LORENZO SARTINI
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Non sappiamo più diventare madri

7/2/2015

 
Immagine
di Silvia Vegetti Finzi (da: www.27esimaora.corriere.it del 03/02/2015)

Viviamo una fase di sordità psichica rispetto al corpo che è anche una perdita d’identità, di integrità, di conoscenza di noi. Dobbiamo chiedere a un test di gravidanza esterno quello che dovremmo ben sapere da noi, senza aver bisogno né di un’informazione né di una conferma.

Le donne dovrebbero sapere tutto della gravidanza e del parto. Invece tutto dev’essere appreso. Molti ginecologi dicono che le donne spesso fanno movimenti contrari all’efficienza dell’espulsione e del travaglio. C’è bisogno di un’ostetrica che stia vicino al corpo della donna per darle le indicazioni più appropriate su come fare.

L’estraneità della donna rispetto al proprio corpo è aumentata con la modernità. Le bambine non giocano più con le bambole. La prima bambola oggi è la Barbie, una ragazza. Il famoso bambolotto che una volta le bambine si stringevano al petto con tutto il suo armamentario (il ciuccio, il lettino, una copertina) non esiste più. Oggi molte donne diventano madri senza aver mai stretto al petto un neonato, senza neanche mai averlo visto.


Tutte quelle sensazioni che un tempo nella vita di una donna erano quotidiane (il contatto pelle a pelle con il neonato, il suo profumo) non esistono più. Arriviamo all’esperienza fondamentale della gravidanza del tutto impreparate.

Servirebbe una educazione alla maternità anche perché non si è più sensibili al tema e spesso la dimensione intima e spirituale della gravidanza è inesistente.

Mi spaventa sentire le donne che hanno appena partorito dire: «Ho attraversato tutta la gravidanza come niente fosse».  Quel «niente fosse» fa venire i brividi. Non solo perché durante la gravidanza il pensiero, la fantasia, l’immaginazione e il sogno preparano la futura relazione col figlio. Mi dispiace perché quella donna ha perso qualcosa di molto importante per la sua vita.

Dovremmo poter godere fino in fondo di questa esperienza che è anche spirituale. Alla fine invece diventa spesso un puro problema materiale: che cosa faccio, come mi organizzo, lo lascio al nido, lo lascio alla mia mamma. La gestione quotidiana prevarica su tutto. Dovremmo riacquistare spazi di ascolto e di relazione. Invece, subito dopo il parto, la stanza della puerpera viene invasa in modo rumoroso da fotografi, messaggini, fiori regali, selfie. C’è un frastuono che impedisce la cosa più importante, cioè il primo incontro della propria vita. Dovremmo proteggere le donne da questo assalto del rumore, dando loro un ambito di silenzio, di sacralità, proteggendo l’incontro della madre con il proprio figlio.

Che cosa accade in questo primo incontro? La madre, guardando il suo neonato, toccandolo, accogliendolo, gli dà un messaggio fondamentale. Vi siete mai chiesti perché tutti noi siamo sicuri di essere gli unici al mondo? Di essere sicuri che non c’è nessuno uguale a noi? Siamo miliardi sulla terra eppure siamo sicuri di essere unici, uguali solo a noi stessi, di non avere sosia, di non avere ombre. Della nostra unicità abbiamo un conforto di identità immediato. Chi ce lo dice che siamo unici, che siamo soli, che siamo incondizionatamente amati? La madre. E in quel momento accade proprio una fondazione di identità che poi si metterà a fuoco – come dire fotografi – per tutta la vita.

In quel momento è importantissimo che madre e figlio si guardino, si riconoscono.

Quando nasce una madre nasce un bambino e viceversa, quando nasce un bambino nasce una madre. Questa è la relazione fondamentale della nostra vita che deve essere protetta.

Senza questo riconoscimento noi non siamo niente.


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