Quando mi fu chiesto di scrivere una presentazione per la ristampa, da tempo attesa, di L’Ape e l’architetto, pensai tra me e me: “Facile: è un libro che conosco perfettamente e che ho letto molte volte. Basta che gli dia uno sguardo veloce, trovo qualche citazione e so già che cosa dire”. Detto fatto: abbastanza velocemente scrissi una prima stesura che cominciava con: “Ricordo quando ho letto questo libro la prima volta: era il 1973 e mi trovavo nel mio ufficio a New York alla Columbia University…”. Tuttavia in un successivo sprazzo di lucidità mi venne lo scrupolo di controllare la data di pubblicazione e con mio grande stupore scoprii che L’Ape e l’architetto era stato stampato per la prima volta nel 1976. Mi domando ancora che cosa avessi letto a New York nel 1973: forse uno dei saggi degli autori che a queltempo circolava come preprint in forma separata. In ogni caso buttai via quello che avevo scritto e rilessi il libro molto attentamente (come se fosse la prima volta), cercando di non sovrapporre i miei ricordi a quello che leggevo, cercando di capire quale fosse adesso il suo messaggio e quale impressione potesse lasciare al lettore.
di Giorgio Parisi
Quando mi fu chiesto di scrivere una presentazione per la ristampa, da tempo attesa, di L’Ape e l’architetto, pensai tra me e me: “Facile: è un libro che conosco perfettamente e che ho letto molte volte. Basta che gli dia uno sguardo veloce, trovo qualche citazione e so già che cosa dire”. Detto fatto: abbastanza velocemente scrissi una prima stesura che cominciava con: “Ricordo quando ho letto questo libro la prima volta: era il 1973 e mi trovavo nel mio ufficio a New York alla Columbia University…”. Tuttavia in un successivo sprazzo di lucidità mi venne lo scrupolo di controllare la data di pubblicazione e con mio grande stupore scoprii che L’Ape e l’architetto era stato stampato per la prima volta nel 1976. Mi domando ancora che cosa avessi letto a New York nel 1973: forse uno dei saggi degli autori che a queltempo circolava come preprint in forma separata. In ogni caso buttai via quello che avevo scritto e rilessi il libro molto attentamente (come se fosse la prima volta), cercando di non sovrapporre i miei ricordi a quello che leggevo, cercando di capire quale fosse adesso il suo messaggio e quale impressione potesse lasciare al lettore. di Paolo Magatti 1. Incontro e il paradigma della terzietà Ogni formatore sa quanto sia importante per il successo di un’iniziativa formativa che nel gruppo si generi un clima positivo e collaborativo. Ossia che avvenga un incontro produttivo tra il formatore, i partecipanti e l’oggetto di lavoro e di apprendimento. Incontro al quale ci si può preparare in maniera meticolosa, programmando la scaletta in modo che vi sia un filo logico, modulando attività frontali e sessioni esercitative, prestando attenzione alla fase di avvio (patto formativo e costruzione del gruppo) e a quella conclusiva (bilancio dell’esperienza). Ci si incontra e in ogni incontro succede qualcosa che sfugge alla “presa” della progettazione: qualche partecipante ritarda, le autopresentazioni prendono più tempo del previsto, una domanda accende un conflitto, un’esercitazione prevista viene annullata e sostituita con un momento di riflessione individuale, e così via, l’elenco potrebbe continuare. Potremmo considerare questi fatti come determinati da carenze di progettazione oppure come incidenti “normali” a cui non prestare particolare attenzione. Personalmente preferisco pensarli come “sporgenze” o “pieghe” che rompono l’ordine razionale degli eventi, l’ordine del discorso, e che segnalano qualche cosa di importante per il processo di apprendimento che si sta svolgendo. Sporgenze, o pieghe, che mi inducono a porre una domanda banale nella sua essenzialità: chi si incontra in un’aula di formazione? O, volendo estendere il discorso “oltre l’aula”, chi si incontra in un setting formativo? Qui entrano in gioco i nostri modelli di riferimento, le nostre visioni filosofiche, i nostri paradigmi. Chi si incontra, quindi? Potremmo dire che si incontrano delle “menti”, ossia non delle sostanze individuali ma delle strutture di per sé relazionali e processuali. Si incontrano delle menti e si attivano diversi livelli di comunicazione, in uno spettro che copre gradualmente dimensioni consce e inconsce, emotive e razionali. Si può ipotizzare, seguendo Bleger, che oltre a questo strato interattivo agisca sempre anche un livello sincretico, di partecipazione pre-relazionale o a-relazionale, che rimanda ad aree indiscriminate della nostra psiche (socialità sincretica). di Leonardo Montecchi Non è facile, per me, scrivere sul documentario prodotto da Netflix, perché sono implicato nella vicenda e naturalmente il mio punto di vista ne risente. Il clima generale del film è tragico. Noi italiani siamo più in sintonia con la commedia o il melodramma o al massimo con l'ilarotragedia, ma in questa vicenda c'è veramente poco da ridere. I protagonisti o meglio i co-protagonisti si presentano al tempo odierno e dialogano con i se stessi della vicenda di cui sono stati attori. Tutto gira attorno alla figura e alle pratiche di Vincenzo Muccioli che, se così si può dire, viene evocato dai racconti e manifestato visivamente dagli archivi. Più che in una comunità ci troviamo, come dice Andrea Muccioli, il figlio e continuatore del fondatore, in una comune Hippy. Ma non siamo in California durante la summer of love ma sulle colline riminesi nel comune di Coriano. Su queste colline, forse per via del turismo di massa che ha portato sulla costa, nel corso di qualche decennio, decine di milioni di persone da tutta Europa, sono possibili ricombinazioni culturali da territorio cosmopolita. Ma tutto, come viene descritto da Pier Andrea, fratello minore di Vincenzo, nascerebbe dalla passione per l'esoterismo e dalla sua capacità di farsi medium nella evocazione degli spiriti. In una atmosfera faustiana l'entità evocata avrebbe indicato la collina di Sanpatrignano come il luogo per iniziare una attività concreta in favore degli emarginati. L'inizio delle attività avviene in un anno in cui in Italia succede tutto: rapimento ed uccisione di Aldo Moro, il primo governo con i comunisti nella maggioranza da quando esiste il patto atlantico, e l'approvazione della legge 180 che modifica radicalmente i motivi per cui una persona può essere privata della libertà pur non avendo commesso un reato. La legge del 1904 prevedeva l'internamento in manicomio se la persona veniva riconosciuta: "pericolosa a sé ed agli altri e di pubblico scandalo". La nuova legge prevede che i trattamenti sanitari obbligatori siano regolati da una proposta, poi da una convalida di un medico della struttura pubblica, e siano disposti dal Sindaco in quanto autorità sanitaria locale. Questa nuova regolamentazione interrompe gli ingressi nei manicomi e ne avvia la chiusura fra aspre polemiche. di Roberto Marchesini 1. PREMESSA L’essere animale è qualcosa che ci riguarda in modo diretto, ma non nella veste di contro-termine da cui ricavare per esclusione la nostra condizione umana né come cifra regressiva, retaggio oscuro che in ogni momento può risalire dai fondali filogenetici per mettere a rischio la nostra umanità, bensì come fondamento stesso della nostra soggettività, del nostro essere affacciati al mondo attraverso la vitalità del desiderio. L’essere animale ha a che fare con il non-equilibrio, l’apertura referenziale che rigetta qualunque autarchia ontologica, la non esplicabilità in termini di fenomeno attraverso una ricognizione seppur puntuale ed esaustiva delle causalità agenti nel qui-e-ora. L’essere animale è una continua invenzione di presente, un andare oltre l’algoritmica delle cause, un trascendere il fenomeno attraverso l’emergenza epifanica, l’invenzione singolare dell’esistere. La condizione animale è un continuo porre a sintesi “scansioni temporali” differenti e moventi altrettanto diversi, per cui il suo porsi nel momento, la sua presenza, si realizza nel non essere mai interamente compreso nell’istantaneità della funzione. Paradossalmente l’animale può dire di esserci, cioè di avere una presenza, perché non interamente spiegabile facendo riferimento a meccanismi causali agenti nell’istante in cui lo si considera. L’essere animale è pertanto un continuo desiderare, l’azione di un’infaticabile Penelope che mette in relazione cause prossime e cause remote, moventi filogenetici e moventi ontogenetici, motivazioni inerenti e opportunità contestuali, in un flusso diacronicorelazionale dove l’animalità si manifesta in questa presenza connettiva piuttosto che nella funzione in sé. Diciamo che l’animale è soggettivo perché sfugge all’oggettività delle cause agenti nell’istantaneità. di Wilhelm Reich
Esiste un qualche legame fra la psicoanalisi di Freud e il materialismo dialettico di Marx ed Engels? Rispondere a questa domanda, scoprire questi legami, se essi esistono, è lo scopo che ci proponiamo. La nostra risposta ci autorizzerà anche a dire se si possa aprire una discussione sui rapporti della psicoanalisi con la rivoluzione proletaria e la lotta di classe. Non appena si abbandona il terreno peculiare della psicoanalisi e specialmente quando si tenta di applicarla ai problemi sociali, la si trasforma immediatamente in una Weltanschauung, una concezione del mondo, una specie di filosofia; essa prende allora la forma di sistema psicologico, di sistema che, contrariamente al marxismo, preconizza il regno della ragione e pretende di migliorare il divenire sociale per mezzo di una regolamentazione tesa al controllo cosciente degli istinti. Questo razionalismo utopistico - che tradisce d’altronde una concezione individualistica del fenomeno sociale - non è né originale né rivoluzionario ed esula dalla competenza della psicoanalisi. Quest’ultima, secondo la definizione del suo stesso fondatore, è soltanto un metodo psicologico che, servendosi di procedimenti scientifici, cerca di descrivere e spiegare la vita psichica intesa come un dominio particolare della natura. Poiché non è un sistema filosofico, poiché non è nemmeno capace di generarne uno, la psicoanalisi non potrebbe né sostituire né completare la concezione materialistica della storia. Scienza naturale, essa non ha niente in comune con le concezioni storiche di Marx. Il vero oggetto della psicoanalisi, tuttavia, è la vita psichica dell’uomo divenuto essere sociale. Essa non si occupa della psicologia delle masse se non in quanto vi appaiono fenomeni individuali (problema del capo, per esempio) e in quanto, grazie alle sue esperienze sull’individuo, essa può spiegare le manifestazioni “dell’anima delle masse” quali la paura, il panico, l’obbedienza, ecc. Ma il fenomeno della coscienza di classe sembra esserle appena accessibile, e problemi come il movimento di massa, la politica, lo sciopero, che sono di competenza della sociologia, sfuggono al metodo psicoanalitico. Esso non può quindi sostituirsi alla sociologia, né trarre da sé una dottrina sociologica. Tuttavia, rispetto alla sociologia, può esercitare la parte di scienza ausiliaria, sotto forma di psicologia sociale, per esempio. La psicoanalisi può scoprire le cause irrazionali che spingono una natura di capo[1] ad accostarsi al socialismo piuttosto che al nazionalismo, e viceversa; essa può anche distinguere l’influenza delle ideologie sociali sullo sviluppo psichico dell’individuo. Le critiche marxiste hanno dunque ragione quando rimproverano a molti psicoanalisti di voler spiegare quello che, con il loro metodo, non è spiegabile; ma hanno torto quando identificano il metodo con coloro che lo applicano e quando gli fanno carico degli errori commessi da questi ultimi. di Maria Fernanda Alonso
Il Dr. Dainius Pūras, principale portavoce dell’ONU sulla salute, ha sostenuto che le misure per combattere la disuguaglianza e la discriminazione sarebbero più efficaci nella lotta contro le malattie mentali dell’enfasi posta sui farmaci e sulla terapia negli ultimi 30 anni. L’austerità, la diseguaglianza e l’insicurezza lavorativa non solo sono dannose per la salute mentale, ma la suscitano («United Nations Official Document», s. f.). Dalla crisi finanziaria del 2008, le politiche che hanno accentuato la divisione, la diseguaglianza e l’isolamento sociale sono state dannose per l’equilibrio mentale. “Le misure di austerità non hanno contribuito positivamente alla buona salute mentale”, ha detto Pūras. “Le persone si sentono insicure, si sentono ansiose, non godono di un benessere emozionale a causa di questa situazione di insicurezza”. “Il modo migliore per investire sulla salute mentale delle persone è creare un ambiente favorevole in tutti i contesti, nella famiglia, nel luogo di lavoro. Poi, certamente, c’è bisogno di servizi [terapeutici], ma non devono essere basati su un modello biomedico eccessivo”. Aggiunge che questa sarebbe il miglior “vaccino” contro le malattie mentali, e segnala che sarebbe molto meglio dell’eccessivo uso di farmaci psicotropi che si registra attualmente. Intervista a Eduardo Colombo di Claudio Albertani e Rafael Miranda A colloquio con uno dei pensatori anarchici più stimolanti degli ultimi decenni, argentino residente da 40 anni a Parigi, psichiatra, militante anarchico. Claudio Albertani – Già prima di lasciare l'Argentina eri un militante libertario e, al tempo stesso, psicoanalista. Potresti parlarci un po' del tuo percorso? Eduardo Colombo – Il mio impegno politico iniziò molto presto, già alla scuola secondaria. La passione libertaria si acutizzò per le condizioni in cui vivevamo allora sotto la dittatura. Aderire all'anarchismo fu quasi naturale, perché era un'idea molto viva nella storia operaia dell'Argentina. Quando entrai nella facoltà di Medicina, lo studio universitario e la militanza non erano in contraddizione, fino a quando nel corso di lunghi scioperi fui incarcerato. Uscito di prigione, scoprii che mi avevano fatto scomparire come studente di medicina – insieme a molti altri, mi avevano cancellato del tutto illegalmente dai registri della facoltà – e dovetti aspettare un po' di tempo, una tappa non esente dalle solite persecuzioni poliziesche. Quando alla fine riuscii a laurearmi, mi orientai verso la psichiatria, ma mi interessai anche di sociologia e psicologia. Seguivo le lezioni di Enrique Butelman, (1) lavoravo come libero professionista e all'interno dell'ospedale pubblico. Alcuni anni dopo fui nominato docente di Psicologia sociale nella Università nazionale di La Plata e poco dopo nella Università di Buenos Aires. Nel 1966, quando Juan Carlos Onganía fece il golpe militare, la polizia entrò in tutte le facoltà picchiando studenti e professori e io abbandonai definitivamente l'università, saltando da una finestra della facoltà di Filosofia. Poiché, da molti anni, ero anche redattore di “La Protesta ”, il periodico anarchico di Buenos Aires, la situazione divenne difficile, perché non potevo lavorare né all'università né all'ospedale. D'altro canto, avevo già cominciato la mia formazione psicoanalitica, che terminai dopo essere giunto in Francia. In Argentina, i parametri della pratica psicoanalitica erano fissati dalla Asociación psicoanalítica internacional, il che significava, quattro sedute di cinquanta minuti alla settimana, e implicava la disponibilità di molto tempo e di molte risorse economiche, perché, benché fossi medico e psichiatra, disponevo di pochi mezzi per pagare un'analisi: l'università non pagava regolarmente e il lavoro quotidiano nell'ospedale, finché esistette, era a titolo gratuito. Alla fine, la situazione generale in cui ci trovavamo, unita al panorama politico colmo di nubi tempestose, fecero sì che la mia compagna Heloísa e io decidessimo di emigrare. Arrivammo a Parigi nel 1970, con due figli di cinque e sei anni. Questo è l'intervento che ho proposto all'Assemblea sulla Ricerca con la Concezione Operativa di Gruppo che si è svolta a Madrid dal 26 al 29 aprile 2018. Il titolo del lavoro che ho presentato è "La scuola dei capri espiatori, e lo si può vedere a partire dal minuto 54:40. di Gabriella Lanza
Con l’aiuto di due psicologi abbiamo cercato di capire perché sempre più genitori ricorrono alla violenza contro gli insegnanti per difendere le ragioni dei propri figli e come bisogna intervenire quando ad essere aggressivi sono gli alunni stessi C'era un tempo in cui ai genitori non importava se i figli avessero ottimi motivi per essere arrabbiati con il professore di matematica o se la professoressa di italiano li rimproverasse ingiustamente. La loro risposta non cambiava: l’insegnante ha sempre ragione. Oggi, invece, l’alleanza educativa tra famiglia e scuola sembra vacillare. E le reazioni di mamma e papà davanti alla nota della maestra sono ben diverse. Il più delle volte si limitano a protestare con l’insegnante o con il preside, ma nei casi più gravi possono perfino alzare le mani contro il docente. È successo a gennaio in un liceo di Avola, dove i genitori di un ragazzo hanno spaccato la costola all’insegnante di educazione fisica, colpevole di aver invitato l’alunno a chiudere la finestra prima di scendere in palestra. In questo triste e vergognoso elenco, uno degli ultimi casi in ordine di tempo è l'aggressione contro un professore ipovedente di un istituto di Palermo: il padre di una ragazza l'ha colpito con un pugno in volto, causandogli una emorragia cerebrale. Per quali motivi si arriva alla violenza fisica contro gli insegnanti e come deve comportarsi il resto della classe in questi casi? Lo abbiamo chiesto a Lorenzo Sartini, psicologo e psicoterapeuta. Riconoscere il ruolo educativo dell’insegnante Una delle radici di questo problema è di natura "sociale". Per i docenti è sempre più difficile farsi rispettare in classe e a volte i primi a non riconoscere la loro figura professionale sono i genitori: «Una volta l’insegnante aveva un ruolo educativo definito e importante. Oggi è considerata una persona che non è riuscita a fare quello che voleva, viene pagata poco e ha un riconoscimento sociale precario. A questo si aggiunge il rifiuto dei ragazzi nell’interiorizzare l’autorità che viene sistematicamente messa in discussione, prima a casa e poi in classe».
di Gianluca Ferraris
Per la prima volta dal 2010 aumentano i giovanissimi che consumano marijuana e hashish. Droghe sempre meno leggere e sempre più pericolose. Perché vengono assunte già a 12 anni e spesso insieme ad alcol e altre sostanze. Quasi 7 milioni di fumatori complessivi, quasi 1,5 milioni fra gli under 25. Per dirla nel modo più semplice possibile, in Italia 1 adulto su 9 e 1 giovane su 5, si sono fatti almeno uno spinello nel corso del 2016. Se nel nostro Paese i numeri del consumo di cannabis - messi in fila dall’ultimo report dell’Osservatorio sulle tossicodipendenze e dal rapporto al Parlamento del Dipartimento politiche antidroga di Palazzo Chigi - mantengono proporzioni più o meno stabili, a preoccupare è un altro trend: per la prima volta dal 2010 a oggi i consumatori nella fascia compresa fra 15 e 19 anni, la più vulnerabile, sono cresciuti in maniera esponenziale passando da 547.000 a 675.000. Cioè dal 21% al 27% dei giovani della loro età. I ragazzi sono inesperti Il consumo di hashish e marijuana avrebbe a che fare con gli ultimi casi di cronaca in cui sono morte 2 adolescenti: una 14enne di Milano caduta da una balaustra a causa di un malore dopo aver fumato e una 16enne di Genova uccisa al termine di una serata nel corso della quale, però, alla cannabis si sarebbero aggiunte alcol e metanfetamine. «Il problema, parlando in generale, è quasi sempre questo» osserva Lorenzo Sartini, psicoterapeuta bolognese con una lunga esperienza nei Sert e nelle scuole. «L’assunzione non solo è sempre più giovane e inconsapevole, ma viene spesso associata al consumo di altre sostanze, come le droghe sintetiche e l’alcol». È ovvio però che in un Paese come il nostro, che solo lo scorso marzo ha ammesso l’uso della cannabis a scopo terapeutico e da anni dibatte sulla legalizzazione, almeno parziale, delle droghe leggere, gli effetti delle canne sugli adolescenti - dai presunti danni clinici di lungo periodo al ruolo di apripista per altre dipendenze - continuano a preoccupare i genitori. |
Settembre 2022
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