gli autori erano coscienti di essere doppiamente eretici: non solo la maggior parte di loro si collocava in varie posizioni a sinistra del partito comunista, ma erano anche fortemente in contrasto con uno dei punti fondamentali dell’ortodossia. Le tesi degli autori non erano politicamente neutre; vista l’importanza sempre crescente della scienza e della tecnologia nella società moderna, era tutt’altro che marginale il rischio che una visione illusoria della scienza potesse indurre una sbagliata interpretazione dei cambiamenti in corso e delle lotte operaie. Proprio per questo motivo era cruciale per gli autori di questo libro che il loro discorso avesse tutte le giustificazioni ideologiche e l’apparato critico necessari per essere politicamente accettabile nella sinistra marxista e potere quindi influire sulla politica della sinistra.
Ma perché parlavo di spaesamento nella rilettura di questo testo? L’ortodossia marxista è andata via via scomparendo, insieme ai suoi difensori, con il crollo e la mutazione dei partiti comunisti al potere, e quindi adesso non c’è più la necessità di dialogare con loro, anche se in forma spesso polemica, di giustificare le proprie posizioni con un richiamo all’origine del pensiero marxiano e alla tradizione marxista prestalinista, come avevano fatto gli autori di questo libro di rottura. Per chi non ha vissuto quel periodo, può apparire incomprensibile concentrare tanto impegno a stabilire quale fosse l’originale visione di Marx sull’argomento.
Il retroterra marxista
Ma il richiamo al pensiero autentico di Marx non ha solo un ruolo difensivo verso l’ortodossia marxista, ma è per capire la genesi delle posizioni degli autori, che sono estremamente originali. Anche la comunità scientifica a quel tempo era fondamentalmente e compattamente convinta dell’assoluta oggettività della scienza: secondo l’opinione corrente tra gli scienziati certo c’erano state influenze della società sulla scienza, ma queste avevano solamente contribuito ad accelerare o a rallentare lo sviluppo scientifico, che di per sé evolverebbeverso una costruzione finale oggettivamente (e non storicamente) determinata.
Mi ricordo che il saggio del libro, che avevo letto per primo, mi aveva lasciato francamente perplesso: era Il satellite della Luna, di Marcello Cini, apparso sul “Il Manifesto” (rivista), nel settembre del 1969. In quell’articolo Cini analizzava il programma Apollo, sottolineando che le ricadute scientifiche dei programmi spaziali erano talmente minuscole rispetto alle cifre spese, da non poter essere assolutamente accettate come motivazioni reali, e che considerazioni simili si potevano fare anche per l’utilità delle applicazioni e per i risultati indiretti; al contrario gli obiettivi politici e militari delle imprese spaziali erano vistosi e dominanti. Cini poi continuava inserendo queste considerazioni in un discorso più generale sull’uso capitalistico della scienza e sul rapporto tra forze produttive e capitale monopolistico e concludeva dicendo “Come negare che oggi saremmo di fronte ad una scienza diversa, come contenuti, metodi, importanza stessa delle diverse discipline se la ricerca negli Stati Uniti non fosse stata negli ultimi vent’anni condizionata in larga parte dalle necessità economiche, politiche e militari di espansione del capitalismo?”. Ovviamente a quel tempo all’interno della sinistra bisognava confrontarsi con la posizione dei compagni sovietici che sostenevano candidamente che “le motivazioni di fondo della ricerca spaziale erano le necessità della scienza e il desiderio di procurare vantaggi futuri all’umanità”; Cini aveva buon gioco nel dimostrare logicamente come queste affermazioni mascherassero in realtà interessi politici e militari più profondi, ma nel far questo andava in rotta di collisione con il partito comunista di cui era un dirigente.
All’epoca avevo ventun anni e, come tanti della mia generazione, avevo letto tanti romanzi di fantascienza su “Urania”: lo sbarco dell’uomo sulla luna ci sembrava l’inizio di una nuova fase di esplorazione e colonizzazione prima della luna e poi degli altri pianeti in cui i terrestri cominciavano finalmente a muovere i primi passi nell’universo. Le critiche di Cini avevano certamente qualcosa di vero, ma ai nostri occhi implicavano solamente che le grandi potenze facevano per loro motivi miopi e sbagliati qualcosa che dal punto di vista dell’evoluzione generale dell’umanità era comunque non solo sensato e necessario, ma anche assolutamente non rinviabile. Ci pareva che Cini non afferrasse che stavamo di fronte all’alba dell’era spaziale, e che si concentrasse su particolari contingenti senza coglierne la grande novità: il suo ci sembrava un discorso in fondo limitato.
A distanza di quaranta anni è del tutto evidente che lui aveva ragione e noi avevamo torto. L’era spaziale, la colonizzazione della luna, non è mai cominciata e, a parte un gran numero di rocce lunari e qualche foto spettacolare, non ci è rimasto niente in mano di quei viaggi: di fatto è come se sulla luna non ci fosse andato mai nessuno. La chiusura drastica dei programmi di esplorazione umana della luna, senza nessuno spiraglio per una riapertura, la marginalità dei programmi attuali di esplorazione spaziale, la dicono lunga sull’importanza decisiva avuta, all’epoca dello sbarco sulla luna, da contingenti motivazioni politico-militari. Ma all’epoca quasi tutti gli scienziati non vedevano (o non volevano vedere) queste connessioni. Gli autori quindi erano anche eretici nell’ambito ristretto della comunità scientifica e lo sviluppo delle loro idee sarebbe stato impossibile in un ambiente puramente scientifico. Possiamo comprendere la genesi delle loro posizioni solo considerando l’influenza della tradizione marxista. Infatti è statoMarx ad affermare che “il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere che determina la loro coscienza.”. Lukacs da canto suo aveva rincarato la dose affermando che “per la borghesia è una questione vitale apprendere il proprio ordinamento produttivo come se la sua forma fosse determinata da categorie valide al di fuori del tempo, quindi destinate dalle leggi eterne e della natura e della ragione a un’eterna permanenza” e che “solo quando i fatti singoli della vita sociale vengono integrati in una totalità come momenti dello sviluppo storico diventa possibile una conoscenza dei fatti come conoscenza della realtà”. In altri termini, l’inconsistenza della pretesa del capitalismo di porsi come fine della storia era un punto cruciale della critica marxista. A partire da queste premesse diventava “quasi ovvia l’indicazione di recuperare la produzione scientifica nelle scienze naturali nell’ambito della totalità storica”, anche se invece lo stesso Lukacs si era arrestato di fronte a questo passo, sostenendo il contrario, ovvero che le sue considerazioni non si applicavano alle leggi naturali .
È molto interessate osservare la convergenza del pensiero dei nostri autori con quello della delegazione sovietica al congresso di storia della scienza e della tecnologia tenutosi a Londra nel 1931. Bucharin (una personalità politica di primo livello, estremamente popolare nell’URSS, che fu una delle vittime più illustri delle purghe staliniane) scriveva che “l’idea che la scienza sia fine a se stessa è ingenua: essa confonde le passioni soggettive dello scienziato professionista, che lavora in un sistema di divisione del lavoro assai spinta (…) con il ruolo sociale oggettivo di questo genere di attività, in quanto attività di importanza pratica. La feticizzazione della scienza (…) è un riflesso ideologico falsato di una società in cui la divisione del lavoro ha distrutto la connessione visibile tra le funzione sociali, separandole nella coscienza dei loro agenti come valori sovrani ed assoluti.”. Cini al convegno “Scienza e Società” del 1970 si riallacciava inconsapevolmente a queste parole di Bucharin – che all’epoca non conosceva ancora – quando affermava che “siamo portati a contestare il dogma di neutralità della scienza, così profondamente radicato nella mente e nella coscienza di tanti di noi, nella misura in cui diventiamo consapevoli che non è possibile separare l’oggetto del nostro atto di conoscenza dalle ragioni di questo atto, (…) isolare il meccanismo di soluzione di problemi senza individuare il meccanismo che propone i problemi da risolvere.”.
La progettualità scientifica
Le lotte di classe di quegli anni nelle fabbriche, le lotte operaie per la salute, per avere migliori condizioni di lavoro hanno certamente influenzato gli autori, come loro stessi riconoscono. Nel momento in cui i metodi di produzione erano presentati dal capitale come oggettivamente necessari e scientificamente deducibili, le discussioni sulla produzione di scienza nella società capitalistica avanzata, sul ruolo dell’informazione che stava diventando merce, diventavano questioni di grande importanza politica e gli autori aspiravano a discutere a questo livello. Dal punto di visto teorico non era facile: si voleva rifiutare lo scientismo, senza rifiutare la scienza tout court, senza cadere in un nuovo luddismo. Il metodo seguito in L’Ape e l’architetto consisteva nel prendere come guida la progettualità scientifica e di analizzare la scienza tenendo conto delle sue finalità sociali e del suo ruolo sociale obiettivo; in qualche modo si contrapponevano gli scienziati-api che eseguono il loro di lavoro di ricerca senza riflettere al contesto, agli scienziati-architetti le cui azioni e ricerche concrete sono finalizzate ad un progetto che è precedente alle loro opere. La scienza moderna acquistava un significato chiaro solo se la si considerava all’interno dell’ascesa della borghesia e lo sviluppo del capitalismo moderno.
Bisognava quindi analizzare la funzione sociale della scienza, determinare da un lato gli effetti della scienza sulla società e dall’altro come le richieste della società condizionassero la scienza. Ovviamente i due problemi sono fortemente connessi e non è possibile comprendere a fondo l’uno senza analizzare l’altro. Tuttavia, anche a rischio di separare ciò che non è separabile, preferisco discuterli uno per volta. Infatti le considerazioni di questo libro che riguardano l’influsso della società sulla scienza sono quelle che all’epoca hanno suscitato il più gran numero di polemiche e discussioni pubbliche.
La non neutralità della scienza e le furibonde polemiche sul libro.
Per capire quale sia l’influsso della società nella scienza, sostengono gli autori, è conveniente esaminare in dettaglio la storia passata, “vedere per quali condizioni di fatto gli uomini siano stati spinti alla scienza (…), bisogna trovare e determinare l’origine dei bisogni scientifici: il che lega poi questi ad altri bisogni umani”. Questo è il punto chiave del libro, che gli autori affrontano con grande equilibrio, consapevoli del rischio di cadere in due errori contrapposti: quello di negare i fondamenti oggettivi della scienza e quello di credere che la conoscenza oggettiva della natura sia determinata solo da una logica interna alla scienza stessa. Nel procedere su questo crinale gli autori mostrano una grande conoscenza della storia della scienza. Il senso delle loro posizioni si capisce meglio tenendo conto degli esempi da loro studiati. Ne elenco sommariamente qualcuno, cercando di coglierne alcuni punti essenziali.
• La scoperta del principio di conservazione dell’energia, negli anni che andavano dal 1842 al 1847, fu ferocemente criticata ed osteggiata da molti studiosi che volevano dare dignità scientifica solamente alla meccanica, lasciando fuori le nuove discipline: termologia, elettrologia, magnetismo, acustica. Lo scontro fu deciso in favore delle nuove discipline, anche a causa del ruolo cruciale che avevano nella produzione industriale, e della necessità di misure di precisione per arrivare ad una standardizzazione dei beni prodotti.
• Boltzmann e Planck avevano entrambi studiato il problema della radiazione termica emessa da un corpo nero, tuttavia con atteggiamenti molto diversi: le origini di questa differenza di prospettivadiventavano comprensibili solo dopo una ricostruzione dell’ambiente scientifico tedesco e del violento scontro tra le varie tendenze.
• Nel Novecento, nel secondo dopoguerra c’era stato un forte sviluppo di grandi laboratori, sia nazionali che internazionali, nei quali si concentrava la ricerca; il prototipo era stato il Manhattan Project a Los Alamos durante la guerra, finalizzato alla progettazione e costruzione della bomba atomica. Il successo di questi grandi laboratori era dovuto al loro funzionare come moltiplicatori dell’efficienza nel processo di produzione scientifica, anche allo scopo di garantire che lo sviluppo di scienza pura reggesse il passo con la produzione industriale.
• L’etica professionale degli scienziati si stava modificando sempre di più verso la morale dell’impresa concorrenziale. “Una volta se qualcuno pubblicava un risultato di rilievo, gli altri scienziati lo lasciavano lavorare in pace per almeno qualche anno perché potesse svilupparlo per suo conto. Oggi i ricercatori più attivi si precipitano fuori dall’aula di un congresso per fare le più ovvie esperienze che il relatore che ha appena finito di parlare non ha avuto il tempo di fare.”.
• La prassi scientifica degli Stati Uniti e dell’URSS avevano notevoli differenza di tendenze. Per esempio in Unione Sovietica c’era un forte sviluppo di analisi non lineare, che poteva essere correlato ai problemi della pianificazione sovietica, mentre “la grande ripresa di studi di meccanica classica nell’URSS sarebbe difficilmente comprensibile al di fuori di una tradizione culturale materialistico-dialettica.”.
Sono osservazioni fattuali perfettamente condivisibili. Ma ne veniva fuori un quadro del tutto inedito: la scienza era un’attività sociale come un’altra (a parte il fatto che, forse, richiedeva una molto maggiore dedizione) e le sue scelte venivano fatte anche per motivi irrazionali, extrascientifici, a volte apertamente socio-politici: non era più un mostro sacro, obiettivo, neutrale, le cui scelte erano perfettamente razionali e quindi comprensibili solo da una logica interna riservata agli specialisti. Oggi giorno ci pare del tutto naturale, anzi quasi ovvia, la tesi che, pur essendo innegabile l’attuale successo della scienza, nel suo processo storico essa sia stata influenzata dalla società, dai suoi bisogni: un’altra storia, un’altra società avrebbero prodotto un’altra scienza, anch’essa capace di spiegare i fenomeni ritenuti essenziali da quell’altra società.
Ma allora non fu affatto così: la reazione di gran parte dell’establishment accademico fu furiosa: i più famosi e i più autorevoli commentatori italiani (Lucio Colletti, Giorgio Bocca) trovarono la tesi della non neutralità della scienza completamente intollerabile e cercarono di smontarla con una serie di banalità impressionanti del tipo “i corpi cadono nello stesso modo sotto l’azione della forza di gravità nei paesi socialisti e nei paesi capitalisti”, che ovviamente non coglievano assolutamente il punto. Anche se Giuseppe Barletta in “Marxismo e teoria della scienza” accusava in maniera ridicola e incomprensibile gli autori di essere degli stalinisti (“allo zdanovismo riduttivo e sillogistico di Cini e della sua équipe, Colletti è sembrato quasi costretto ad opporre la tesi, non più sostenuta neppure da alcun avveduto neopositivista della neutralità della scienza”) l’accusa principale era di aver ferito il prestigio della scienza: gli autori furono essere accusati di essere luddisti e Marcello Cini fu messo nella lista dei “Cattivi Maestri” da Bocca, come responsabile ultimo di nefaste tendenze antiscientifiche e derive irrazionali.
In realtà oggi a tanti anni di distanza sembra vero tutto il contrario: ci sono forti tendenze antiscientifiche nella società attuale, il prestigio della Scienza e la fiducia in essa stanno diminuendo velocemente, le pratiche astrologiche, omeopatiche e antiscientifiche si diffondono largamente insieme a un vorace consumismo tecnologico e fideismo nella tecnologia; ma questa sfiducia di massa nella scienza è dovuta anche al fatto che la scienza insiste a presentarsi come superiore al gioco delle parti e in un certo senso sapienza assoluta, rispetto agli altri saperi opinabili, quando in realtà non lo è affatto. Proprio il rifiuto caparbio di non accettare la propria non-neutralità indebolisce il prestigio degli scienziati che sbandierano un’obiettività che non è autentica, davanti a un’opinione pubblica che in qualche modo ne avverte la parzialità di vedute e i limiti. Il rischio dello scientismo, si leggenell’Ape e l’architetto, è “di aspettarsi troppo dalla scienza, la si concepisce come una superiore stregoneria, e perciò non si riesce a valutare realisticamente ciò che di concreto la scienza offre.” Il risultato è che chi scienziato non è si mette in una posizione irrazionale di fronte a una scienza intesa come magia inaccessibile, destinato ad essere deluso e quindi a preferire altre speranze irrazionali (tema ripreso da Marco d’Eramo nel suo Lo Sciamano in Elicottero).
Il ruolo sociale della scienza.
Come abbiamo già detto, oltre a considerare l’influenza dei rapporti sociali ed economici sull’operare scientifico, era necessario inversamente tener conto del ruolo delle scienze nella società e nell’economia: bisognava cioè chiarire i nessi tra scienza e i rapporti sociali di produzione nella società capitalistica avanzata, e anche i rapporti tra scienza pura, scienza applicata e apparato produttivo. L’Ape e l’architetto affronta in dettaglio questo compito, sottolineando comunque che tutte queste distinzioni, parzialmente convenzionali, rientrano nell’ambito di uno stesso processo. La scienza pura, avvertivano gli autori, non solo fornisce alla scienza applicata le conoscenze necessarie per potersi sviluppare (linguaggi, metafore, quadri concettuali), ma ha anche un ruolo più nascosto e non meno importante. Le attività scientifiche funzionano infatti anche come un gigantesco circuito di collaudo di prodotti tecnologici e di stimolo al consumo di beni ad alta tecnologia avanzata; inoltre i grandi laboratori rappresentano “un terreno sperimentale ideale di controllo e gestione di una complessa organizzazione produttiva integrata, che impiega manodopera estremamente specializzata e di altissimo livello tecnico.”.
Queste osservazioni all’epoca facevano scalpore e sembravano ideologiche, di parte, ma attualmente appaiono incontestabili, quasi scontate: basta pensare al gran numero di prodotti che sono stati prima testati nella ricerca avanzata, venduti in questo settore per ammortizzare i costi di ricerca e sviluppo, e poi passati alla produzione e al consumo di massa, (per esempio i sensori per la macchine fotografiche, utilizzati inizialmente dagli astronomi). I grossi centri di ricerca (il CERN di Ginevra al livello mondiale, i Laboratori Nazionali di Frascati al livello italiano) hanno avuto un ruolo decisivo nella creazione di reti di calcolatori, di internet, del linguaggio HTLM che è alla base del World Wide Web; infatti, come è stato ripetuto innumerevoli volte sulla stampa, il linguaggio HTLM è nato al CERN per soddisfare esigenze della comunità scientifica.
Rileggendo queste pagine a distanza di tempo colpisce il coraggio degli autori che demolendo, fatti alla mano, il pregiudizio della neutralità della scienza, si sono trovati a combattere su due fronti con le due correnti più potenti dell’intellighenzia dell’epoca, attirandosi l’accusa di antiscientismo sia da parte degli antimarxisti, per ovvi motivi, che dei marxisti ortodossi, preoccupati, questi ultimi, di veder messo in discussione, in prospettiva, il preteso carattere “scientifico” del loro materialismo dogmatico. Ma colpisce anche la capacità degli autori di cogliere precocemente alcune tendenze generali che all’epoca erano presenti soltanto in nuce: già allora davano infatti un peso importante a un fenomeno che era ancora agli inizi, ma che adesso salta agli occhi: il progressivo trasformarsi dell’informazione in merce, anzi nella più importante delle merci. L’informazione, come la conoscenza, è una merce molto diversa dalle altre: per bloccarne la libera diffusione e aumentarne il valore di scambio vengono istituiti brevetti, licenze e copyright. Il ruolo centrale dell’informazione è talmente rilevante nell’economia della società odierna che spesso viene chiamata la società dell’informazione (molte pagine del recente libro di Balducci e Cini “Lo spettro del capitale” sono dedicate ad uno studio che espande e sviluppa questi temi già presenti ne L’ape e l’architetto).
A distanza di tanti anni dalla sua uscita, dunque, L’ape e l’architetto risulta un libro che ha aperto una strada, negli studi di filosofia e di storia della scienza, e a cui la storia ha dato per molti versi ragione, tanto che molte delle osservazioni dirompenti di allora sono entrate nel senso comune. E come tutti i libri che hanno fatto epoca, permette di ritrovare, anche nelle sue parti più datate, che oggi non ci sarebbe bisogno di scrivere, ma allora erano cruciali, il sapore preciso di un periodo del passato e delle sue tensioni intellettuali. Da questo punto di vista è diventato un classico, che per essere inteso pienamente ha bisogno di essere contestualizzato e ricollocato nel suo tempo.
D’altra parte questo libro ancora oggi ci apre una serie di scoperte: le citazioni di Marx e di autori marxisti ormai non hanno più la funzione di smentire una corporazione di custodi dell’ortodossia in favore del marxismo autentico, ma hanno l’effetto di far conoscere ai lettori pagine dimenticate di sorprendente apertura, modernità e lucidità di un pensiero oggi emarginato e ignorato dalla cultura dominante.
E soprattutto L’Ape e l’Architetto comunica – e anche questa è una scoperta – l’attualità e la tenuta di un metodo critico – in questo caso di critica della scienza – che nella sua determinazione ad attenersi a un’analisi rigorosa dei fatti sa essere insieme scientifico e marxiano, nel senso migliore di entrambi i termini: fedele al metodo scientifico per quanto è possibile nelle scienze umane, dove i fenomeni da osservare non sono matematizzabili, e marxiano nell’attenzione alla base sociale ed economica di ogni agire umano, e nella consapevolezza che nessuna costruzione umana, scienza compresa, può essere sottratta alla storia.
È un metodo che ha tuttora molto da insegnare a chi, oggi come allora, da scienziato o da storico, o l’uno e l’altro insieme, lavora con gli strumenti dell’analisi critica a comprendere la propria epoca e a demolire i pregiudizi che di volta in volta ne ostacolano l’intelligenza.
(ripreso da https://fisicamente.blog)